sabato 8 dicembre 2018

Shanghai

SHANGHAI
Pensare che in questa megalopoli risieda praticamente metà Italia mi fa’ un po’ impressione: caspita 32 milioni di abitanti in questo puzzolente, per via dello smog, posto nel mondo! E non si può certo dire che “non sembra” che ci siano tanto persone, perché ogni strada, ogni linea della metropolitana, ogni marciapiede, ogni cementato centimetro quadrato straripa di esseri umani ad ogni ora del giorno e della notte, in qualsiasi giorno della settimana, con qualsiasi condizione atmosferica. Tante piccole formichine che si muovono in gruppi sparsi, con gli occhi sempre fissi sul proprio smartphone, con poca voglia di guardarsi intorno e per nulla incuriositi, rispetto alla gente di Fuyang, dalla nostra presenza, che in questa mega città passa inosservata, considerando quanti altri occidentali qui vivono, lavorano, passano. Eppure, nonostante tutta questa gente, in due giorni Shanghai mi ha regalato due sorprese a dir poco incredibili, di quelle che mi fanno esclamare con un leggero accento francese che “il mondo è una scoreggia”: venerdì pomeriggio, liberi da impegni, stavamo girovagando nella zona della concessione francese, alla ricerca di un mercatino che ricordavo aver visitato nel corso delle missioni precedenti, luogo che ritenevo utile per soddisfare il desiderio di shopping compulsivo dei miei compagni e allo stesso tempo piacevole da frequentare. Purtroppo però, non avendo l’indirizzo preciso, stavamo camminando da ore un po’ a caso, quando, attraversando una strada, incrociamo due ragazzi del marketing di Inter! Gente che a stento riusciamo ad incontrare e salutare quando siamo in sede a Milano, che invece incontriamo quaggiù! Incredibile. Loro qui per seguire il presidente al salone del mobile di Shanghai, noi per inter campus, incrociati su di un marciapiede per estremo caso. Ma, senza nulla togliere a Laura e Tal, l’incontro fortuito che più mi ha emozionato è stato il secondo: la mattina dopo aver incrociato sulla mia strada i colleghi milanesi, esco presto per allenarmi e, come sempre in questa città priva di parchi e zone per correre, mi dirigo seguendo per un tratto il fiume, verso il “mio” mini spazio chiuso di 300 mt circa, unico angolo di quiete dove dar fondo alle mie energie. Verso la fine del mio programma di ripetute incrocio lo sguardo di un signore che mi sorride, che mi ricorda qualcosa, ma che non riesco a collegare a niente, forse anche per via della stanchezza diffusa, fino a quando non è lui ad attirare la mia attenzione chiamandomi per nome. “Alberto, how are you?”. Wow, phil, incredibile! Phil è un signore che ho incontrato ormai un anno fa in questa città, sempre mentre mi allenavo, con cui ho scambiato quattro chiacchiere, che mi ha raccontato un po’ di se’ e che mi aveva tristemente confermato che l’unico posto dove correre era proprio quello che avevo appena scoperto. Un incontro piacevole e casuale, che non pensavo certo di rinnovare e che invece ho avuto modo di ripetere per non so bene quale coincidenza astrale. Ecco, non so dire quale significato ci sia dietro, se c’è un significato, se qualcuno voleva dirmi qualcosa, farmi capire qualcosa, ma rivederlo per pochi minuti mi ha fatto un super piacere. Grande Phil, ci vediamo tra sei mesi…se ritornerò ancora su questo campo del mondo.


mercoledì 5 dicembre 2018

Le bambine cinesi


IN CAMPO
Mentre a Fuyang avevo con me il mitico Lu durante l’allenamento che traduceva ogni mia richiesta, spiegazione, correzione ai bambini, seguendomi tutto il tempo come ogni buon traduttore fa’ normalmente in campo (poverino: considerando quanto mi muovo in campo quel povero ragazzo in due allenamenti deve aver camminato più che negli ultimi sei mesi della sua vita), a Shanghai siamo rimasti senza “accompagnamento”, per cui mani, espressione del viso, dimostrazioni e qualche parola di inglese da loro conosciuta sono stati l’unico mezzo per comunicare con efficacia coi bambini delle due scuole dove lavoriamo. Ma essendo le nostre culture molto distanti, assolutamente diverse, il non verbale nostro e il loro non sono molto in linea e anche i gesti sembrano significare cose diverse, per cui…che difficoltà! Non volendo abbassare il ritmo e l’intensità della seduta, viste anche le enormi difficoltà nel rapportarsi al pallone di ciascun bimbo, ho cercato di semplificare al massimo ogni proposta e di rendere il tutto il più intuitivo possibile, per far si che fossero loro, direttamente, a capire cosa fare e a provare come fare, come eseguire, soddisfare la richiesta, ma…ho sottovalutato le difficoltà dei ragazzi, ahimè. O meglio, non ho considerato il fatto che, per lo meno per la mia esperienza accumulata negli anni in cina, i bimbi sono abituati a ricevere “ordini”, indicazioni molto chiare e dirette, senza grossi spazi per interpretare, per intuire appunto, per cui di fronte alle mie semplicissime richieste, che però chiedevano loro di partecipare attivamente con la testa all’esercizio per capirlo e risolverlo, il risultato iniziale è stato un grande gioco delle statue. Tutti fermi che mi guardavano come se fossi un alieno sceso da Marte! E più io mi muovevo ed eseguivo per loro l’esercizio, meno loro si muovevano, capivano e partecipavano: tante piccole statuine del presepe sul campo della scuola. Attimi di sconforto hanno quindi preso posto sul bel terreno di gioco a nostra disposizione prima che non trovassi il modo per farmi intendere: avendo individuato la ragazzina più sveglia di tutti (come sempre una bimba, c’è poco da fare, Anna mi insegna: hanno una marcia in più), mi sono concentrato su di lei per farne “la modella”, colei che avrebbe spiegato per me al gruppo il tutto e così a volte prendendola per mano tra le risate nascoste del gruppo, a volte accompagnandola nello spazio che volevo loro coprissero in guida, a volte semplicemente sorridendole e applaudendo ogni sua azione corretta, piano piano sono riuscito a conquistarla e farne la mia “traduttrice” personale, la mia assistente per tutta la seduta, rendendomi un po’ più semplice il lavoro e permettendomi di dar forma a tutti gli esercizi che avevo in mente per loro, portandomi così alla fine a raggiungere l’obiettivo: farle divertire e nel contempo insegnar loro qualcosa. Certo, non ho la certezza che il secondo obiettivo sia stato realmente raggiunto, ma aver potuto osservare come alcuni inizialmente conducessero sfruttando l’interno piede pur in guida rettilinea e al termine della progressione invece si impegnassero per realizzare questo gesto tecnico sfruttando la superficie per me più appropriata, da me suggerita, mi lascia ben sperare. Mentre per quanto riguarda il primo…be’, è la palla a far tutto: non ci si può non divertire quando si gioca con lei, quindi sorrisi, risate, esultanze varie le do’ abbastanza per scontate nel corso delle mie sedute, nel corso di un allenamento inter campus.
 


martedì 4 dicembre 2018

In aula

IN AULA
Alla fine anche questa volta ce la siamo cavata alla grande e tutti gli allenatori presenti, quasi un centinaio nei tre giorni, sono andati a casa contenti, soddisfatti, ma sopratutto con una nuova visione dell’allenamento, un nuovo punto di vista riguardo ciò che si può combinare sul campo, un punto di vista che non ho la presunzione di pensare ora faranno proprio, ma che penso abbia instillato in loro qualche dubbio affinché riescano, o per lo meno provino, a vedere il calcio non unicamente come mezzo per arrivare ad essere professionisti e soprattuto ad essere ricchi. 

Poi magari, tornati alla loro realtà, faranno propri solo i discorsi sul metodo per fasi, sul miglioramento del gesto tecnico oppure riutilizzeranno solo le esercitazioni, ma…sarebbe un peccato. Vista anche la loro partecipazione, le loro domande e il fatto che tutti sono “allenatori” parte di un progetto sociale già attivo, sarebbe un peccato, vero, continuare a limitare il loro intervento alla sola area motoria, anche se ogni giorno di più mi rendo conto che l’idea dominante di calcio in questo lato di mondo, che siamo sinceri, va a braccetto con quella con cui mi scontro quotidianamente anche a casa mia, risiede anni luce da quella che invece è propria di inter campus e di tutti i suoi allenatori, il sottoscritto per primo, per cui capisco che uscire dalla loro visione delle cose dopo soli tre giorni possa essere difficile, forse impossibile, ma…chissà. Noi ci si prova. Penso poi che questa volta l’aver chiesto loro di partecipare ad una seduta nelle vesti del bambino sia stato ancora più utile rispetto al solito (onestamente non credo in questo genere di role playing) per cercare di far capire cosa significa realmente, nel concreto, vivere un allenamento inter campus, giocare e divertirsi mentre si corre, si pensa si collabora e quindi si impara. Insomma…mentre si gioca a calcio! Vedremo al nostro ritorno qui se qualcosa è cambiato. Nel frattempo metto in valigia anche questa esperienza, utile per me e per il mio futuro da allenatore e da uomo. Avanti così. 


lunedì 3 dicembre 2018

A tavola

CINA
a cena
…ma anche a pranzo, la storia è sempre la stessa: si mangia maluccio da queste parti. Per carità, di fame certo non si muore, ma i sapori dei piatti che senza sosta, con estrema cortesia e ospitalità ci portano al tavolo, non sono proprio di mio gusto. E mi spiace perché loro sono molto gentili e ci tengono molto a metterci a nostro agio per farci “godere” fino in fondo le prelibatezze della loro cucina, per cui con le bacchette di cui ormai sono preciso utilizzatore, assaggio tutte, o quasi, le portate, ma non riesco a trovare nulla che possa definire buono, piacevole fino in fondo. Se non…il the. Già, perchè a tavola si beve necessariamente o the, oppure…acqua calda! Bei bicchieroni di acqua calda a mezzogiorno che però a cena (alle 18, tipo ospizio) lasciano il posto a bicchierini di grappa, che loro ritmo incessante si scolano, certo non prima di averti chiesto di partecipare con loro ad un brindisi. Ed è un continuo alzarsi in piedi, ringraziare e…bere. Casco in questo gioco la prima sera, anche se dopo tre brindisi inizio a fingere, così da non essere costretto ad ubriacarmi e allo stesso tempo senza offendere nessuno, perché poi, forte delle esperienze passate, mi spaccio per astemio e lascio gli onori a Dario, che con gusto tiene testa a dei veri professionisti della sbornia come i nostri commensali. E così con piatti di budella di maiale, o di “pappardelle” di cotenna di maiale, o di una specie di porridge fatto con uva e…fagioli, o di una strana patata (così ce la spacciano) gelatinosa e trasparente, che girano in continuazione sul tavolo (girano letteralmente: il tavolo tipico, così come nei nostri ristoranti cinesi, ha al centro una parte che gira, per cui le portate passano tra i commensali senza che nessuno si alzi mai da tavola), il mio compagno di avventura, che a differenza mia che assaggio semplicemente tutto, mangia abbondantemente qualunque cosa, si lancia in una sfida all’ultima goccia con quello che è un po’ come il presidente della regione per noi, ritirandosi , pur comunque tenendogli testa solo dopo una dura battaglia a causa della mia pressione, visto che domani la giornata sarà ancora piuttosto intensa e mi dispiacerebbe affrontarla in solitaria. 


sabato 1 dicembre 2018

Non si arriva mai in Cina!

CINA.
Viaggio infinito
In tanti anni di viaggi è la prima volta che mi capita di lasciare casa di domenica per salire in aereo e arrivare a destinazione solo il martedì mattina! Per “guadagnarmi” anche questa stella è stato sufficiente tornare in China, per la precisione tornare a Fujiang: per arrivare qui è stato infatti necessario passare da Shanghai, dormire all’hotel dell’aeroporto, per riprendere il volo il mattino seguente alle 6 e concludere così definitivamente la traversata. Per fortuna poi ci si ripos…MIAO. Macché riposo: arrivate nella “piccola”, per loro, città della provincia Zhejiang ,di soli 2 milioni di abitanti, veniamo prelevati immediatamente dai ragazzi di Amity foundation con cui lavoriamo per andare alla scuola rurale fuori città, dove gli studenti e un sacco di autorità ci aspettano per l’annuncio ufficiale della collaborazione e quindi del sostegno di Inter Campus alle scuole che già sono inserite nei programmi di Amity e Suning, il programma 1+1.
Si passa quindi dal sedile dell’aereo a quello dell’auto, dove rimaniamo per circa un’ora, prima di essere accolti da centinaia di bambini schierati tipo soldatini e per assistere ad una lunga e noiosissima cerimonia, completa di mille discorsi a pugno chiuso. Chiusa la lunga “celebrazione” si va finalmente in hote…MIAO ancora. Si rimonta in macchina e si va direttamente alla scuola dove daremo forma al corso, coi 138 allenatori che ci aspettano ansiosi. E così, con ancora le valige appresso, si inizia, accompagnati nelle nostre spiegazioni dal traduttore, per fortuna, Lu, un ragazzino di 22 anni che nelle espressioni mi ricorda Hello Spank! Stanchezza e fuso orario non si fanno sentire e per due ore filate parliamo ai mister che abbiamo davanti, sfruttando anche un paio di giochini per meglio far arrivare i nostri concetti, le nostre idee sull’allenamento e sul ruolo del coach nella crescita, nello sviluppo del bambino; tutto fila via liscio, ci divertiamo in aula e anche loro si dimostrano interessati e divertiti, coinvolti, e finalmente riusciamo ad andare in hotel! Dopo praticamente due giorni vestito allo stesso modo e senza essere riuscito a correre, scopro insieme a Dario la palestra al terzo piano e la facciamo mia: un bell’allenamento pre cena e ciò che più di ogni altra cosa, in questo momento, voglio!


lunedì 5 novembre 2018

Helloween


HELLOWEEN
Mi aspettavo del casino, ma certo non così! La 6th chiusa completamente per la parata, la 5th strapiena di gente, soprattutto da flatiron in giù, tutti mascherati e tutti super eccitati per questa…stronzata, altro non è che una stronzata, dai. Già perchè helloween a me sembra proprio una tavanta galattica, come direbbe ezio greggio nella sua asta tosta, un carnevale all'ingrosso, ma a loro piace da matti; piace talmente tanto che tutti, ma proprio tutti, sono mascherati: bimbi in passeggino (poverini), bimbetti, pre adolescenti, adolescenti, fino anche ad anziani! Si, si, anziani: abbiamo incrociato due coppie che avranno avuto almeno 65 anni, travestiti da dame le donne e Luigi XVI gli uomini, con tanto di parrucche i secondi e ampia gonna le prime! Dai, bagai, voi siete fuori tempo massimo!!! Ripigliatevi! In attesa poi dei nostri ospiti, fermi davanti al ristorante decidiamo di fare due passi in più, non contenti dei 3700mt percorsi fin qui, per arrivare sulla sixth e assistere alla parata che a flusso costante sta invadendo la via, e constatare di persona quanto tempo e quanta passione siano stati impiegati per questa serata: dinosauri, hero 5, Goku super sayan, cappuccetto rosso e la nonna, biancaneve, morti a non finire, scheletri e zombie vari, una carrellata di maschere infinita tipo carnevale, appunto. Già, perchè altro non mi è sembrato tutto ciò che una enorme e ben orchestrata carnevalata, per quanto divertente e bella da vedere, seppur con il costante quesito nella mia testa: ma perchè? perchè travestirsi? Capisco i bimbi, che giocano con la parrucca, con la bacchetta, le alette o il vestitino, ma…gli adulti. Ma dai!!! 


sabato 3 novembre 2018

Children of promise

BROOKLYN BUSHWICK
Dai che ci siamo! Lo dicevo proprio ieri, anzi lo scrivevo e l’incontro di oggi mi ha dato ancor più fiducia. Children of promise si chiama l’ONG e lavora in questo quartiere afroamericano di Brooklyn con bambini figli di genitori in carcere. Bambini dai 6 ai 13 anni, esattamente come noi, che a causa dell’incarcerazione della mamma, del papà o di entrambi, vivono sballottati da un parente all’altro, senza guida, riferimento, senza controllo e sostegno, senza…nulla e nessuno. L’ong però cerca di provvedere e da’ loro un luogo dove studiare finita la scuola, dove fare sessioni di arte terapia, dove essere seguiti da psicologi e dove poter videochiamare i propri genitori! Questa è la cosa più forte tra tutte: alcuni di questi bimbetti non vedono, non vedevano, mai la propria mamma o il proprio papà, per via o di una loro carcerazione restrittiva oppure per l’ impossibilità di raggiungerli in prigione e così alcuni hanno passato anche due anni senza mai vedersi, salutarsi, toccarsi, annusarsi (si, annusarsi: sentire l’odore di Anna è una delle cose che più mi riempie al mondo, quindi pensare di non sentirne l’odore per due anni…madonnina!!!), parlarsi. Fortunatamente i social, le nuove tecnologie non fanno danni e in questo caso anzi tornano super utili, aiutando queste persone seppur per breve tempo. Children of promise organizza inoltre altre mille attività bellissime dedicate a questi bimbi, ma, eureka, non propone nessun programma di calcio! E nella chiacchierata di stamane si sono dimostrate interessate e felici di inserire inter campus. Calma però, aspettiamo ad esultare. La mia pragmaticità e concretezza, unite all’esperienza e alla assoluta praticità della ragazza responsabile delle attività dei bambini con cui abbiamo parlato, mi hanno infatti portato a chiedere, in accordo con Paolo, di fare un sondaggio tra i possibili futuri intercampisti, per capire quanti tra i 175 che fanno parte dell’associazione sarebbero disposti a giocare con noi e soprattutto di presentarci entro un paio di settimane almeno un paio di possibili alleducatori, spiegando loro nel dettaglio ciò che cerchiamo. Insomma: ok, forse ci siamo, ma non precipitiamo, facciamo le cose per bene. Buone le sensazioni, buone le premesse, ora vediamo di concretizzare il tutto. Usciamo dalla loro sede piuttosto soddisfatti e accompagnati dall’ormai quasi costante odore di marijuana che da quando son qui si palesa in almeno in un paio di occasioni quotidiane, e a piedi ci incamminiamo verso…verso niente. Camminiamo parlando e discutendo un po’ della situazione, passando per Williamsburg, quartiere ebreo ortodosso di Brooklyn, e Green point, dove Paolo ha vissuto per cinque mesi e culla della moda hipster, un quartiere giovane, molto “trendy”, ma nonostante tutto carinissimo. Oggi è il 31, quindi ovunque ci sono nani mascherati (nani=bambini piccoli) a caccia di dolci, accompagnati da adulti, anch’essi travestiti (il più figo era mr duff man! Uguale) e tutto ciò rende il tutto ancora più caratteristico, più americano. E questa sera saremo a Greenwich village a cena: chissà che cinema, visto che li fanno anche la mega parata con le maschere. Sono pazzi questi americani.


venerdì 2 novembre 2018

Second day in New York


SI RICOMINICA
Devo ammettere che della super intensa giornata di ieri, la cosa che più mi ha messo in difficoltà è stata l’impossibilità di allenarmi: uscendo alle 7 dall’hotel e rientrando alle 21, non ho avuto modo di fare la mia quotidiana sgambata (vero, potevo alzarmi prima, ma avendo 9 ore di volo nelle gambe e 5 ore di differenza sull’ora italiana, ho pensato fosse meglio riposare un po’ di più) e la cosa si è fatta sentire. Per lo meno nella mia testa. Oggi essendoci alzati alle 6 per prendere il treno alle 6:40 la cosa mi risultava ancora meno realizzabile, ma fortunatamente il programma si è concentrato nella sola mattinata, quindi saltando a pie pari il pranzo, il nostro ritorno in hotel si è concretizzato alle 14, permettendomi prima dell’incontro delle 16 con Pirelli di uscire e tuffarmi in central park per tagliare il traguardo della maratona durante il primo mille, maratona che si svolgerà domenica e che ha già tutti gli striscioni e le bandiere varie pronte…per i pirla come me, che non potranno partecipare domenica, ma che vogliono alimentare il proprio sogno. Corsa a parte, mattinata interessante anche oggi, con diversi incontri tra scuole e progetti di pre e post scuola dedicati ai bambini.  In tutti, però, è emerso ciò che descrivevo ieri: soccer come strumento sociale = partite libere sotto la supervisione dell’educatore. Nulla più. Se si parla di allenamento, si parla di competizione, di vittoria o sconfitta e non è ciò che questi programmi ricercano. E spiegarglielo è difficile, difficilissimo. Forse inutile mettercisi. Lo dico per esperienza, visto che vengo su questi campi del mondo a provare a far giocare i bambini con il metodo inter campus dal lontano ottobre 2013. Ma…anyway, si può riprovare. Ciò che cerco però è un programma che lavora con bambini, ma che non ha tra le sue “frecce” quella dello sport, così da poter partire da zero e introdurre senza alcun “rischio di fraintendimento” il nostro modello, il nostro metodo di lavoro. E tutto ciò che ho visto fin qui non risponde a questa mia fondamentale necessità. Ma, ancora una volta: vediamo. Inter campus si adatta in ogni dove, quindi qualcosa di valido (finalmente oserei dire) riusciremo sicuramente a mettere in piedi io e Paolo. Si sta lavorando bene insieme, ci si diverte, sempre però puntando all’obiettivo: son fiducioso (o speranzoso?). Danny poi mi piace, quindi non vedo perchè non dovremmo trovar qualcosa. Avanti tutta. 


giovedì 1 novembre 2018

Mont Vernon


FIRST DAY IN NEW YORK
Inizio col botto nella grande mela: obiettivo della visita è trovare un nuovo partner con cui ricominciare i lavori, dopo il divorzio consensuale con uptown soccer, siamo a caccia di nuove opportunità, ben consci del fatto che qui il calcio non è proprio il primo sport in assoluto e soprattutto quando è associato alla parola “sociale” viene visto solo come “palla per aria e giocate liberi, of course in uno spazio sicuro (perché qui la sicurezza per i bambini è una vera ossessione). Si parte quindi alle 7 del mattino da central station (sempre affascinante questa stazione, vista e rivista in mille film, da Carlito’s way, fino a Madagascar; è sempre un rivedere, non uno scoprire questi posti), direzione mount vermont, oltre il Bronx, per incontrare Danny, presidente e fondatore di Backayard sport center, una ong che lavora in quella zona portando il calcio nelle scuole, o in supporto a progetti con bambini. La giornata è intensa, intensissima, senza un attimo di pausa, ma anche positiva e interessante; incontriamo un sacco di gente interessante e impegnata per costruire un mondo migliore, per lo meno per i bambini, e veniamo in contatto con un sacco di progetti bellissimi, tra cui spicca uno chiamato “shelter mont vernon” dedicato a ragazzini che sono appena usciti dal carcere. Li prendono in custodia, li portano nella loro struttura dove dormono e vivono insieme dovendo tenere pulita e in ordine la “casa”, facendo da mangiare, aiutati ovviamente da un cuoco vero, facendo le faccende, andando a scuola, una scuola speciale solo per loro, seguiti da mentor e educatori che li aiutano a studiare e a fare i compiti. Finiti tutti i doveri, il piacere è dato da Danny: un’ora di calcio, due volte la settimana, seguiti da un allenatore cileno. L’allenamento è un mischione, è un gran miscuglio di obiettivi e proposte anche non adatte al gruppo, ma poco importa: i ragazzi corrono, si divertono, non c’è nessun conflitto, nessun episodio di violenza, nemmeno verbale. Un momento veramente bello, pensando alla storia di questi ragazzini, a ciò che hanno fatto (impossibile davvero pensarli “criminali” mentre li vedo ruzzolare per terra sorridendo quando scoordinati e goffi provano a calciare la palla con i loro piedoni lunghi, “fasciati” da scarpe enormi da basket) e a ciò che potranno fare in futuro. Già, perché una volta che sei stato dentro il tuo futuro è piuttosto segnato: non puoi accedere quasi totalmente al mondo del lavoro, perchè la maggior parte degli impieghi ti sono vietati; sei senza famiglia, perchè per lo più questi ragazzini vivono in contesti famigliari in cui il padre normalmente è in carcere, o è alcolizzato o drogato, quando c’è, mentre la madre…più o meno vive allo stesso modo; sei senza amici, se non quelli della gang che ti ha fatto sbattere in carcere “per farti le ossa”, per formarti e farti crescere. Insomma, non hai nessuna altra opzione che non sia tornare a delinquere. O se no entrare in questi programmi e…provarci. È un vero peccato non poter collaborare con loro per via delle età, perchè qui il calcio farebbe davvero la differenza. Ma quell’uragano di Danny ha in serbo per noi altre mille proposte, quindi anche domani levataccia, ma sicuramente proficua, per lo meno per conoscere qualcosa di nuovo e crescere un pochino anche domani.


mercoledì 31 ottobre 2018

New York 2018

New York, ancora tu
…ma non dovevamo non vederci più? Invece…rieccomi qui, dopo un anno e mezzo dall’ultima visita, torno nella grande mela, alla ricerca di un partner valido col quale ripartire con il nostro progetto. Questa volta niente ESTA per me, non posso farlo: ho un timbro iraniano sul passaporto, quindi son dovuto passare dal consolato americano per un’intervista al fine di ottenere il visto e poter così mettere piede nella “terra della libertà”; al momento dello sbarco per questo motivo sono un po’ preoccupato e mi frullano nella testa mille pensieri sorti in considerazione della situazione attuale del paese: chissà quante domande mi faranno per i timbri che ho, chissà quanto tempo dovrò perdere, chissà quando riuscirò ad arrivare in hotel, chissà, chissà, chissà. Invece tutto si risolve in breve, molto più velocemente che con l’asta, poche domande, un bel sorriso e via, verso i taxi. Non devo nemmeno aspettare il bagaglio, perchè come sempre ho solo lo zaino con me, quindi sbarco alle 13:37 e alle 13:55 sono già sul taxi, direzione Lexington av. Benissimo. Così riesco ad allenarmi con calma, prima del primo appuntamento, fissato oggi alle 18. Arrivato in hotel, infatti, giusto il tempo per salutare Paolo, svuotare lo zaino e in trenta minuti sono nuovamente fuori, direzione central park! La strada la conosco, è semplice, per cui appena uscito inizio subito la risalita verso la 5th avenue, passando da park avenue e madison, per poi lanciarmi tra i mille e più passanti verso il grande polmone di Manhattan. Poco meno di un miglio dopo la mia partenza mi ritrovo già nel celebrassimo parco newyorkese, che decido di “circumnavigare” per completare il mio allenamento defaticante di oggi: visto che sono in piedi dalle 5 e visto che ho nelle gambe 9 ore di aereo, oggi mi godo “da turista” il giro del parco! E allora via, lasciandomi la pista del ghiaccio sulla sinistra (son già pronti a Natale, da queste parti) mi lancio tra i continui saliscendi del parco forse più famoso al mondo, gira intorno al lago e schivando le migliaia di persone che oggi han deciso di venire qui, rientro alla base passando davanti alla statua di Balto, per poi imboccare nuovamente la quinta strada e far ritorno a casa. Vero, non vale il “mio” parco di Monza, ma correre qui ha sempre un fascino speciale, ha sempre un gusto particolare: sarà per la moltitudine di persone che gira insieme a me lungo le strade, sarà per i palazzi giganti che si affacciano oltre le chiome rosse, gialli e verdi per via dell’autunno, sarà per qualsiasi altro motivo, ma questa città, per quanto non mi piaccia, ha sempre un gran fascino.


venerdì 12 ottobre 2018

domenica 7 ottobre 2018

La Bania


LA BANIA RUSSA
Dopo allenamento e alla fine della giornata Sasha (qui ogni tre persone una si chiama così), il papà di Antonia, un uomo grande e grosso, col viso tondo, un bel sorriso sempre stampato in volto, gentilissimo e molto ospitale, ci invita a casa sua, appena fuori città, dove insiste per farci provare la sua bania e farci vivere l’esperienza della sauna tradizionale russa. Insiste, in realtà non è che abbia dovuto poi insistere così tanto con me: la sauna e l’esperienza del caldo assoluto che si vive li dentro mi piace e anche negli altri paesi inter campus dove ho avuto modo di provarla mi son sempre divertito, mi è sempre piaciuta, quindi appena mi è stata proposta, ho accettato di buon grado. Quando poi mi è stato proposto un trail nel bosco di circa sei km prima di tutto, non ho fatto fatica ad accettare. E così, giusto il tempo di tornare in hotel, preparare le cose per correre e per il post, ed eccoci in questo parco fuori città, con questi sentieri che si arrampicano nel bosco su e giù dalle colline, a correre con Cyril, il fratellino di Antonia, un vero tosto di dieci anni, già invasato per corsa e sport, che tutti i giorni si allena lungo questi percorsi. Fa un po’ freddo, ci saranno forse sei gradi, c’è molta umidità, ma il bosco, la corsa sul sentiero, il ritmo blando (ha dieci anni, ma in piano riesce ad andare a 4:50 al km il nanetto) rendono il tutto piacevole ed estremamente rilassante. Un po’ meno rilassanti sono le super salite che ci riserva il bosco, ma rientra tutto in ciò che considero divertimento e che ci porta a chiudere l’anello stabilendo il record per il giovane atleta sul giro, strastimolato dalla presenza del futuro marito della sorella e da quest’altro “vecchio” (tua sorella) italiano corridore. Ora però viene il bello: chiusa la corsa con un po’ di trazioni, qualche tricipite alla sbarra e dello stretching (fighissimo questo parco, attrezzato per tutti gli sport e aperto, pubblico), ci si tuffa in sauna; la casa è vicinissima, giusto il tempo di fermarci a comprare la carne per la cena ed eccoci in costume, dentro questa costruzione in legno di circa 6metri quadri, con tre scalini ove sedersi e una stufa che butta calore a più non posso. Il primo giro in sauna passa facilmente, complice anche il freddo accumulato durante la corsa nel bosco, per cui i quindici minuti trascorsi al caldo passano piuttosto facilmente. Poi si esce, doccia fredda e si inizia a mangiar qualcosa, in attesa del secondo giro. Un po’ più intenso: la “stanza” è arrivata a più di settanta gradi e si inizia a sudare veramente tanto. Ma a me piace quella sensazione e mi sento costretto ad uscire quando ormai tutti gli altri sono già fuori da un po’ (stare li dentro da solo non mi piaceva), per raggiungerli…in giardino! Si, in giardino, all’aperto, a circa 4/6 gradi, in costume. Temo la maledizione di montezuma, ma il caldo accumulato mi permette di star fuori per un bel po’ senza accusar problemi. Si rientra, si mangia ancora qualcosa e si passa al terzo turno: questa volta si entra uno alla volta, per passare sotto le sapienti mani del padrone di casa! Sasha infatti aspetta i suoi ospiti uno ad uno in sauna, li fa sdraiare e quindi con dei piccoli rami con foglie di quercia inizia…a frustarli. Si, davvero: a frustarli. Senza violenza, senza far male, ma per richiamare sangue e intanto l’aria caldissima che si smuove intorno aumenta ancora di più il calore percepito dalla pelle del “malcapitato” di turno. Ogni tanto questi rami vengono immersi in acqua e l’acqua viene sparsa sulla schiena, prima di ricominciare con le “frustate”, per concludere così il rito dopo circa dieci minuti. A questo punto esci, fai un giretto in giardino al freddo, rientri, ti docci et…voilat. Bello fresco e rilassato, pronto per finire di cenare. Bellissima esperienza. Certo, quando mi ha passato i rami sulla pianta del piede stavo per urlare, ma è stato comunque bella e piacevole tutta la serata. спасибо (grazie) Sasha!


martedì 2 ottobre 2018

Alla scuola "speciale"


30 bambini, 16 io e 14 Juri, tra i 6 e gli 8 anni, tutti con dei ritardi più o meno evidenti nello sviluppo cognitivo e conseguentemente motorio, chi per problemi legati all’ abuso di alcol da parte delle madri, chi perché maltrattato da piccolo, chi perché nato così e basta. All’inizio sono increduli, non capiscono bene perché io sia li, perché queste persone con la maglia dell’inter siano loro davanti con dei palloni e dei cinesini, perché stiano loro sorridendo e stiano mostrando un gioco da fare. Alcuni chiedono più volte se siamo davvero italiani, se davvero arriviamo da così lontano…per loro. Quando però iniziamo la seduta man mano che l’esercitazione prende il via, si sciolgono, ci seguono, ci sorridono, si divertono e, pur mostrando tutti i loro enormi deficit, tutti i loro importanti limiti, cercando di impegnarsi al massimo per apprendere. Scontato per me, come per chiunque altro di fronte a queste situazioni così diverse dalla propria, volare con la mente a migliaia di chilometri da qui e avvicinarmi ad Anna, alla sua e nostra fortunatissima condizione che con troppa semplicità, con troppa superficialità, consideriamo scontata, ovvia, normale, quasi dovuta. Quando con la testa torno nella palestrina della scuola la mia attenzione si sofferma su due bambini in particolare: Katia e credo Nikita, ma forse sbaglio il suo nome, che nel corso dell’allenamento hanno mostrato ancora una volta la forza della palla. La prima è una bimba di circa otto anni, che fatica a comprendere e ad esprimersi correttamente, si muove male (non flette quasi le ginocchia mentre corre , tallona in maniera spaventosa, ha il busto e le braccia rigide e con grande difficoltà riesce a legare insieme due movimenti, anche se elementari come il correre e il lanciare) e all’inizio è quasi spaventata dalla mia presenza. Io però la chiamo per nome, le sorrido, la sostengo con parole che lei non comprende, ma di cui coglie il significato e pian, piano si scioglie e si lascia prendere dal gioco. Il suo allenamento raggiunge l’apice quando nell’esercitazione con i tiri in porta decide di andare in porta e Juri la avvicina per darle dei consigli per stare tra i pali: lui diventa il suo riferimento, ogni volta che riusciva a fermare un pallone con le mani lo porgeva a lui e soltanto a lui e ogni volta che “parava” e veniva da noi gasata con applausi e urla, stringeva i pugni in segno di soddisfazione, sorridendo contenta. Un’altra bimba rispetto solo a mezz’ora prima e tutto per via di un pallone.
Il secondo è un bimbo di forse dieci anni, anche lui con un ritardo nello sviluppo cognitivo, spaventato, chiuso e molto fragile. Teme di sbagliare, si vede, e non vuole cimentarsi nelle prove che proponiamo. Quando prende il coraggio a due mani e decide di provarci manca miseramente il pallone e piangendo decide di uscire dal campo per sedersi. Inizia a dondolare, a piangere e, nascondendo le mani sotto le maniche lunghe, a sfregarsi le dita come se dovesse togliersi della polvere dai polpastrelli. Provo ad avvicinarmi, gli parlo in Italiano e non so perché lui pare capire, ma mi risponde sempre “niet” (provo a convincerlo a tornare in campo e giocare con noi, fregandosene dell’errore), fin quando una sua maestra prende il mio posto e lo abbraccia dolcemente. Rimane seduto ancora per un po’, poi decide di rientrare e anche lui decide di andare in porta. Visto il livello bassissimo di tutti i compagni riesce a “parare” qualche pallone (in realtà viene colpito dalle sfere malamente calciate dai compagni, ma chi se ne frega) e accompagnando noi l’impresa con applausi e sorrisi, anche lui, come la compagna, termina l’allenamento col sorriso. Per bacco, che forza questa palla magica.


Verso la Russia

TOCCO E RIPARTO
Giusto il tempo di lavare il materiale, stirare le polo di rappresentanza, archiviare nella memoria la positiva esperienza ungherese e rieccomi in aereo: destinazione Voronezh. Cinque giorni a casa son pochissimi, soprattutto per Anna, che in questo momento difficile per via dell’inserimento all’asilo ha bisogno e chiede esplicitamente la mia presenza, ma son stati comunque proficui per noi tre e credo di esser riuscito a darle un po’ più di sicurezza per affrontare questa nuova avventura e per riuscire a riprendere il via per un’altra missione senza troppi sensi di colpa. Senza troppi, si, ma qualcuno per forza di cose rimane in me bello vivo. Quando poi lei, come ha fatto la sera del mio ritorno, mi sussurra nell’orecchio “non te ne vai mentre dormo, vero?”, ecco che il senso di colpa diventa assoluto! Ma…va così. Questo ancora rimane il mio lavoro e non posso fare a meno di viaggiare per svolgerlo al meglio. Devo imparare a gestire meglio il mio calendario, questo è certo, ma i miei continui vai e vieni sono una costante nella mia vita da quindici anni e anche Anna imparerà a conviverci. Mi consolo sempre dicendole che “ogni mio ritorno è una grande festa; se fossi sempre a casa non ci sarebbe questa gioia nel riabbracciarsi”. Ma non so se la beve…
Anyway. Eccoci in marcia. Si torno in Russia dopo sei mesi, per verificare se i semi gettati nel corso dell’ultima visita hanno portato alla nascita di qualcosa di solido, di stabile, da cui ripartire per il progetto in questo lato di mondo. Una settimana intensa, in giro tra le tre scuole scelte insieme al partner locale e a Pirelli, accompagnati dai nostri mister, mattina e pomeriggio, sperando di non trovar sorprese come successe con la scuola con cui lavoravamo prima. Solo il campo potrà dircelo. E allora via, scendiamo anche su questi campi del mondo.   


lunedì 1 ottobre 2018

In viaggio verso Szendrolad

SZENDROLAD
Mi piace sempre tantissimo quando le missioni Inter campus prevedono trasferimenti interni al paese con noleggio auto e il mio impegno alla guida. Non so perché, ma è questa un’esperienza che mi fa sentire ancora più unito ai miei compagni di viaggio, che mi fa’ godere ancor più la trasferta, che funge realmente, almeno per me, da “team building”. Cercare le strade, trovare giochi, passatempo durante le ore di guida (vinto facile al gioco dei calciatori col bilanista e fornasier), parlare, raccontare, ascoltare le storie altrui…Mi piace sempre il viaggio in macchina, più di aereo o treno che sia e anche questa esperienza non è stata da meno: io alla guida, Paolo co-pilota e Lore libero di far tutto il disordine che voleva sul sedile posteriore, lungo le circa tre ore che da Budapest ci hanno portato a Szendrolad, questo villaggio sperduto sulle colline magiare, anzi tra le colline magiare. Già, perché i quasi duemila abitanti ufficiali vivono in questa valle grigia e un po’ decadente circondati da 4 colline che sembra vogliano celare agli occhi del resto del mondo la presenza di questa comunità rom, sembra che vogliano isolare dal resto del paese queste persone. Sembra, o è una scelta ragionata da parte del governo quella di chiudere in questo “ghetto” i poco graditi “roman”, come li chiamano qui? Non si sa, ma il ragionamento credo abbia una sua logica, alla luce della situazione attuale. Ma non è di politica che voglio parlare, ma della nostra attività su questo campo del mondo. Qui i bambini sono cento, tra gli 8 e i 13, che hanno solo inter campus per giocare, per svolgere attività sportiva, perché la “città” non offre nulla, non ha nulla: case quasi diroccate, nessun servizio, cani randagi in ogni dove e un campo da calcio con l’erba altissima e…in salita. Tutto qui. Ma a noi giusto un campo occorre e così dal 2011 siamo attivi anche qui, con le nostre due classiche visite, i nostri allenamenti e la nostra formazione, rivolta da sempre al mitico Gabor (una volta anche sindaco del paese), oggi accompagnato da Thomas e…non so scrivere il nome del terzo. In più qui riuscendo insieme a love is the answer ad organizzare anche un camp estivo sul lago Balaton cui partecipano tutti i nostri bimbi, sia quelli dell’orfanotrofio, sia i rom; un’occasione per tutti di uscire dal proprio “ghetto”, per socializzare, per conoscersi e magari riuscire anche ad interiorizzare qualche regolino utile per la convivenza civile. Già, perchè alcune elementari, per noi, norme di comportamento, da queste parti non sono tanto conosciute, per cui con una palla tra i piedi cerchiamo di fare anche questo. E mi sembra con qualche buon risultato. Certo che però ci si dovrebbe trasferire qui per sei mesi per dar una svolta vera al progetto in loco. Ma per ora non si può. Magari più avanti la mia idea di permanent coach potrà prender forma. Per ora cerchiamo di dare tutti noi


giovedì 27 settembre 2018

Cseppko

La prima impressione che ho mettendo piede nel "nostro" orfanotrofio è positiva, se questo è l'aggettivo corretto da utilizzare parlando di un luogo dove vivono centinaia di neonati, bambini, ragazzi, da 0 fino a 18 anni, chi rimasto senza genitori, chi abbandonato, chi ha il padre in carcere e la madre senza lavoro, chi "parcheggiato" qui, alcuni insieme a fratelli e sorelle, perchè i genitori non possono permettersi di mantenerli e vengono a prenderli solo nel week end per passare del tempo insieme, chi...chi e ancora chi. Storie complicate, terribili da ascoltare avendo davanti questi bimbi o queste bimbe e pensando alla nana che mi aspetta a casa e alla sorte differente che è capitata a noi; storie che ogni tanto riescono ad avere anche un lieto fine, con l'adozione e la rinascita in una nuova famiglia, storie che comunque grazie all'intenso e positivo lavoro di "love is the answer", nostro partner in loco, riescono a regalare tranquillità e un po' di serenità ai vari Attila, Marcus, David...Attimo di serenità che ogni settimana, per due giorni, viene loro portato dalla maglia neroazzurra e dall'allenamento realizzato insieme ai nostri mister, Balint e...Balint, che con grande passione, coraggio (si, coraggio, perchè entrare tutti i gironi in questa realtà richiede coraggio. Io non so se sarei capace di dare questa continuità, davvero) e sempre, grandissimi, con un bel sorriso si dedicano ai tre gruppi cui abbiamo dato forma, divisi per fasce d'età, proponendo allenamenti di un'ora, conditi da divertimento, ma soprattutto impegno e partecipazione. Assoluta partecipazione.
A volte anche troppa! Le storie alle loro spalle rendono tutti i nostri bambini/ragazzi piuttosto...delicati, per usare un eufemismo, per cui l'allenatore deve scendere in campo con mille occhi spalancati, attento a tutto ciò che accade sul campo, ad ogni espressione, ad ogni parola che vola, anche se non la si capisce, ad ogni situazione di gioco che potrebbe far scoccare la scintilla e far esplodere l'arsenale di energia e violenza che stiamo provando ad allenare. Quando son stato io a gestire la seduta ho giocato coi più grandi e alla fine dell'allenamento ero più stanco di quando domenica ho chiuso la mezza di Monza! Ho proposto esercitazioni in cui tutti erano sempre coinvolti, in cui la sfida con l'altro era sempre presente, in cui ogni giocatore non doveva solo correre e sfogare la propria energia, ma anche ragionare e collaborare coi compagni per raggiungere l'obiettivo e più di una volta si è sfiorata la rissa. Fortunatamente ho individuato subito i capetti, ho capito subito come riuscire ad entrare in empatia con loro (uno era uguale a Marco Sarno, un mio ex giocatore! MA incredibilmente uguale) e a parte quando Marcus, senza apparente motivo, urlando, si è scagliato contro il pallone e l'ha calciato con violenza lontano, per poi allontanarsi dal campo correndo inseguito dall'educatore, tutta la seduta si è ben sviluppata, con divertimento e partecipazione da parte di tutti. Bello, bellissimo e divertente. Qui, su questi campi del mondo, riscopro ogni volta il potere del calcio e mi riconcilio per un attimo con lui, convincendomi che dobbiamo fare di più con inter campus! Trovare più modalità, attraverso sempre gli allenamenti, attraverso sempre la palla, per aiutare, accompagnare questi ragazzi nel loro difficile cammino. Sto iniziando a capire come, ma...vedremo. Ora però via, si sale in macchina: il villaggio di Szendrolad ci aspetta, con i suoi bimbi rom, le sue famiglie e le sue storie altrettanto "particolari", da scoprire e da affrontare, sempre con la maglia neroazzurra addosso e la palla tra i piedi.

mercoledì 26 settembre 2018

BUDAPEST

BUDAPEST 2018
Finalmente riesco a dedicare dieci minuti al mio blog! Sono arrivato qui a Budapest lunedì mattina, ma da allora ad oggi non son riuscito a buttar giù nemmeno una parola, preso dalle varie conferenze di EFDN e i vari allenamenti. Già, perché questa volta siamo su questi campi del mondo per partecipare ad un workshop con questa ONG olandese nata 4 anni fa con l’obbiettivo di mettere in contatto le varie società europee attive nel mondo del csr e quindi siamo presi insieme a Feyenoord, Bayer Leverkusen, Ferencvaros e Montrose in diverse attività quotidiana. EFDN, ossia European Football for Development Network, è un network di cui siamo parte da un paio di anni che mette in contatto esperienze diverse nel sociale di alcune tra le più importanti squadre europee, dal Real Madrid a questa sconosciuta squadra di championship scozzese, il Montrose, organizzando questi workshop in cui ognuno presenta la propria esperienza e la mette a disposizione degli altri, per dare a tutti spunti, idee, per crescere e ampliare il proprio raggio di azione, le proprie attività rivolte a bambini, giovani e adulti, che la vita sta mettendo in difficoltà. Bello, interessante, divertente e…intenso. Presentazioni, allenamenti dimostrativi, lavoro di gruppo, osservazione di progetti realizzati in loco: ogni attimo, ogni ora è scandita da attività di diverso genere che ci accompagnano da mattina a sera e non ci lasciano tempo libero. Nemmeno per scrivere. Meno male che la mattina presto riesco ad allenarmi in un parchetto carino qui vicino, se no avrei già svalvolato!
La sera, poi, i ragazzi del Montrose, da veri scozzesi poco più che ventenni, non sono in grado di trovare la strada di casa e a causa delle continue risate insieme e del feeling spontaneo nato tra noi, non sempre son riuscito a defilarmi per andare a dormire in orario decente. Per fortuna le puntuali e quotidiane corse mattutine mi stanno aiutando a rimanere sveglio, attivo e concentrato tutti i giorni, ma certo pagherò queste serate. “Non hai più vent’anni”, continuo a sentirmi urlare dal grillo parlante. “Ma va cagher, vienimi dietro la mattina”, mi piacerebbe rispondergli. 


mercoledì 29 agosto 2018

Nostalgia canaglia

Nessuna missione, nessun viaggio infinito in un Paese sperduto sul pianeta terra questa volta.
Il campo del mondo di cui voglio raccontare è quello di Monza, di Oggiono, di Olginate, di Bellusco, di Caravaggio, di Caronno, di Arcore, è quello dove tutti gli anni, in questo periodo più o meno, ricominciavo a correre, a sudare, a giocare, in vista dell'inizio della stagione. Ed è il campo che nonostante ormai per me siano diventati diversi gli anni senza calcio, continua a mancarmi tantissimo. Più delle partite della domenica, più degli allenamenti settimanali; più dello spogliatoio, dei compagni. Il ritiro, la "preparazione", come la si è sempre chiamata, è la cosa legata alla mia storia d'amore col calcio che più mi manca.
Si iniziava sempre prima della data fissata per la ripresa a correre, per rimettersi in forma, per mantenersi in forma, e presentarmi così subito pronto, carico e...titolare. Già, titolare: l'ossessione per la maglia numerata dal 2 all'11 accompagnava ogni mia corsa, ogni mio sforzo, ogni mio allenamento e per questo motivo puntavo sempre ad arrivare a fine luglio, inizio agosto, già pronto. Pronto per poi buttarmi in campo con gli altri e iniziare a condividere anche con loro perle di sudore e fatica, ma anche risate, momenti difficili, divertenti...insomma, lo spogliatoio. Tornare a vivere lo spogliatoio. Insieme a compagni con cui avevo già condiviso il campo, con nuovi, o a volte partendo completamente da zero, senza conoscere nessuno, se non per averli incontrati da avversari nei campionati precedenti, ma con i quali dopo due corse, dopo i primi due test, sembrava di aver già giocato per anni insieme.
Insieme ad allenatori conosciuti o nuovissimi, mai visti prima, o già scontrati, coi quali iniziare la nuova avventura, cercando di capire seduta dopo seduta il loro pensiero, il loro progetto (quando c'era un progetto, visti i personaggi...) e provando a influenzare le loro idee il prima possibile.
Insieme a magazzinieri e accompagnatori vari coi quali stringevo subito legami (chissà perché, ma ogni stagione i primi con cui legavo erano i personaggi storici che sono da sempre al seguito di tutte le squadre del mondo) e con i "fisioterapisti" (personaggi unici, tipici del mondo della serie D o dell'eccellenza).
Insieme a tutte queste nuove persone con le quali vivere i giorni in montagna, sede dei vari ritiri, e le prime partite stagionali (la mitica coppa Italia di fine agosto), con le quali ogni anno iniziavo una nuova avventura, coi suoi alti e i suoi bassi, ma che mi ha sempre permesso di giocare, giocare e ancora giocare. Certo, a volte ho dovuto prendere delle decisioni che mi hanno portato a non fare le cose che facevano gli altri, i miei amici, come passare i sabato sera a casa, o in ritiro, mentre loro erano in giro per locali; troncare le mie vacanze per rientrare e riprendere gli allenamenti in vista dell'inizio della stagione; dedicare il 26 di dicembre al campo, o ancora il 1 gennaio alle 10:30 allenamento, mentre tutti erano ancora con le gambe sotto il tavolo o alla festa di capodanno; tutte cose che...rifarei subito, che non chiamo rinunce, perché mi permettevano di essere su quei campi, insieme ai miei compagni. E mi mancano un po' ancora oggi.
Rimangono nel cuore le stagioni a Bellusco, a Caravaggio, a Caronno, insieme a persone, non solo giocatori, straordinari, coi quali ho diviso campo, certamente, ma anche qualcosina in più, quel qualcosina che mi è servito a crescere, ad imparare, a diventare un po' quello che sono, anche come allenatore, e che mi hanno lasciato ora questa nostalgia per quei campi, per quelli spogliatoi puzzolenti già al secondo giorno, per quegli allenamenti che magari ora considero improponibili, ma che allora svolgevo...volando.
Che bello che è, era ormai, giocare a calcio.

giovedì 2 agosto 2018

PICTURES


NEL MEZZO DEL NULLA, UN CAMPO.


LA PALLA CHE RIMBALZA È UN INVITO DIFFICILE DA DECLINARE: TI PIEGHI SULLA GAMBA D'APPOGGIO, APRI IL BRACCIO OPPOSTO AL CALCIANTE E COLPISCI CON FORZA VERSO LA PORTA, MA...


...QUALCOSA VA STORTO E IL PALLONE VIENE RECUPERATO DALLE "FRESCHE FRASCHE" SOLO DOPO ATTENTE ED ESTENUANTI RICERCHE.


SI TORNA COSÌ A GIOCARE. 

martedì 31 luglio 2018

Il campo di Mbalmayo

IN CAMPO A MBALMAYO
Il nostro campo di allenamento è un po’ peggiorato (ancora???) rispetto all’ultima volta che sono stato qui: qualche buca in più, erba cresciuta qua e la in maniera selvaggia e le porte in legno (proprio di legno: sono tre lunghi rami legati insieme) ormai marcite e cadenti. Ma chi se ne frega: lo spazio a nostra disposizione è questo, i palloni li abbiamo, qualche cinesino anche, quindi sotto con gli allenamenti. Anno dopo anno (è vero, inizio a parlare come un vecchio. Tra poco inizierò con i vari “ai miei tempi saltavamo i fossi per il lungo a gambe unite”) mi rendo sempre più conto che la cosa che più mi piace, mi emoziona e mi rende veramente felice è l’ora e mezza di allenamento, ovunque questo si riesca a realizzare. I miei “gusti” sono un po’ cambiati nel corso del tempo, nel senso che ora mi diverte di più guidare gruppi di grandi, ossia 12-14 enni, ai quali iniziare a proporre esercitazioni più collettive,  più…tattiche (o mamma, che parolone!), lavorando sempre sul gesto tecnico, ma in forma più complessa, rispetto a qualche anno fa, quando il mio focus erano i super nani, ai quali dedicare giochi più legati alla propedeutica al calcio, piuttosto che propriamente al gesto tecnico in senso stretto. Si cambia, si “cresce”, ma al centro del mio interesse rimane sempre la stessa cosa: il campo. E così eccomi oggi con il gruppo dei grandi, dei colossi di, dicono loro, tredici anni, con i quali inizio con una progressione legata all’occupazione degli spazi e allo smarcamento, obbligandoli a pensare, a leggere la situazione e a muoversi in maniera razionale e non più istintiva come normalmente fanno. Il tutto mantenendo alta l’intensità e, ovviamente, il divertimento. Quando poi propongo una esercitazione che parte dall’uno contro zero e termina con un 5<5 col jolly, sempre con i medesimi obiettivi principali, la seduta raggiunge il suo apice, sia per i ragazzi che per me, sfociando poi in una super partitella finale inizialmente vincolata e poi completamente libera. Bello, bell’allenamento. Mi piace uscire dal campo soddisfatto del lavoro, sentendo che i ragazzi hanno fatto un cammino durante l’ora e mezza che mi hanno dedicato, passando attraverso le mie proposte per arrivare ad un miglioramento finale, tutto col sorriso, con grande attenzione, con grande coinvolgimento, collaborando e…correndo come matti. Grandi ragazzi. Merci.


domenica 29 luglio 2018

Pregi e difetti

PREGI E DIFETTI
Tutte le volte che racconto a qualcuno ciò che faccio, del mio lavoro in giro per il mondo, la reazione è sempre (magari non sempre, ma comunque troppo spesso per i miei gusti) noiosamente la stessa: “bella vita che fai”, sottintendendo che il lavoro vero non è certo il mio “sui campi del mondo". E tutte le volte che il pirla che ho di fronte si esprime in questo modo la mia mente non può che volare nella stanza d’albergo da dove sto scrivendo, con i suoi scarafaggi giganti incontrati questa notte durante una mia tappa al bagno, con i suoi mille ragnetti (ne ho contati 6, uno diverso dall’altro), con la sua puzza di umido e le sue lenzuoline umidicce e poco accoglienti (vero Max? Vero Lore?). Oppure il mio pensiero non può che andare alla tavola apparecchiata dove, insieme ai nostri allenatori, facciamo ogni giorno colazione, pranzo e cena (Mbalmayo non è propriamente una città turistica, attrezzata con strutture per accogliere viziati visi pallidi) con le mille e più macchie che colorano la “tovaglia”, con i suoi invadenti moscerini che accompagnano ogni nostro boccone, con le sue affettuose mosche che ci stanno vicine per tutta la durata del pasto nonostante i nostri maldestri tentativi di allontanarle, con, con e ancora con vari optional non richiesti a rendere "diverso dal solito" ogni nostro pasto. O ancora non mi viene complicato pensare di fronte al fenomeno di turno (e son tutti così) ad Anna a casa, lontana migliaia di chilometri che mi chiede di tornare subito, di fare in fretta a rientrare (come ha fatto questa sera), perché se no si arrabbia, e con lei Si, forse più arrabbiata ancora della nana per la mia lontananza, nonostante l’allenamento decennale ai miei viaggi, alle mie partenze continue. Bello, bellissimo quello che faccio. Bello, bellissimo entrare in rapporto così stretto, così vero, con i nostri mister, con i nostri amici nel mondo, con la loro reale condizione, con la loro vera realtà. Bello, bellissimo rendermi conto ogni volta della potenza che ha il calcio, del fatto che questo sport rimane sempre e comunque uno strumento educativo, forse LO strumento educativo, unico e insostituibile per tutti i bambini del mondo e che non posso, non devo, non voglio ancora mollare questa mia "missione" nonostante tutto. Bello, bellissimo viaggiare e scoprire sempre cose nuove, crescere costantemente, missione dopo missione, viaggio dopo viaggio. Bello, bellissimo tutto, ve lo posso assicurare, ma basta sottovalutare, non accorgersi di ciò che si fa per arrivare a questo “bello, bellissimo”, non riuscire ad immaginare la complessità e le difficoltà che naturalmente esistono anche in questo lavoro, come in tutti i mestieri del mondo. Dai, su, pirla di turno, togliti dai piedi e lasciami godere anche questo viaggio fino in fondo, con i suoi pregi e i suoi difetti.


sabato 28 luglio 2018

Inter Campus 2.0

INTER CAMPUS 2.0 CAMERUN
La strada scelta per l’evoluzione, la crescita, di Inter campus in Camerun ci sta portando a diminuire un po’ i numeri degli allenatori, e quindi dei bambini coinvolti direttamente nel progetto, per riuscire ad avere maggior controllo, maggior cura delle nostre “squadre”, con lo scopo unico di alzare la qualità dei nostri mister e del loro intervento educativo sui bambini, fedeli come sempre a quello che ritengo essere un mio imprescindibile principio, ossia più qualità, anche a discapito della quantità. Un’evoluzione, un inter campus Camerun 2.0 questo che era da tempo che cercavo di realizzare e che ora, lentamente, sta prendendo forma, si sta definendo, tanto che siamo già riusciti a portare in questi giorni qui a Mbalmayo, in questa cittadina sulle colline (siamo a quasi settecento metri di altitudine) a circa quaranta chilometri da Yaoundè "solo" 20 allenatori pre-selezionati con un test, rappresentanti delle venti cellule che insieme con Francis abbiamo deciso diverranno le venti cellule “ufficiali” inter campus. Passare quindi da aule con minimo quaranta allenatori provenienti da tutta la petite afrique come mi succedeva gli anni passati, a questa situazione quasi famigliare non nascondo mi abbia lasciato un po’ stupito inizialmente, ma non appena ho iniziato a parlare e ho potuto osservare tutti i “miei” coach negli occhi, ho potuto avere da tutti riscontri su ciò che stavo illustrando, domande pertinenti e intelligenti, osservazioni altrettanto intelligenti, ho capito che la strada imboccata è quella giusta. Qui abbiamo bisogno di stare addosso agli allenatori, controllarli, indirizzarli, quasi guidarli, per essere sicuri che tutto stia andando nel verso giusto; come ben mi insegna Francis, se non sei sempre presente, se non dai continuamente indicazioni su ciò che deve essere fatto, se non lanci loro continui stimoli per smuoverli da quella apparentemente naturale condizione di apatia diffusa, le cose non andranno mai come vuoi tu. E se me lo dice un camerunese, c’è da credergli. Quindi ben venga la riduzione dei numeri, senza per questo escludere che anno dopo anno le cellule possano tornare ad essere le quasi duecento di prima. Ci vorrà del tempo, ma tanto non abbiamo fretta


venerdì 27 luglio 2018

PICCINI E INTER CAMPUS

PICCINI E INTER CAMPUS
La mattina inizia presto e commetto subito un errore di cui mi pentirò amaramente al termine della giornata: decido di dormire un po’ di più e di non svegliarmi per uscire a correre, fidandomi del programma della giornata, che prevede il nostro ritorno a Mbalmayo nel primo pomeriggio. Ma le giornate Inter Campus, dovrei saperlo, sono sempre una sorpresa, piene di incontri, di inviti, di persone che si rivedono dopo anni e che vogliono star con te, parlare, ricordare, offrirti un caffè e così, incontro dopo incontro, il rientro in quella stamberga classificata come hotel slitta fino alle 19 e addio alla mia corsa. Così imparo a farmi vincere dalla pigrizia. Escludendo la delusione della mia scimmia dell’allenamento per l’andamento del giorno, io posso dirmi piuttosto soddisfatto di questo inizio di missione: a Yaoundè ho conosciuto i responsabili della Piccini, nostro sponsor locale, impegnati nella costruzione del grande complesso sportivo che comprenderà anche lo stadio che ospiterà la gara inaugurale e la finale della CAN 2019 e discutendo con loro è emersa la loro volontà di aiutarci economicamente per organizzare una coppa d’africa tra le squadre inter campus, sfruttando i campi che stanno costruendo. Spettacolo! Dopo la coppa del mondo del 2009 erano anni che pensavamo ad un evento del genere, ma son sempre mancati quei maledetti soldi che tanto condizionano le nostre vite, ma ora sembra che questo aspetto essenziale sia stato risolto, quindi…sotto con l’organizzazione del torneo. E non sarà una passeggiata trovare i 12 bambini da portare, far loro i documenti, ottenere i visti, compare i biglietti aerei, organizzare gli alloggi, pensare ai momenti extra campo…di carne al fuoco ne dobbiamo mettere parecchia, ma l’occasione, l’esperienza è unica e certo non possiamo, non dobbiamo, farcela scappare! Portare i nostri bambini della favela di Luanda a Yaoundè per un torneo; portare i nostri bambini di Lubumbashi, gli orfani di Bumi o i dimenticati di Chwama, fuori dalla loro realtà e farli incontrare con altri bimbi, anch’essi in neroazzurro; portare una nostra squadra della St.Joseph Primary School di Nagallama in un contesto apparentemente simile, eppure tanto diverso come quello di Yaoundè…tutto questo sarà stupendo. E per me, vederli tutti in nero blu, sapendo che siamo noi gli unici a regalare queste magie, lo sarà ancora di più.


giovedì 26 luglio 2018

Ma petite afrique

MA PETITE AFRIQUE
Un viaggio meno complicato del solito mi riporta nella “mia” Africa, in quello che è stato il mio primo paese di questo splendido e martoriato continente: il Camerun. Incredibilmente anche l’ingresso nel Paese risulta meno complesso del solito, poiché dopo la solita, canonica, fila al controllo passaporti, con i soliti, canonici furbi che si infilano fischiettando, fingendo di essere con questa o con quella persona proprio davanti a te, il ritiro bagagli (degli altri, non miei, visto che io viaggio da sempre e solo col mio zaino) scorre liscio come l’olio, tanto da farmi dubitare di essere veramente nella terra dei leoni indomabili. Dove sono i portatori che ti strattonano per convincerti a lasciar loro la tua valigia? Dove sono i vari faccendieri dell’aeroporto che ti propongono il cambio della valuta “brevi mano”? Dove sono le masse di persone accalcate ansiosamente attorno al nastro porta bagagli, timorose tutte di perdere il passaggio della propria amata valigia, convinte che, una volta passata sotto i loro ignari occhi, sia essa destinata a smaterializzarsi o a cadere in chissà quale buca infuocata? Niente di tutto questo mi si palesa d’innanzi, ma una strana calma, un insolito ordine, ci permette di uscire dall’aeroporto trascorsi nemmeno quaranta minuti dall’atterraggio! Record. Anche Francis rimane un po’ sorpreso di vederci così presto, memore dell’esperienza delle ultime due nostre visite, quando ha dovuto aspettare per ore la nostra “liberazione”, ma ben contento dell’insolito evento, parte subito a spron battuto e ci propone di muoverci subito verso Mbalmayo, per arrivare subito a destinazione ed evitare domani mattina il traffico della città per andare in hotel. Mi spiace rompere le tradizioni, non dormire a maison Italia come d’abitudine, non mangiare il suo super poule dg e non correre domani mattina al risveglio nel suo quartiere, tra salite polverose e discese stile montagne russe, ma effettivamente andare subito “a casa” è un bel vantaggio, quindi…via, si riparte, questa volta in macchina, destinazione Mbalmayo.
Dall’aeroporto la strada è ancora più breve di quanto ricordassi, tanto che in poco più di mezz’ora siamo già arrivati allo “splendido” hotel departement…splendido…una volta, magari. Ma nemmeno tanto. Il solito hotel camerunese, con mille stanze e nemmeno una che funzioni al cento per cento; con mille animaletti, insetti, rane e scarafaggi vari a tenerti compagni per la notte e vaghi segni di pulizia qua e la; con i suoi mille e più inservienti, tra camerieri e lavoratori vari, stravaccati qua e la, per nulla interessati ad aiutarti o a renderti il soggiorno presso la loro struttura un po’ più accettabile; con le sue vasche da bagno enormi e i suoi buchi sul soffitto; con la sua polvere e il suo arredamento “minimal”. Insomma…bienvenue en camerun.


lunedì 18 giugno 2018

venerdì 15 giugno 2018

Il torneo

CHWAMA
Con pochi chilometri di buche, salti e sabbia, dalla città si raggiunge Kilobelobe, un villaggio appena dentro la brusse dove sorge la scuola salesiana di Chwama e dove oggi abbiamo in programma un mega torneo con tutte le nostre cellule presenti, quindi tutti i nostri bambini e bambine, cui si aggiungeranno due squadre ospiti. Pochi chilometri di buche, sabbia e salti, ma molto intensi, diciamo e le mie chiappe ne sanno qualcosa, ma ne vale sempre la pena: questo campo che sbuca in mezzo a quest'immensità di alberi, con ai lati degli enormi, ma davvero enormi, termitai, sovrastato sempre, per lo meno la mia mente lo ricorda sempre così, da un cielo costantemente e meravigliosamente "bluissimo", di sabbia e sassi, con buche e cunette, è sempre un emozione incontrarlo. È sempre un'emozione che mi conferma quanto sia immensa la forza del calcio, quanto sia attraente quella palla: 160 bambini che si alternano nelle partite sotto un sole...africano (ne sa qualcosa il mio lungo naso, ovviamente bruciato a fine giornata), per lo più a piedi nudi, provenienti da tutti i nostri centri (quindi con anche il trasferimento su mezzi che definire eufemisticamente vecchi, ma soprattutto strapieni), giusto per la gioia di giocare...be', se non è passione questa. Peccato solo che in campo più che partite di calcio sembra di assistere a degli incontri di pallavolo: quella povera palla passa tutto il suo tempo per aria, scalciata dall'una e dall'altra parte  senza criterio, con violenza, sempre verso l'alto, costringendo giocatori e spettatori naso all'insù per cercare di seguire le sue folli traiettorie e provare a capire se prima o poi riuscirà a metter fine al suo inutile volo, alla sua continua e forzata esplorazione dei cieli. Al termine del primo incontro ho preso da parte i due mister, Jean e Auguy, per suggerir loro di suggerire ai ragazzi di ricercare giocate a terra, ma alla pronta risposta del primo ho capito che per oggi mi sarei dovuto accontentare dell'entusiasmo e della felicità dei bimbi, senza pretendere altro. "Giochiamo palla alta perché le partite durano poco, dieci minuti, e bisogna arrivare il prima possibile alla porta avversaria"... Ci ho provato, giuro che ho provato a smontare questa tesi, cercando di riportare a terra quella palla, ma non c'è stato niente da fare: in una partita quella povera sfera di cuoio ha passato a terra, in dieci minuti di partita, solo 59 secondi. 'azz. Va be', considerazioni tecniche a parte la giornata è stata lunga, ma molto positiva, con anche il coinvolgimento del villaggio intero, accorso al campo per vedere cosa fosse tutto quel baccano, tutte quelle urla, tutte quelle risate...tutte neroazzurre. 


giovedì 14 giugno 2018

Filosofia spiccia

FILOSOFEGGIANDO IN CAMPO
Quando faccio allenamento su questi campi volo immediatamente con la mente a Milano, dai nostri bambini italiani con cui da anni gioco e da cui ricevo puntuali lamentele per la qualità del terreno di gioco, per il pallone troppo duro o troppo molle, per le scarpe troppo strette, o peggio ancora troppo vecchie, pur impeccabili, per, per e ancora per. Volo da loro per poi tornare ad osservare i bimbi con cui sono ora in campo, qui a Bakanja: campo di sabbia e terra rossa, con buche, pietre e dune qua e la, scarpe…per venire al campo, non certo per giocare! Avendone un solo paio vanno tenute da conto e di certo non le rovinano calciando un pallone; oltretutto una palla sgangherata, durissima, rossa di sabbia, calciata con tale forza, determinazione e divertimento, che se colpita con l’unico paio di scarpe ridurrebbe all’osso la durata delle stesse, quindi calciata per lo più da piedi nudi. Che mondi distanti, eppure che mondi vicini grazie proprio a quella palla, riesco a vivere. Senza cadere nella sciocca e inutile retorica, facile compagna di riflessioni come queste, tutte le volte mi domando cosa si può fare per aiutare entrambi i bimbi, il milanese e…l’intercampista. Non parlo di aiuti materiali, di finanziamenti o altro, ma di aiuto vero, duraturo, che cambi le cose e valga nel tempo, senza voler avere la presunzione di trasformare la realtà. Perchè credo che entrambe le parti siano povere a modo loro, perché sono convinto che anche in questo parallelismo la verità stia nel mezzo e se da un lato i centri sportivi di ultima generazione, l’attrezzatura ultra moderna e professionale e tutta la nostra società dell’abbondanza tolgono “la fame”, raffreddano la passione, la purezza dell’amore per questo sport, riducendo il calcio ad un semplice passatempo, limitandolo ad essere un gioco, o peggio ancora vivendolo solo in virtù dei risultati raggiunti, delle abilità possedute, senza scoprire tutto ciò che può rappresentare nella crescita, nello sviluppo di un bambino, dall’altra parte la pochezza delle stesse cose pur non rappresentando un ostacolo per i nostri bimbi, certo non rendono semplice la pratica dello stesso e troppo spesso lo rendono esclusivamente un mezzo, un’occasione di riscatto, uno strumento per arrivare ad ottenere quegli agi, quei campi, quelle scarpe, facendogli perdere, anche in questo caso, tutto quell’enorme potenziale educativo, limitandolo, portandolo ad essere vissuto e praticato esclusivamente attraverso risultati, attraverso i gol fatti o i dribbling realizzati, attraverso le partite e i tornei vinti. Ma cacchio, il calcio non è questa cosa che vivete bimbi milanesi e bimbi congolesi!!! Inter Campus non basta, c’è bisogno di più. Ma ancora non so bene cosa, quindi…sotto con il campo, con la maglia neroazzurro e con tutto ciò che essa rappresenta in 29 paesi del mondo. 


mercoledì 13 giugno 2018

Elisabethville


LUBUMBASHI


“Questa è una baraccopoli, una città baraccopoli”. Mai descrizione calzò più a pennello. Gabriele sentenziò così ieri sera ed effettivamente come dargli torto. Oltretutto mai mi permetterei di dargli torto, visto che è dal 2004 che vive in questa “baraccopoli” e che gira Katanga e dintorni per i suoi vari progetti umanitari con Alba e  con altre associazioni con cui collabora, quindi chi se non lui può permettersi certi giudizi. Ma baraccopoli perchè? Case, casette alte non più di un piano, se escludiamo i nuovi palazzoni inaugurati dal presidente (nessuno sa perchè e per chi, ma…shhh, non va contraddetto), che necessiterebbero di una rinfrescata; strade piene di buche che Roma in confronto non è nulla, con avvallamenti e dossi sparsi qua e la, messi a caso, sembra quasi per tenere svegli e attenti gli automobilisti; polvere e sabbia a lato delle strade e alberi, cespugli, verde di ogni genere poco oltre che sembra non aspettare altro che una distrazione dell’uomo per rifar suo quello spazio strappatogli con la forza da asfalto e cemento; e gente. Gente ovunque, gente che cammina, gente che vende merce ad ogni angolo su banconi di legno improvvisati, gente che si ammassa nei vari taxi collettivi, che assiepano le strade, gente che vivacchia a bordo strada, chi bighellonando, chi cercando espedienti per mettere in tasca qualche franco, o qualche dollaro (meglio). Gente che in questa città arriva a comporre l’ 1,2 milioni di abitanti che si stima oggi abitino l’attuale capitale della regione del Katanga, fondata dai Belgi nel 1910 col nome di Elisabethville, un tempo fiore all’occhiello della colonia: ricca, ricchissima per via delle grandi miniere per lo più di rame della regione (ma per un periodo anche regina della gomma) e centro di importanti avvenimenti che hanno segnato la storia di questo enorme paese, dal tentativo di indipendenza e fondazione del regno autonomo del Katanga, all’ autoproclamazione del padre dell’attuale presidente, avvenuta proprio qui, quando Mobuto fuggì da Kinshasa nel 1997. Insomma un’importante città oggi ridotta un po’ a pezzi, un po’ a brandelli, dalla fame di potere dei politici e da quella di dollari delle grandi multinazionali straniere che qui fanno grandi affari, sfruttando la mano d’opera locale che comprende anche, se non sopratutto, bambini, e corrompendo la società a tutti i livelli, a tutti gli strati, generando così un sistema ultra corrotto che parte dalla strada e arriva al parlamento. E quale posto migliore per noi? Infatti, eccoci qui, dal 2011, insieme ad Alba con il nostro progetto, dentro le scuole da loro costruite, fornendo supporto educativo ai bambini attraverso l’allenamento, in cinque diverse scuole, con 5 diversi gruppi e allenatori. Una goccia nel mare, un piccolissimo spiraglio di luce in un ambiente buio, buissimo, ma...piutost che nigot, l'è mei piutost. Via, allora, andiamo in campo!


martedì 12 giugno 2018

Lubumbashi mon amour


LUBUMBASHI MON AMOUR
Finalmente siamo arrivati! Anche questa volta il viaggio infinito che ci porta nella capitale del Katanga, nella capitale delle miniere, nel centro “potenzialmente” ricco del Congo, ha avuto termine ed ora eccoci pronti per la consueta sgambata scogli gambe post viaggio dentro le mura del “complex la plage”, ossia casa nostra. 23 ore dopo essere partito da casa, infatti, riapro la porta di quest’altra casa, ormai anch’essa considerata mia, visto anche che ha i mobili del soggiorno Ikea esattamente uguali a quelli di Villasanta.23 ore che comprendono non solo il volo e i vari scali, ma anche il passaggio dovuto nella voglia infernale di dantesca memoria che altro non è che l’aeroporto internazionale di Lubumbashi, che detta così sembra un normale e moderno aeroporto, invece…già il fatto che quando scendi dalla scaletta dell’aereo puoi camminare, anzi devi camminare, lungo la pista per entrare alla dogana, ti fa capire che sei arrivato un posto…speciale. Poi, una volta che sei entrato nello stanzone per il controllo passaporti, il continuo andirivieni di strane persone con dei fogli in mano con su scritti nomi, per lo più cinesi, ti da’ la conferma della stranezza del luogo. Non è normale trovarsi in attesa, in fila, e vedere gente intorno che segue questi cartelli, lascia la fila, consegna il proprio passaporto a “l’uomo del cartello” e…va. Parte, esce: salta la fila, supera i controlli ed esce. È successo anche a noi, come sempre: siamo in fila, un ragazzo osserva la mia polo col simbolo, mi mostra il suo foglio con su i nostri nomi e al mio cenno affermativo…puff. La folla sparisce, la fila scompare e ci ritroviamo nell’androne dove si ritirano i bagagli. Ma anche qui l’attesa è limitata: oltre ai nostri passaporti il nostro angelo, nero, custode ha voluto anche il talloncino delle valige spedite, così lui penserà anche a questo, mentre noi iniziamo ad uscire, superando l’ultimo ostacolo, anzi gli ultimi due: “l’accuratissima” ispezione del bagaglio a mano e la barriera umana di persone che preme per entrare in aeroporto ( tutta gente che prova ad entrare per poter rimediare qualche dollaro da qualche bianco portandogli la borsa, recuperandogli la valigia, o compiendo qualsiasi altro lavoretto per lui) e che impedisce a chiunque, fisicamente, di uscire. Tutte le volte la stessa cosa: dal 2011, anno della mia prima missione in Katanga, ad oggi, sembra che il tempo qui si sia fermato: non si cambia, non si evolvono le cose. Tutto è fermo, tutto è identico, pur mostrando, edifici e strade, i segni del tempo che scorre. Chissà se mai anche qui scatteranno in avanti le lancette dell’orologio.



mercoledì 30 maggio 2018

Pictures


L'ACCOGLIENZA AL CAMPO















IL PRIMO INCONTRO

BRIEFING PRE ALLENAMENTO
 


IN CAMPO CON LE BIMBE

FOTO DI GRUPPO


LA PARTITA


ALL'ATTACCO DEL COCCO

martedì 29 maggio 2018

Il gioco del calcio

WE ALL SPEAK THE SAME LANGUAGE
Noi si parla italiano, inglese, loro più che Khmer non conoscono, ma come dice sempre Yasha, sul campo da calcio “we all speak the same language”. E se anche loro sono adulti, anche se ci siamo incontrati su questo campo giusto per giocare una partita con Vitok e i suoi amici, bastano due calci a quella palla che le mie parole in dialetto rivolte a David Luiz (così chiamo un cambogiano coi capelli a cespuglio riccissimi) per chiedergli di attaccare il portatore palla, vengono da quest’ultimo perfettamente comprese, come se fosse nato a Bellusco e non a Phon Penh. O l’incitamento a Marcelo (chiamarli col loro vero nome è praticamente impossibile, quindi per ciascuno conio un “appellido”, come lo chiamano i nostri amici angolani, sulla base delle loro caratteristiche, delle loro somiglianze, o anche solo per la maglia che indossano), per svegliarlo e chiedergli maggior attenzione, espresso in italiano, venga assolutamente compreso e recepito dal ragazzo cambogiano, come se ci conoscessimo da tempo immemore. E così grazie a questa magia unica, le due ore di partita, in realtà un’ora e ventidue di tempo effettivo, diventano per me l’ennesima dimostrazione, superflua a ben vedere, di quanto essenziale sia questo gioco per me e la stanchezza accumulata nella lunga giornata di lavoro, la fame dovuta alla scelta di digiunare (non tolgo però i liquidi, sarebbe per me impossibile), le gambe pesanti a causa del mega allenamento di ieri, tutto magicamente si dissolve grazie alla passione che si accende in me, e in tanti altri come me, al primo tiro in porta, al primo dribbling, al primo contrasto. Che spettacolo. E allora via, su quella fascia, a correre su e giù, a chiedere palla a Sergio Brio-Raspelli, piazzato la’ dietro per muoversi il meno possibile, a sudare come un matto a causa del 200 per cento di umidità, dovuta anche alla pioggia caduta nelle ultime ore e a chiudere la partita con la maglia zuppa di acqua, come se fossi caduto in piscina. Quarant’anni chi???


domenica 27 maggio 2018

Al villaggio

I BAMBINI DEL VILLAGGIO
Il “nostro” villaggio è a più di un’ora e mezza di distanza dalla città, dopo lunghe file di macchine e tuc tuc selvaggi, dopo lunghe lingue di asfalto che tagliano in due immense risaie, dopo paludi ricche di fiori d’acqua di colori misti da me indecifrabili, dopo che la normale strada lascia spazio alla terra e alla polvere. Dopo tutto questo, arriviamo alla nostra meta. Dopo tutto questo ogni mattina riusciamo a raggiungere il nostro mini campo da gioco, dove in successione e insieme ai due allenatori locali diamo forma a quattro sessioni di allenamento, due mattutine e due pomeridiane, sotto un sole potente e afoso come quello di Milano il 15 di agosto (forse peggio), capace di farti sudare da fermo. Poveri bimbi. Che caldo. Ma questa è la norma da queste parti e non facciamo altro che rispettare il loro normale orario scolastico, che prevede allenamenti per le cinque classi coinvolte in inter campus, 175 bambini, durante le canoniche ore di educazione fisica. Quindi ci adeguiamo, sudiamo come durante il ritiro estivo pre campionato, ma non perdiamo un minuto di campo, cercando di accompagnare in qualche modo, nel nostro modo, la scuola nel suo programma educativo. Ovviamente è la scuola la cosa più importante e noi siamo solo di accompagnamento, di supporto, scuola che grazie a Missione Possibile quasi 400 bimbi del villaggio, ma anche di quelli vicini, hanno l’opportunità di frequentare, per lo meno per il primo ciclo. Poi la strada, i campi, i bisogni delle famiglie, prendono il sopravvento e le aule vengono rimpiazzate dagli stanzoni della vicina fabbrica di tessuti, dalle umide risaie della zona, oppure spesso per le bimbe, mi raccontano, dalle quattro squallide pareti di casa, poiché costrette a sposarsi e a rinunciare a qualsiasi speranza di istruzione per dedicarsi alla famiglia. Pochi anni, quindi, ha a disposizione la scuola per cercare di dar loro una base educativa che possa servire per la vita, oppure per convincerli a rinunciare a qualsiasi altra tentazione esterna, per cercare di costruirsi un futuro diverso da quello che per molti sembra essere già segnato. Eppure guardandomi attorno non riesco a cogliere, a percepire queste difficoltà, questa povertà, questa situazione così estrema, come mi viene descritta. Certo, i “nostri” bimbi sono scalzi e anche in campo calciano la palla a piedi nudi; certo le case intorno a noi sono per lo più palafitte (qui quando piove si inonda tutto) di legno; certo, intorno a me l’ambiente non è proprio quello che si coglie intorno al campo di Playmore, dove alleno quando sono in Italia; certo, tutta la gente che vedo intorno a me mangiare sembra vivere quotidianamente di solo riso e altre…”robe” di non sa bene quale origine, per noi non commestibili,  però…però un cacchio! Un bimbo, una famiglia, che vive così, che vive qui e può vedere attraverso tv o internet (qui la linea vola) l’alternativa la’ fuori, ad appena 80km di distanza, nella grande città, è quasi scontato che decida di abbandonare il tutto per cercare il grande salto, per cercare “fortuna” altrove, abbandonando tutto, anche la propria educazione, anche la propria istruzione, anche la propria fanciullezza.