domenica 29 ottobre 2017

Ancora in campo

Fortunatamente riesco ancora a fermarmi, ad aprire bene gli occhi, a guardarmi intorno per capire bene dove sono e cosa stiamo combinando su questi campi.
Già, fortunatamente, perché a volte preso dai viaggi, dagli allenamenti, dall'organizzazione delle esercitazioni più idonee, più adatte alle esigenze dei bambini, mi perdo sul manto verde tra cinesini e palloni e non alzo gli occhi, non mi rendo conto, non mi ricordo che l'allenamento che propongo è solo un mezzo, è solo uno strumento, una "herramienta" come dicono da queste parti, per arrivare ad altro, per raggiungere altri obiettivi e non mi rendo conto che qui, in questo barrio, riuscire a portare, a tenere i bambini sul rettangolo verde, togliendoli dalla strada e da tutte le sue cattive tentazioni, è un risultato che vale più di una ricezione ben fatta o di una conduzione realizzata con l'arto debole (che comunque sono importanti).
Oggi questi occhi li ho alzati, mi sono guardato intorno e ho visto tutto quello che il calcio sta regalando a questi bambini e, sopratutto, a queste bambine: siamo infatti riuscire a dar forma in maniera definitiva alla prima squadra femminile, riuscendo così a tenerle con noi in campo per tre volte la settimana, in un paese dove le gravidanze giovanili sono all'ordine del giorno, dove a quindici anni si diventa mamme, dove la prima esperienza sessuale avviene sempre prima e si realizza più per adeguamento agli altri, più per essere accettate, che per reale desiderio, reale volontà. E così, alzando gli occhi, ho visto fuori dal nostro campo ragazze sole, quasi mai accompagnate da mariti o fidanzati che siano, con in braccio figli con meno di un anno di età, per mano l'altro, dedite ad osservare l'altra figlia, la maggiore, in campo con noi; ho scoperto bimbe sole, con la mamma in carcere e il padre sconosciuto, correre, calciare, segnare ed esultare serene, realmente felici, pienamente inserite nella loro famiglia acquisita composta dalle compagne e dal mister, per un'ora e mezza lontane dalla loro difficile condizione; ho visto...va be', basta con queste frasi da libro cuore. Ho visto e mi è servito, come sempre mi serve, rendermi conto che il mondo è altro da quello tranquillo e sereno dove vivo io. Ogni tanto è bene tornare a vedere, a toccare realmente con mano, ciò che di grandioso riesce a fare lo sport semplicemente...praticandolo, seguiti, aiutati, da persone competenti e con importanti valori di fondo, quali i nostri Mario, Carlos Mario e Mesa, dimenticando, o provando a farlo, tutti quei sedicenti mister che sbraitano e inseguono risultati, per dirsi capaci e abili e farsi belli davanti "ai colleghi"...praticamente tutti. W il calcio, quello vero.  

sabato 28 ottobre 2017

San Isidro e il suo campetto

Anche qui, a Caracas, ormai è come essere a casa: in hotel è un continuo stringer mani, salutare gente e alcuni tentano anche l'abbraccio, per quanto ormai siamo in confidenza (ma non hanno capito che io gli abbracci non è che li regga molto); il mattino abbiamo il nostro rito della corsa al parco Miranda, esattamente come se fossi a Villasanta col mio parco sotto casa; pomeriggio al primo ritorno al campo di San Isidro è un saluto unico, con i bimbi che ci corrono incontro e i genitori che ci salutano, come fossimo i parenti italiani rientrati da un lungo viaggio di sei mesi. Mi piace un sacco questa atmosfera, questo stato delle cose e mi piace un sacco il progetto su questi campi del mondo: vedo, tocco con mano, il valore di quella palla, di quella maglia e di quello che attraverso i nostri allenatori riusciamo a trasmettere, a "insegnare" a questi bambini, nella loro disperata situazione quotidiana (insegnare non è un termine che mi piace, per questo l'ho messo virgolettato). Non mangiano, nel loro barrio la delinquenza è la normalità, le ragazze a quindici anni diventano mamme, il tasso di mortalità tra queste baracche è altissimo, eppure sul campetto a cinque di erba sintetica (una moquette verde stesa sopra un fondo di cemento) i nostri bimbi non mancano mai e anno dopo anno, visita dopo visita, stiamo assistendo alla loro costante crescita, al loro costante miglioramento. E non sto parlando di miglioramento tecnico, per lo meno non solo: nei gruppi non abbiamo assistito ad alcun conflitto (all'ordine del giorno fino a un anno fa) nel corso della seduta gestita da Carlos Mario, tutti ascoltavano il mister in ordine, con attenzione, senza parlare tra loro, ridere, urlare senza motivo, come invece accadeva anche l'ultima volta, tra loro è emerso rispetto e cooperazione reciproca, l'uno aiutava l'altro, aspetto questo nemmeno contemplato la prima volta che siamo venuti qui. Insomma, nonostante tutto il casino la fuori, in campo Inter Campus sta facendo un gran lavoro e i frutti sono sotto gli occhi di tutti noi. Avanti così!!!

venerdì 27 ottobre 2017

Il jet leg è una ca..ata

CARACAS
Quando sali in aereo e ti cambiano il posto per regalarti un upgrade, capisci subito che la missione, che già è una di quelle che preferisco, parte nel miglior modo possibile. Sedermi quindi comodo al mio posto, ma soprattutto riuscire a sdraiarmi quasi a 180 gradi, è un regalo inaspettato che celebro al meglio: crollo secco per cinque ore filate tra le braccia di Morfeo, sogni inclusi, dimezzando cosi il tempo di viaggio che separa Parigi da Caracas e arrivo nella capitale venezuelana piuttosto tranquillo, senza grossi acciacchi dovuti alla sveglia o al lungo volo. Accolto all’arrivo dall’immancabile Mesa e da un caldo-umido degno di Douala, passo il tragitto aeroporto-hotel con il naso fisso fuori dal finestrino, cercando di cogliere da ciò che questa immensa e incasinatissima città mi presenta, gli eventuali cambiamenti, gli sperati miglioramenti, che però non sembrano palesarsi, anzi: mi sembra tutto più fatiscente e sporco del solito e seppur anche tutto molto più calmo, piatto, non colgo grossi segni di crescita. Parlando col nostro “profe” ho la conferma delle mie impressioni: altro che migliorare, qui le cose peggiorano di giorno in giorno. L’inflazione continua a crescere e a strozzare la “nostra gente”,quella del barrio san isidro, che si ritrova senza possibilità economica di comprare cibo, tanto che ci sono bambini che saltano gli allenamenti perché non riescono a mangiare nel corso della giornata! Incredibile. Solo in Congo avevo toccato con mano situazioni simili e ritrovarmi qui, tra grattacieli e macchine di lusso, a fronteggiare gli stessi problemi mi sembra assurdo, seppur sia facile trovare una sottile linea di congiunzione tra i due paesi:  entrambi sono potenzialmente ricchissimi, uno grazie a riserve immense di petrolio, l’altro grazie a minerali di ogni tipo, ma entrambi regalano queste ricchezze a pochi, pochissimi, tenendo alla fame il resto del popolo e costringendolo in una sorta di dittatura. Alla fine tutto il mondo è paese…
Scorre veloce la strada fuori dal finestrino e in meno di un’ora dal “basso” de la guaira, dove si trova l’aeroporto, arriviamo ai quasi 900 metri dell’hotel Pestana. Check in, allenamento, cena e…poco prima delle 21 sono in branda, confermando ancora una volta a me stesso che il jet leg è una cazzata dell’uomo bianco: secco, crollo nel letto in tre secondo netti e fino alle 7 passate del giorno dopo non apro un solo occhio, per svegliarmi quindi riposato e rilassato, pronto per la 12km in programma oggi, prima del corso e degli allenamenti. Vamos profe, vamos a trottar!

venerdì 20 ottobre 2017

Security control

Madonnina come odio questi controlli! Sono otto anni consecutivi che due volte all'anno metto piede in questo Paese e sono quindi 16 volte che tra andata e ritorno, in aeroporto, vivo questa esperienza fastidiosa e...che mi fa incazzare!!! Capisco bene le preoccupazioni e i controlli serrati in ingresso, soprattutto se c'è qualche pirla con visto sgradito sul passaporto (ogni riferimento è puramente casuale), ma in uscita??? Che senso ha svuotarmi valige e zaini vari con questa minuzia? Tutte le volte essere processato prima del check in e assistere allo stupro in diretta dello zaino per non so quale timore nei miei confronti (suvvia, sapete bene chi sono e cosa faccio qui; non rappresento certo una minaccia, cacchio) mi manda in bestia. In questa occasione mi ero premunito, per evitare il solito simpatico trattamento, organizzandomi con uno zaino da spedire e non più con il mio solito da cabina (prima volta in 13 anni di Inter Campus che spedisco la valigia), ma, ahimè, anche questo stratagemma non è servito. Anche questa volta domande su domande e la fila di sinistra! Che cos'è la fila di sinistra? È quella che ti fa buttar via per lo meno 90 minuti, quella che ti fa sudare in compagnia di altri derelitti in attesa di essere sospettosamente controllato attraverso tre passaggi (zaino e tasche passate al setaccio con una specie di spazzolino per i denti di un ippopotamo, camminata sotto il metal detector e nuovo controllo con il medesimo spazzolino di zaino, computer, scarpe e oggettistica varia), per poi essere rilasciato da questi ragazzini maleducati. Già, perché ai controlli ci si imbatte sempre in ragazzi e ragazze poco più che ventenni, antipatici e maleducati, mai sorridenti e un minimo accomodanti, pieni di domande sospettose e sguardi infastiditi, che rendono ancora più negativo il tempo trascorso in piedi, in attesa di essere rilasciato. Che palle!!! Davvero, non reggo più questa cacchio di situazione, questo cacchio di trattamento. Quando finalmente riesco a sedermi nella "piazza centrale" circolare dell'aeroporto, in attesa di imbarcarmi al gate, tutte le volte penso di non venir più qui, di lasciare il compito ad uno dei "miei" ragazzi, io ormai ho dato. Poi però, sempre seduto in quella piazza di attesa, ripenso agli allenamenti in west bank, a quel muro e a quei due mondi così distanti, ma tremendamente vicini, se non sovrapposti; penso alle sedute con bambini palestinesi e ebrei nella stessa squadra, al passaggio fatto dall'uno all'altro e al significato, magari illusorio, di quella palla che corre sull'erba sintetica del campo di Beit Safafa calciata da quei piedi così "diversi"; penso alla bellezza mistica e infinita della città di Gerusalemme, al fascino unico del western wall, alla suggestione irraggiungibile della via dolorosa, ai millenni di storia e di religione sui quali cammino ogni volta; penso alla nostra ormai tradizionale corsa intorno alle mura della città vecchia, sfiorando le porte della città per arrivare e correre fin su, sulla salita sfiancante che porta al monte degli ulivi, da dove si gode di una vista unica sulla città, con la sua caratteristica cupola d'oro in bella evidenza, la sua porta d'oro subito sotto (la più antica delle porte della città, unica ad essere murata, chiusa fino al secondo ritorno di Gesù secondo gli uni, o fino alla ricostruzione del tempio, secondo gli altri) e tutti i suoi luoghi sacri a portata d'occhio. E quando penso a queste cose un bel "vaffa..." vola agli addetti della sicurezza, accompagnato da un arrivederci a Marzo. Magari questa volta col passaporto senza visti sgraditi.

giovedì 19 ottobre 2017

lunedì 16 ottobre 2017

Here in west bank

Here in Deir Istia
Mi fa sempre una certa impressione salire in macchina e in poco meno di un’ora ritrovarmi “al di la del muro”, in una realtà così differente da quella quotidiana di tel aviv. In pochi chilometri grattacieli e spiagge lasciano spazio a uliveti (quelli che non son stati abbattuti o occupati, o divisi dalla costruzione del muro) e villaggi con case basse e la moschea centrale, dominante; giusto appena superato uno dei check point che ti portano in west bank, entrati nella zona A, quella parte dei territori palestinesi abitata da soli arabi (diversa dalla zona b, territori palestinesi abitati da entrambi, o dalla zona c, territori palestinesi usati come cuscinetto, cioè dove non si possono costruire insediamenti urbani e che rimangono sostanzialmente disabitati) ti sembra di essere altrove, se non fossero le fabbriche lungo la strada e le targhe per lo più gialle delle macchine che incrociamo a ricordarti di essere ancora in Israele. Più o meno. Il nostro speciale autista di oggi è Buma, un uomo di cui ho già sicuramente parlato, con una vita incredibile alle spalle, ma di cui mi piace ogni tanto scrivere, per ricordare, per lo più a me stesso, che non tutti gli esseri umani sono così schifosamente egoisti e crudeli. Buma è Israeliano, non religioso, e devoto da tempo alla causa palestinese; da quando suo figlio è morto nella guerra dei sei giorni ha deciso di aiutare in tutte le maniere a lui possibili i palestinesi: facendo la spola tra Gaza e gli ospedali del suo paese per far curare bambini che senza di lui sarebbero stati condannati a morte certa in quella che può essere considerata a tutti gli effetti la prigione a cielo aperto più grande del mondo; organizzando pullman per i bambini di alcuni villaggi in west bank, recuperando il permesso per uscire a tutti, per portarli a vedere il mare, distante pochi chilometri da casa loro, ma impossibile da vedere per quasi tutti; accompagnando i “nostri” bambini, come l’ultima volta, a Gerusalemme per il torneo, ma anche per visitare la Moschea della Roccia, terzo luogo sacro per l’Islam. Insomma, il vecchietto ne fa di cose. E dal primo giorno che io e Max l’abbiamo incontrato grazie a Yasha e Jas, ha sposato la causa di Inter Campus e il suo folle progetto, aiutandoci sempre per i permessi e consigliandoci sul da farsi nei non rari momenti di tensione che accompagnano un’idea come la nostra in un Paese così diviso come questo. Durante il percorso verso il nostro campo si lascia andare alle sue classiche peripezie automobilistiche: mentre guida fa altre cinquanta cose, per cui ti ritrovi a zigzagare fra le corsie mentre scorre la sua rubrica magica, picchi la testa sul sedile davanti a te perché, improvvisamente, per rispondere al telefono, frena con violenza, ti trovi fermo in mezzo alla strada con macchine che sfrecciano suonando nervosamente, perchè vuole mostrarti il muro costruito illegalmente su questo, o quel terreno, su questo o quell’oliveto, ti accosti a bordo strada, in una zona dove certamente non potrebbe perché vuol farci vedere l’insediamento sulla collina, che domina il villaggio palestinese, la dove non dovrebbe stare. Tutte le volte essere in macchina con lui è una esperienza unica, sicuramente per tutto ciò che può raccontarti, ma anche per la paura che riesce a farti vivere: anche i tre o quattro rosari in macchina con Buma fanno parte di inter campus Israele/Palestina.

venerdì 13 ottobre 2017

Here in Jerusalem

"Oggi a Gerusalemme con la macchina non potrete certo entrare", ci dicono dopo l'allenamento di Tel Aviv con i "nostri" profughi, insieme ai nostri bimbi ebrei. Perché? Perché c'è una mega manifestazione pro Israele che inonda le strade di gente, provenienti da tutti gli angoli del mondo e per far loro spazio la città santa rimarrà bloccata. Bene. Niente male. Proprio oggi che alle 16 abbiamo allenamento con i bimbi "delle due parti" insieme, riuniti sullo stesso campo dalla forza attrattiva della palla e, of course, della maglia neroazzurra. Che facciamo? La macchina tanto non l'abbiamo, quindi proviamoci: prendiamo un pullman dalla stazione di Tel Aviv e proviamo a vedere se riusciamo ad arrivare in tempo e soprattutto...se riusciamo ad arrivare!
Di corsa, allora, terminata la seduta del mattino (che ha mostrato grandi miglioramenti, per lo meno comportamentali, nei nostri bimbi!), zaino in spalla, prendiamo un primo bus, per poi salire su questo "405", diretto verso Gerusalemme, sperando che sia solo una leggenda quella che ci hanno narrato riguardo al traffico cittadino.
Fuori dal finestrino scorre la città che man mano va diradandosi, lasciando prima spazio agli uliveti e quindi alle grandi colline che ci conducono lassù, in cima, fino agli 800mt di Jerusalem, di Al Quds; un po' di traffico, un po' di confusione, ma riusciamo in poco più di un'ora a giungere a destinazione (un percorso che di solito richiede circa 45 minuti, per cui...ci è andata bene) e a muoverci a piedi nel casino della città, tra le sue millenarie strade, respirando il fascino unico e...mistico di questo posto. La città vecchia però, per il momento, la sfioriamo soltanto: obiettivo di oggi è beit safafa, il "nostro" quartier generale, là dove si trova il nostro campo e dove giocano i nostri bambini, che quando arriviamo in macchina insieme a Ema e Arturo sono già presenti. Per lo meno quelli palestinesi. Gli ebrei arrivano dopo, alla spicciolata, ma arrivano. Anche uno con i payot, la Kippa e i tallit si unisce al gruppo e la cosa non va sottovalutata. Per fortuna è anche abbastanza abile con la palla, per cui dopo un inizio stentato con il gruppo di bambini arabi (che lo guardavano come fosse un marziano e si domandavano chi fosse e perchè fosse li) li conquista e si guadagna la loro attenzione e il loro favore, al punto da essere conteso al momento della formazione delle squadre per la partitella. Che successo. Se si pensa che oltre a lui, altri due nuovi "evidentemente" ebrei si sono uniti al gruppo, direi che la strada è quella giusta, anche se...si può fare di più. Molto di più. 

mercoledì 11 ottobre 2017

Here in tel aviv

Parlando con "occhi" da turista, tra tutte le città del mondo che ho il piacere di visitare, di conoscere grazie a Inter Campus, questa, ossia Tel Aviv, è una di quelle dove mi piace stare di più: le spiagge lunghe, il lungomare ampio dove da sempre ci si allena alla grande, la vita alla sera, le sue mille culture mixate insieme, la millenaria Jaffa lassù, che domina mare e la città nuova...un po' tutto mi piace di questo posto, nonostante normalmente preferisca città storiche, città da visitare, da vedere, da vivere zaino in spalla e sguardo in su, affascinato da questo monumento romano, o da quel palazzo medioevale, che certo qui non posso trovare, eppure...eppure a meno di un'ora c'è Gerusalemme, la più "mistica" città del mondo, per cui anche quella esigenza, quel bisogno turistico di conoscenza, può essere facilmente risolto.
Parlando invece con "occhi" da intercampista, Tel Aviv non vince certo il premio di città Inter Campus perfetta, ma tutte le difficoltà, i problemi, i casini parte quasi fondante di questa realtà, le permettono di salire sul mio personalissimo podio. C'è da lavorare, c'è da lavorare tanto, ogni volta che si torna qui sembra di essere alla prima missione, ma...ce la si farà! Gli allenatori, intanto, stanno crescendo: anno dopo anno sia Ema che Arturo stanno diventando sempre più bravi e capaci di gestire un campo secondo le nostre esigenze, quindi con attenzioni che esulano dal semplice discorso tecnico, tanto che son convinto tante società delle nostre parti si bacerebbero i gomiti se li avessero nei loro staff, e anche a Gerusalemme le nostre due ragazzine Rozy e Beisan stanno mano a mano prendendo forma e imparando a conoscere il mondo dell'allenamento, quindi...quindi, come scrivo sempre, i problemi sono fuori dal campo, a volte sono più grossi del campo stesso, per cui non possiamo far altro che pedalare dentro e fuori quel rettangolo verde e provarci. 

domenica 8 ottobre 2017

Road to Tel Aviv

Certo che però me le vado a cercare! Conoscendo bene i fastidiosi e invadenti controlli della sicurezza dell'aeroporto di Tel Aviv, presentarsi al controllo passaporti per la seconda volta in due anni con fra le pagine un visto di ingresso Iraniano è una mossa da vero pirlone. Oltreche, ovviamente,  una mossa che mi fa perdere un sacco di tempo, ma sopratutto una mossa che mi fa sentire quasi colpevole di chissà quale reato: le continue richieste di chiarimenti, i sospetti, la tensione che creano questi ragazzini che spulciano fra le pagine del passaporto e ti inondano di domande, mi portano tutte le volte ad autoaccusarmi di tutti i delitti irrisolti nel paese dal 2005 ad oggi!!! Che ansia, come direbbe mia nipote Chiara. La procedura è sempre la stessa: occhiata al passaporto, giro fra i visti, occhio che si sgrana quando lo sguardo cade sulle scritte in farsi, passaporto chiuso e riposto sul lato, telefonata e..."puoi seguire il mio collega, mister Alberto?". Ma certo, non aspettavo altro. Stanzina con altre persone,  tutte in attesa di venir chiamate per poter motivare la propria presenza nel Paese e giustificare il loro presunto reato: l'esser stato in un posto a loro non gradito, provenire da un posto a loro non gradito, o semplicemente essere una persona non gradita. La fortuna però questa volta ha deciso di darmi stranamente una mano mandando con me Omer, il nostro allenatore di Tel Aviv, che ha parlato in ebraico al ragazzo che mi ha fermato, spiegando il perché della mia venuta in Israele, spingendo molto sul fatto che fossi un allenatore dell'inter, dopo aver scoperto fosse un amante del calcio e un appassionato di quello italiano. Bellissimo (adesso bellissimo, al momento non lo è stato per niente) quando un altro ragazzone della sicurezza è entrato nella stanzina, mi ha chiamato e Omer, cercando di ottenere una velocizzazione delle procedure, gli ha parlato dicendogli: "lui è l'allenatore dell'Inter"; il bestione mi ha guardato e con tono scocciato si è rivolto al mio buon amico dicendo "lui non è l'allenatore dell' Inter; io so chi è l'allenatore dell'inter". E certo che non lo sono, se no certo non verrei qui ogni sei mesi a farmi trattare come il peggiore dei terroristi di questo folle mondo! Sono un cacchio di intercampista che prova in tutta umiltà a far funzionare questo folle progetto di integrazione tra israeliani e palestinesi attraverso il gioco del calcio, coadiuvato, sostenuto nel suo lavoro da un bel gruppo di altri matti con cui condivido la passione per l'inter e per la causa, ossia i vari Yasha, Ema, Arturo, Cliff, Beisan, Rozy, Ali...una bella banda, dai.
Mossi da compassione, i vari funzionari della sicurezza decidono dopo poco di lasciarmi andare, con il mio bel fogliettino azzurro inserito nel passaporto: ce l'ho fatto, sono dentro. Ora, per lo meno fino a sabato, giorno del ritorno, posso stare tranquillo.