venerdì 30 giugno 2017

Drivin' in my car

GUIDARE IN GIRO TRA MOKONO E KALAGI
Questa volta il Cuamm ci ha dato buca avendo tutte le macchine occupate in varie missioni in giro per l’Uganda, ma fortunatamente troviamo in quel sant’uomo di Mike la soluzione: per i giorni di permanenza a Nagallama ci presta la sua Toyota Carina, una berlina con sopra segnati 270000 km, ma che in realtà ne avrà per lo meno il doppio. Rattoppata alla meglio in puro stile africano (appena saliti a bordo una copertura sotto la macchina salta: il fil di ferro con cui era tenuta insieme si è rotto e quindi questo enorme pezzo di plastica nera, consumato dal tempo, ora gratta per terra, rimanendo ostinatamente legato alla macchina per mezzo di brandelli di filo. Mi adeguo: recupero altro filo e insieme a Fred rimetto al suo posto il pezzo. Et voilat: come nuova!), funziona alla perfezione, ma ha un difetto che renderà la mia guida nei giorni seguenti piuttosto…fantasiosa! Una lunga crepa attraversa infatti tutto il parabrezza, già sporco di polvere e unto di non so bene quale sostanza, per cui quando alla sera lasciamo l’African Village per andare “in città” a cena, le luci delle macchine che incrociamo si allungano in strisce gialle che occupano tutto il vetro, o si aprono in raggi di luce che mi accecano totalmente, rendendo nera, completamente nera, la strada che sto percorrendo. Ogni matta, boda-boda o semplice auto privata che mi viene incontro è per me fonte di preoccupazione: per tutto il periodo in cui i loro fari puntano verso di me, io guido “a memoria”, sperando che nessuna delle centinaia di persone che come sempre sta camminando a bordo pista, decida di cambiare direzione, o, peggio ancora, di attraversare la strada. A complicare ulteriormente le cose, poi, va considerato che anche le altre auto che incrociamo sono state immatricolate per lo meno prima che io nascessi, quindi i loro fari non sono propriamente ben orientati, o ben funzionanti, per cui…non si capisce veramente un cacchio!!!
Se a tutto ciò aggiungiamo il non trascurabile fatto che da queste parti vige la tradizione automobilistica inglese, ossia guida a sinistra, uscire la sera sta diventando per me più impegnativo di un allenamento con 40 2011 alla prima esperienza con una palla! Arrivo al ristorante…al posto dove mangiamo che sono sempre quasi sudato! Ma anche questo fa parte di Inter Campus…sempre che lo si riesca a raccontare.

giovedì 29 giugno 2017

Oltre il cancello

NAGALLAMA ST.JOSEPH PRIMARY SCHOOL
Credo questa, spero questa, sia una di quelle cose cui non mi abituerò mai: entrare dal cancello della scuola ed essere accolto da questa marea neroazzurra era, è e sarà sempre una grandissima emozione. Per chi come me questi colori se li sente addosso, li sente come parte della propria vita, come seconda pelle, la vista di così tanti bimbi, tutti insieme, dai 6 ai 14 anni, vestiti con quella maglia…indescrivibile. E non è come andare in questo periodo in uno qualsiasi dei centri dove si stanno realizzando le scuole calcio estive: anche li tutti i bambini indossano la stessa nostra, amata, maglia, anche li il colpo d’occhio scatena emozioni positive, anche li la passione per il calcio che anima i bimbi è la stessa che qui, ma…ma qui quella maglia dona un prestigio unico alla “mia” Inter! Le scuole calcio estive le fanno tutti, tutti distribuiscono la propria maglia a bimbi che pagano per giocare una settimana in questo o quel campo, ma a Nagallama, in questo “bucio di culo” (permettete il francesismo), ci siamo solo noi a far giocare bambini che corrono dietro quella palla senza scarpe; a far giocare bambini che sotto quella maglia, che venerano e tengono come fosse una reliquia, indossano canottiere bucate e zozze; a far giocare bambini che mangiano una volta al giorno, quando va bene; a far giocare bambini che per venire a scuola e quindi poi per allenarsi con noi o con i nostri coach, camminano anche per un’ora, da soli, lungo la main road, tra matatu impazziti e boda-bora spericolati; a far giocare bambini che se non avessero incontrato inter campus sul loro percorso probabilmente sarebbero ancora in fila ad aspettare il loro turno per calciare in porta, in un esercizio che con un pallone prova a coinvolgere cinquanta bambini. Insomma, tutti fanno scuole calcio estive a pagamento, ma solo Inter fa Inter Campus. E, cacchio, è un vero peccato. Perché se noi arriviamo a far giocare circa 10000 bambini all’anno con la nostra maglia, con il nostro metodo di allenamento, con le nostre proposte che attraverso il calcio educano, crescono, pensa se tutte le grandi società calcistiche per lo meno italiane facessero lo stesso, quanti altri bimbi riusciremmo a coinvolgere. Cacchio! Noi, la seconda squadra di Milano, quella di Torino, la Roma: solo queste quattro potrebbero toccare circa 50000 bambini. Uno sputo nel mare, certo, se consideriamo i bambini in difficoltà nel mondo, ma sarebbe già più di quanto riusciamo a fare noi, sarebbe già una crescita. Invece rimaniamo solo noi. C’è solo l’Inter! Caro tifoso, solo per questo motivo dovresti giurare amore eterno ai nostri colori!



sabato 24 giugno 2017

Ritorno in Uganda

WELCOME BACK, MZUNGO
A soli tre mesi di distanza mi ritrovo seduto sulla ormai ma seggiola, nella ormai mia capanna, nell’ormai mio african village, a svuotare su questo foglio di carta virtuale la somma di esperienze di questa nuova avventura ugandese. tre mesi e non i canonici sei son trascorsi dall’ultima missione, perché…be’, non posso scriverlo, altrimenti altri richiami ufficiali, altre censure pioverebbero sul mio blog. Va bene così, diciamo. Tre mesi in cui, rileggendo ciò che ho scritto a Marzo, deve essere successo qualcosa in questo paese, perché gli standard quasi europei dell’aeroporto di cui narravo sono ormai uno sbiadito ricordo, sostituito da una più cruda e incasinata realtà: appena sbarcati dall’aereo, infatti, una fila sconclusionata, senza un apparente inizio, ma soprattutto senza un’unica fine, ci ha accolto al controllo passaporti, dove trascorriamo quasi un’ora in attesa di pagare il visto da 50$ che ci permette di entrare nel paese; sopravvissuti a questa prima prova, eccoci però al vero test di sopravvivenza: il recupero bagagli! Una calca “spingente” soggiorna nei pressi del nastro, quasi impedendo la vista delle valige che su di esso scorrono lentamente e quando finalmente riusciamo a tornare in possesso delle nostre borse, un’altra disordinata fila ci si para d’innanzi! Gente che spinge a destra, gente che spinge a sinistra, il carrellino di quello dietro che continua a colpirmi le caviglie stile difensore di terza categoria in marcatura sulla punta, su calcio d’angolo e tutto per dimostrare, attraverso la ricevuta che ti lasciano al momento del check in, che il bagaglio che hai con te è effettivamente tuo e poterlo così, in seguito, passare sotto la macchina a raggi x per fartelo controllare ed essere definitivamente libero. Non contento però di tutto il casino vissuto fino a quel punto, decido saggiamente di dimenticare la mia borsa con il lap top alla macchina a raggi x e, soprattutto, penso bene di ricordarmene solo una volta fuori, mentre stringo la mano al nostro driver, mandatoci dal Cuamm per il trasferimento all’African village. “cazzo, il mio mac”, urlo, e con scatto di Boltiana memoria mi fiondo nuovamente nella hall dell’aeroporto, dove però vengo malamente fermato, giustamente aggiungerei, dalla sicurezza, che un po’ alterata per il mio tentativo di irruzione, mi spinge verso altri controlli, da cui devo necessariamente passare per ri-entrare. Passato questo piccolo varco, però, mi imbatto in un secondo controllo, che, anche qui giustamente, mi impedisce di tornare nello stanzone dove si riconsegnano i bagagli. La fortuna è dalla mia e i due addetti alla sicurezza rimangono colpiti dalla mia polo Inter, così quando spiego loro il perché io l’abbia indosso, mi fanno lasciare lì zaino e documenti per tornare ai nastri a recuperare il mio computer. “I get it”, dico loro sorridendo. “Uebale sebo”. Scatenando una loro risata, guadagno, finalmente al completo, l’uscita, per salire in macchina e trascorrere altre tre infinite e noiosissime ore nel traffico di Entebbe e Kampala, prima di raggiungere la tanto agognata meta. Sono distrutto, ho un sonno micidiale, ma sono le 17:30, quindi…che faccio? Fuori, ci si allena. Una bella sudata e torno come nuovo…o quasi, pronto, ora, per un sonno rifocillante. Domani si inizia!

lunedì 12 giugno 2017

venerdì 9 giugno 2017

In giro per Kin

Se a Teheran ho vissuto quasi più tempo in auto che in campo a causa dell'incredibile e assurdo traffico della città, a Kinshasa ho passato in auto più tempo con gli occhi chiusi, che aperti!!!
Nemmeno ai tempi di Padre Stefano a Luanda e del suo selvaggio "dambaiare" (cioè "tagliare", "rubare tempo e spazio in auto agli altri", insomma...commettere infrazioni!) ho avuto tanto timore di trovarmi il muso di un auto nella portiera laterale, o di finire io stesso nel baule di una qualsiasi altra carriola a motore che gira per la città. Non ricordo chi abbia detto "le regole sono fatte per essere infrante", ma penso fortemente fosse un abitante di questa immensa, poverissima, disordinata e distrutta (ieri, rientrando dal fiume, col buio, a momenti finisco in un cratere penso causato dalla caduta di un asteroide, viste le dimensioni) capitale: macchine che vengono contromano, come se fosse la cosa più normale del mondo; motorini che si infilano, incuranti del pericolo, in ogni pertugio; folli pedoni che si lanciano nei pochi boulevard, vivendo l'esperienza di una roulette russa, come se un semaforo verde li avesse autorizzati a lasciare il "marciapiede"; mezzi di ogni genere, dimensione e soprattutto... di ogni anno (qui o ci sono i macchinoni tipo scorta presidenziale americana, con i vetri neri, lucidi e giganteschi, oppure girano con macchine tenute insieme da fil di ferro, con ruotini al posto del normale pneumatico, vetri rotti, parabrezza con più crepe che posti a sedere) che schizzano da una corsia all'altra (fossero segnate, le corsie), in cerca di uno spazio, anche minimo, ove infilarsi, per avanzare l'avversario, il vicino di finestrino; semafori-robot (non è uno scherzo: qui i semafori hanno la forma di robot, quelli da fumetto, tipo Daitan 3) che ormai servono solo per abbellire (oddio) la strada, vista la loro totale e assoluta inattività. Insomma, un vero inferno fatto di auto e asfalto, che fortunatamente (sei sicuro???) vivo da passeggero, da dietro, perchè se dovessi anche guidare impazzirei!!! 

giovedì 8 giugno 2017

Sul campo della Gombe

SUI CAMPI DI KINSHASA
Tra tutti e ventinove i campi del mondo Inter Campus, quello in sabbia dell’IT Gombe di Kinshasa è uno dei miei preferiti ed è sicuramente uno di quelli dove mi diverto di più in assoluto. Un campo a undici enorme, in sabbia gialla, giallissima, con tutto intorno erba altissima e gli edifici della scuola professionale gestita un po’ dai salesiani e un po’ dallo stato; un campo senza linee, con le porte senza reti, con buche, buchino, buchette e sconnessioni varie, dovute al fatto che, essendo in sabbia, ogni cambio di direzione lascia una traccia, una cunetta, un solco, che determina il rimbalzo del pallone, la corsa della palla lungo il terreno di gioco; un campo sempre pieno, ogni giorno, dalle 14 alle 18, dei nostri trecento bambini che, seguiti dai nostri 12 allenatori, si allenano, giocano, si divertono e rimangono lontani da quella strada così poco distante e così pericolosa per ciascuno di loro. Trecento sono i nostri, ma il campo accoglie almeno un altro centinaio di bambini nelle stesse condizioni: senza scarpe, con abiti logori, figli di militari feriti o rimasti disabili in una delle tante guerre del Congo e “raccolti” nei vari campi che circondano il nostro “stadio”. Un altro centinaio di bambini che però, al momento, non possiamo accogliere: non abbiamo allenatori che si prendano cura di loro e anche lo spazio, un solo campo, è ormai sovrasfruttato per pensare di aumentare il numero dei gruppi, per cui per ora, con nostro grande dispiacere (provate voi a dire a uno di questi bimbi, cacchio, mi spiace, ma adesso non possiamo farti giocare con noi. Scusaci) riusciamo a coinvolgerli solo come raccattapalle, come assistenti, come aiutanti, ma, cacchio, non come “calciatori”. Ma, ripeto, per ora: se le cose miglioreranno anche qui come in altri nostri progetti nel mondo, nulla ci vieterà di ampliare, di coinvolgere più bimbi, di fare più gruppi e di far così giocare più bambini! E di divertirmi ancora di più. Perchè la fame che hanno qui, la voglia di calcio, di apprendimento, di divertimento, che trovo ogni volta su questo campo del mondo, non la trovo spesso. Vanno come fulmini, hanno una linea di apprendimento praticamente verticale, per quanto riescono ad assimilare dal primo all’ultimo minuto della seduta, ascoltano e hanno tutti una buona base motoria che ti permette di proporre esercitazioni anche complesse. E se penso a quando siamo partiti qui, non posso che essere contento di come stiamo lavorando…su questo campo del mondo! 100 bambini, 4 allenatori, poi i soldi dell'Unicef, il campo al Tata Raphael (lo stadio dove si svolse lo storico combattimento Foreman-Ali nel '74), l'aumento dei bimbi e...oggi. Avanti così, se non meglio

mercoledì 7 giugno 2017

Il buio di Kinshasa

CORRENDO NELL’OSCURITÀ
certo che qui quando fa buio, lo fa sul serio! Ho deciso di andare a correre alla fine della giornata, dopo la mattinata di teoria e il pomeriggio in campo. Non più, dunque, come quasi sempre quando sono in trasferta, alle prime luci del giorno (così dormo un po’, cacchio…e non me ne voglia Silvia), ma con l’arrivo del buio. Rientro infatti a casa al termine dell’allenamento con i “miei” bambini che sono ormai le 17:30 e anche se velocissimo riesco a cambiarmi e ad indossare il mio garmin, il tramonto è ormai prossimo: alle 5:30 circa fa luce e alle 18:30 circa fa buio da queste parti. Ad aumentare il buio ci sono poi in cielo nuvoloni neri, segno inequivocabile di un temporale imminente, ultimo colpo di coda dell’ormai conclusa stagione delle piogge. Esco quindi che la luce ancora c’è, anche se le ombre iniziano inarrestabilmente ad allungarsi, e quando chiudo il riscaldamento sul lungo fiume congo, ormai intorno a me è tutto buio. Ma buio vero, cacchio! Fortunatamente l’unica zona di Kinshasa dove un mundele come me (bianco, nella lingua locale) può permettersi di allenarsi senza rischi è la zona delle ambasciate, dove c’è anche la residenza privata del presidente, la zona bianca per eccellenza, la zona ricca, quella quindi con anche l’illuminazione stradale…più o meno. Perchè i lampioni vanno due su cinque e a corrente alternata, ossia per un po’ due, per un po’ gli altri, creando un “simpatico” effetto vedo, non vedo, lungo la mia “pista”. Ad aumentare le difficoltà vi è anche la chiusura della zona pedonale lungo il fiume, chiusa in seguito ai violenti scontri di inizio anno che hanno causato anche diversi morti (scontri dovuti alle mancate elezioni presidenziali: il buon vecchio capo dello stato ha deciso di non lasciare il potere e di prolungare la sua nomina per almeno un altro anno e ciò ha causato un tentativo di rivolta da parte della gente, tentativo soffocato sul nascere con la violenza), per cui mi ritrovo costretto a correre quasi al buio, lungo la grande strada che porta all’hotel del fiume e agli altri grandi hotel dei bianchi. Per fortuna ci sono i lampi che piuttosto con frequenza illuminano la mia strada praticamente a giorno, senza però scaricare alcuna goccia di pioggia, per cui riesco a realizzare il mio programma di allenamento senza grosse difficoltà…oddio, senza difficoltà. Sto cacchio di infortunio e la forzata inattività si fa un po’ sentire sulle gambe e portare a casa il risultato oggi è una bella impresa. Ma sono contento. Contento per la bella giornata di lavoro, per il bell’allenamento proposto in campo, per il fatto di essere solo come allenatore (non c’era nessun mister disponibile, poiché tutti impegnati o in missioni contemporanee o che prenderanno il via al termine di questa congolese) e di essere quindi tornato ai tempi della prima africa con Max, e contento per la bella corsa “notturna”. Ora un po’ di ghiaccio sul ginocchio e poi si cena. Ho una fame… 

martedì 6 giugno 2017

Retour á Kinshasa

Retour a Kinshasa
Toccata e fuga in Italia, parsa più lunga grazie al ponte del due giugno che mi ha permesso di tuffarmi a tempo pieno in Anna e Silvia, e dopo una settimana giusta, rieccomi in volo: destinazione RDC, più precisamente, vista la vastità del paese, la capitale, Kinshasa.
L’aereo su cui viaggiamo mi lascia un po’ interdetto al momento dell’imbarco, perché è piccolino e seppur la rotta Istanbul-Kin non sia lunghissima, vedere questo aeroplanino e pensare che le mie prossime sei ore le trascorrerò su di lui, un po’ mi inquieta. Ma mi sbagliavo. Il volo fila via liscio, anche grazie ad una inaspettata e rara botta di culo: la mia fila è completamente vuota e così dopo il pranzo ho sollevato i braccioli e mi sono abbandonato ad un sonno profondo, compreso anche di sogni (essendo la mia sveglia suonata alle 3:45, una sana dormita in volo ci voleva!). Peccato che il sogno comprendesse Yasha e una sua presenza strana a casa mia (chissà dove era, però, questa casa mia), mentre facevo lezione di inglese con Claire Lewis, una ragazza che ha lavorato in Inter fino a non molto tempo fa. Assurdo. Così, tra sogni assurdi, un film pallosissimo, Fences con D. Washington (che poteva anche essere bello per i temi che tratta, ma i dialoghi infiniti del protagonista e la staticità assoluta delle scene mi hanno fatto rimpiangere Yasha in casa mia) e un momento dedicato alla stesura degli staff per il prossimo semestre di viaggi, eccomi abbastanza velocemente a Kinshasa. Qui l’aeroporto è ancora migliorato ed è un altro posto completamente rispetto a quella bolgia infernale che ci accolse ormai dieci anni fa, la prima volta che sbarcammo su questo campo del mondo: aria condizionata, wi fi (che non funziona, però c’è), mille posti per il controllo passaporto, che riducono le attese, le valige consegnate in brevissimo tempo, un tempo totale dallo sbarco, alla macchina che ci aspettava di meno di un’ora. Insomma, uno spettacolo. Peccato che il progresso si fermi alla porta di uscita degli arrivi, perchè una volta in strada si torna alla vecchia e conosciuta situazione congolese: macchine da tutte le parti che ondeggiano tra le corsie, gente che attraversa in ogni dove, camioncini adibiti al trasporto delle persone (sono delle specie di ducato, cui hanno inserito delle panche di legno nella parte posteriore, senza finestrini e con solo il portellone posteriore come via di uscita) che sfrecciano e scartano improvvisamente per raccogliere altre persone (che non si sa come, riescono sempre a trovare spazio in uno di questi mezzi già stracolmi)…un delirio, con colpi di clacson di diverse tonalità come colonna sonora. Cara, vecchia, Kinshasa…

giovedì 1 giugno 2017

A scuola...

LA SCUOLA IDEALE
Incredibile: sono tutte uguali. Le scuole pubbliche da queste parti sono identiche, sono costruite tutte allo stesso modo (anche il cancello di ingresso è lo stesso dappertutto) e hanno tutte le stesse strutture esterne: un campetto da calcio, un campo da basket e un altro spazio libero. Sia qui a Shanghai che a Jiangsu, questa città a Nord di Nanjing dove siamo andati oggi per provare ad ampliare il nostro intervento insieme alla fondazione Suning, sono fatte tutte allo stesso modo. E anche l’organizzazione al loro interno è la medesima, cosi come il protocollo per l’accoglienza della nostra delegazione: arriviamo, ci accolgono nel cortile il delegato del ministero dell’educazione, il preside e il professore responsabile dello sport (in particolare del calcio, essendo diventato materia di studio nelle scuole…Spettacolo! Sarei dovuto nascere oggi e in cina, altro che. Il liceo così lo avrei fatto ad occhi chiusi, senza combinare tutti i casini che ho combinato!!!), ci fanno vedere le strutture, ci fanno conoscere qualche bambino (La disciplina, l’ordine cinese sono una leggenda. Questi fanno un casino assoluto e sono ben poco disciplinati!), per poi portarci nella “meeting room”, dove ci servono del the bianco bollente e imbevibile (non perché non sia buono, ma perché scotta, cacchio!) e dove spieghiamo loro il perché della nostra visita e le nostre intenzioni, o meglio le intenzioni del progetto che rappresentiamo, immaginando una collaborazione con la loro scuola. Tutto uguale. Tutto pre confezionato. Tutto già scritto. E da questi canoni non si esce. Difficile quindi per noi riuscire veramente ad intervenire dove ci sarebbe più bisogno di inter campus: loro ti fanno vedere quello che vogliono, forse quello che possono farti vedere, e difficilmente, almeno finora, ti mostrano realtà veramente, evidentemente, bisognose. Come in altri paesi sotto regime, mi viene in mente Cuba subito (e ho trovato un sacco di affinità tra questi due paesi. Stupefacente vedere i bambini cinesi eseguire lo stesso “riscaldamento” che tanto sto combattendo e togliendo dai nostri campi, sull’isola caraibica: polsi che girano, gamba sollevata e caviglia che gira, testa che gira…volevo urlare quando ho visto i bimbi cinesi fare gli stessi esercizi!!!), la povertà, le scuole, i villaggi più ai margini, più bisognosi, sono celati all’occhio dello straniero e ogni passo che fai, lo fai seguito, guidato da loro, quindi diventa difficile riuscire a realizzare inter campus al 100%, come vorremmo noi. Magari poi mi sbaglio, ma questa è la sensazione, condivisa anche coi miei compagni di viaggio, che ho avuto oggi: i bambini che ci presentano hanno certamente bisogno di crescere, di essere educati attraverso il calcio, ma probabilmente giocherebbero comunque, avrebbero comunque garantito il loro diritto al gioco. Ce ne sono altri, a mio parere, che non hanno le stesse opportunità, la stessa possibilità di far parte di una squadra, ce ne sono altri che più di tutti godrebbero della maglia neroazzurra, ma non riusciamo ad incontrarli.  Certo, come sempre dico,  a tutti i bimbi del mondo fa bene inter campus e ovunque ci sia una palla che rotola si educa, si cresce un bambino (purtroppo il più delle volte in maniera negativa, rendendo vano il potenziale educativo naturale, proprio dello sport), per cui, al momento, fidiamoci dei nostri nuovi amici e vediamo cosa riusciamo a fare. Poi col tempo, vedremo di ampliarci.