martedì 12 giugno 2018

Lubumbashi mon amour


LUBUMBASHI MON AMOUR
Finalmente siamo arrivati! Anche questa volta il viaggio infinito che ci porta nella capitale del Katanga, nella capitale delle miniere, nel centro “potenzialmente” ricco del Congo, ha avuto termine ed ora eccoci pronti per la consueta sgambata scogli gambe post viaggio dentro le mura del “complex la plage”, ossia casa nostra. 23 ore dopo essere partito da casa, infatti, riapro la porta di quest’altra casa, ormai anch’essa considerata mia, visto anche che ha i mobili del soggiorno Ikea esattamente uguali a quelli di Villasanta.23 ore che comprendono non solo il volo e i vari scali, ma anche il passaggio dovuto nella voglia infernale di dantesca memoria che altro non è che l’aeroporto internazionale di Lubumbashi, che detta così sembra un normale e moderno aeroporto, invece…già il fatto che quando scendi dalla scaletta dell’aereo puoi camminare, anzi devi camminare, lungo la pista per entrare alla dogana, ti fa capire che sei arrivato un posto…speciale. Poi, una volta che sei entrato nello stanzone per il controllo passaporti, il continuo andirivieni di strane persone con dei fogli in mano con su scritti nomi, per lo più cinesi, ti da’ la conferma della stranezza del luogo. Non è normale trovarsi in attesa, in fila, e vedere gente intorno che segue questi cartelli, lascia la fila, consegna il proprio passaporto a “l’uomo del cartello” e…va. Parte, esce: salta la fila, supera i controlli ed esce. È successo anche a noi, come sempre: siamo in fila, un ragazzo osserva la mia polo col simbolo, mi mostra il suo foglio con su i nostri nomi e al mio cenno affermativo…puff. La folla sparisce, la fila scompare e ci ritroviamo nell’androne dove si ritirano i bagagli. Ma anche qui l’attesa è limitata: oltre ai nostri passaporti il nostro angelo, nero, custode ha voluto anche il talloncino delle valige spedite, così lui penserà anche a questo, mentre noi iniziamo ad uscire, superando l’ultimo ostacolo, anzi gli ultimi due: “l’accuratissima” ispezione del bagaglio a mano e la barriera umana di persone che preme per entrare in aeroporto ( tutta gente che prova ad entrare per poter rimediare qualche dollaro da qualche bianco portandogli la borsa, recuperandogli la valigia, o compiendo qualsiasi altro lavoretto per lui) e che impedisce a chiunque, fisicamente, di uscire. Tutte le volte la stessa cosa: dal 2011, anno della mia prima missione in Katanga, ad oggi, sembra che il tempo qui si sia fermato: non si cambia, non si evolvono le cose. Tutto è fermo, tutto è identico, pur mostrando, edifici e strade, i segni del tempo che scorre. Chissà se mai anche qui scatteranno in avanti le lancette dell’orologio.



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