venerdì 2 dicembre 2016

Qualche foto cubana


LO STILE C'È TUTTO


NEMMENO I GIAPPONESI FANNO TANTE FOTO!


IL TORNEO FINALE ALLO STADIO!


TUTTI INSIEME!!!

mercoledì 30 novembre 2016

El Festival Inter campus

Il festival finale
Come da tradizione, la settimana di lavoro a l’Havana si conclude con il “festival” di Inter Campus, come lo chiamano qui, ossia con il torneo finale, che vede coinvolti tutti i nostri bambini, oggi sessanta, parte di tre municipi della città, Plaza, Boyero e Playa, tutti tra i sei e gli otto anni e che coinvolge sopratutto i genitori sugli spalti del Pedro Marrero. Come da noi, come in Messico, come in Nicaragua, come in quasi tutto il mondo dove lavoriamo e dove i nostri bimbi hanno i genitori, questi ultimi sono sempre i più scatenati il giorno delle partite. Sarà anche per questo motivo che a me il torneo finale non piace per nulla… non so, fatto sta che durante le partite i bambini si divertono, o almeno così pare, e si entusiasmano per ogni pallone che per caso riescono ad indirizzare verso la porta avversaria, o per qualche dribbling strampalato che è loro riuscito, per cui…che torneo sia. Perché non mi piace il torneo? Perché quando i bambini coinvolti sono così piccoli, qui quasi tutti di sei anni, la partita non è altro che una battaglia tra mille piedini che scalciano contemporaneamente quel povero oggetto sferico, muovendosi come uno sciame di mosche su di una zolletta di zucchero, sperando di riuscire a spostarla da un lato all’altro del campo, risultando così assolutamente, per me, inutile ai fini della formazione, della crescita dei bimbi. Se potessi limiterei le partite a dei confronti 3<3, con campi più ampi che lunghi, sempre con delle porte da “sfondare”, per cercare di essere più efficaci per il nostro obiettivo. E perché non lo faccio? Perchè ci manca il materiale, potrebbe essere già un valido motivo: oggi abbiamo giocato su tre campi, costruendoli con circa cinquanta cinesini e 10 coni, 5 palloni e nessuna casacca, mentre per far giocare contemporaneamente il maggior numero di bambini, in modo da evitare sommosse popolari, dovrei costruire per lo meno 5 campetti (in una situazione come quella di oggi vorrebbe dire 30 giocano e 30 riposano). Ad ora impossibile. E visto che al centro del nostro intervento c’è il bambino e il suo divertimento, finché si diverte a scalciare compagno, terra e se capita pallone, a me può andar bene; sfrutterò le sedute e le farò sfruttare al massimo ai "miei" allenatori, per “allenare” nel senso stretto del termine (sempre in ottica inter campus, tale senso stretto, sia chiaro!).
Quasi due ore di sfide si sono susseguite sul campo della nazionale, sul cui tabellone troneggiava il risultato dell’ultimo incontro disputato (Cuba-Usa 0-2), prima che un nostro nuovo “amico” non venisse a trovarci, per realizzare una foto che rientra nel suo progetto "terzo paradiso. Nuovo amico che è Michelangelo Pistoletto, a me sconosciuto fino a poche ore prima della fine del torneo, ma agli appassionati di arte super conosciuto, col quale ci fermiamo a parlare un po' del nostro intervento, di ciò che riusciamo, proviamo, a combinare nel mondo attraverso il calcio e lui attraverso la sua arte e che si rivela una piacevole, nuova conoscenza.  

Concluso il torneo, una leggera pioggerella ci accompagna all'uscita dello stadio e chiude la nostra missione in terra cubana: vediamo ora da qui a sei mesi cosa succederà...

lunedì 28 novembre 2016

Educare col calcio: belle parole

Quarto Dia


Oggi la discussione in aula si è fatta calda, accesa, più del solito: approfittando della mancanza di Alexei, il responsabile per l’inder a l’Havana, quindi approfittando dell’assenza del “controllore” della federazione sui campi della capitale, dopo aver fatto veder loro dei video relativi alle giornate passate insieme in campo in cui emergeva chiaramente il diverso coinvolgimento, il diverso divertimento dei bimbi allenati da noi, piuttosto che da loro (e non lo abbiamo fatto per darci delle arie: abbiamo ritenuto utile far vedere loro ciò che normalmente non riescono a cogliere, concentrati come sono sull’allenamento, sul mantenimento dell’ordine, della disciplina e sulla riuscita dell’esercitazione), si sono scatenati. Tutti d’accordo, tutti consapevoli del fatto che il metodo imposto ormai sia da cambiare, da sostituire, perché inadatto e soprattutto infruttuoso, visto il livello ancora “bassino” del calcio a Cuba, ma anche tutti consapevoli del fatto che il cambiamento non potrà mai avvenire dal basso, quindi a partire da loro. “Dovete invitare ai corsi i nostri capi”, ci dicono strofinandosi le spalle con due dita, gesto inequivocabile che sta ad indicare i capi, i generali, “solo così potremo ottenere qualcosa”. “SI, ma allo stesso tempo dobbiamo vincere qualche campionato noi municipi che facciamo parte di Inter Campus. Visto che loro guardano solo il risultato, solo così possiamo attirare il loro interesse sul vostro metodo”. Risultati…loro guardano solo i risultati. Questa frase nell’ultimo periodo mi sta perseguitando e la sto combattendo ferocemente più di prima, ma, ahimè, mi sto anche rendendo conto che non credo che riuscirò mai ad eliminarla. Anche in Italia funziona così. Anche ai bassi, bassissimi livelli, anche quando in campo vanno i bambini, l’unica cosa che conta è il risultato. E tutti la pensano così, nessuno escluso: qualcuno fa finta di pensarla diversamente per brevi periodi, ma quando non ottiene per un po’ vittorie da poter esibire al bar sotto cosa, di cui poter parlare con i suoi amici totalmente ignoranti calcisticamente, ma poiché italiani in possesso di non si sa bene quale sconfinato sapere legato al calcio e all’allenamento, ecco che la solfa cambia. Tutti, ma proprio tutti, anche nelle società con cui noi intercampisti abbiamo a che fare in Italia, le cose hanno preso questa stupida, ignorante e maledetta piega e non riesco a combattere questa tendenza. Anzi, sto soccombendo. Noi, gli allenatori, la vediamo tutti allo stesso modo, ma da tutt'intorno arrivano messaggi ben precisi “dobbiamo vincere”. Chi se ne incula del come. Chi se ne incula del fatto che se anche avremo vinto un campionato quest’anno, se non ho lavorato per cercare di accompagnare nel loro percorso di sviluppo tutti i giocatori, dando loro regole, rispetto, dando loro fiducia in se stessi, aiutandoli a stare insieme, a conoscere altri al di fuori di sé e magari aiutandoli ad accettarli, non avrò fatto un bel niente per i miei ragazzi. Perché di questi, quanti continueranno a giocare? Quanti arriveranno alla prima squadra? Quanti faranno di questo sport il loro mestiere? Ma a loro che gli frega: avranno messo in bacheca la foto della squadra “campione”. Pensare di accendere nei cuori di questi ragazzi la passione per lo sport, che li accompagnerà per tutta la vita per loro è cosa lontana; pensare di far avvicinare questi ragazzi allo studio relativo allo sport (liceo sportivo, scienze motorie) solo grazie agli allenamenti con cui li coinvolgi quotidianamente, aiutandoli a trovare un loro talento, una loro passione, per loro è cosa non di loro competenza; pensare di…già, pensare. No, conta solo vincere. A cuba, come in Italia. Su tutti i campi del mondo.

venerdì 25 novembre 2016

Aula e campo al Pedro Marrero

Tercero dia


Aula e campo si alternano bene e la versione 2.0 del progetto Cuba sembra tendere al meglio, visto il coinvolgimento dei mister in aula, i dibattiti accesi durante le lezioni e le belle chiacchierate portate avanti anche nei momenti extra formazione. Certo, poi il campo è un’altra cosa, l’allenamento è sempre la cartina tornasole, e quello che abbiamo visto oggi nel barrio Playa, col nostro “profe”, come dicono qui, Raoul, non ci ha completamente soddisfatti, anzi…ma per lo meno li ho visti consapevoli, consci dei limiti legati all’applicazione ottusa, quasi maniacale, del loro metodo e desiderosi di cambiare. E per fortuna!!! Non ne posso più di venire a Cuba, e sono ormai sette anni che vengo sull’isola, e vedere in ogni posto, che sia L’Havana, Las Tunas, Holguin o Granma, sempre le stesse cose, sempre gli stessi, inutili, noiosi e antidiluviani esercizi: bambini in cerchio che muovono la testa su e giù, che sollevano una gamba e muovono il piede allo stesso modo, che si toccano le spalle con le mani ed eseguono circonduzioni. Basta!!! Non vi reggo più! E i bambini nemmeno, perché quando “li prendiamo in mano” noi i volti cambiano, il coinvolgimento aumenta, qualcosa in loro si accende e gli esiti della seduta mutano drasticamente, portando tutti, chi più, chi meno, in relazione alle capacità di ognuno, a migliorarsi, a crescere, ma soprattutto a divertirsi. Purtroppo però questo cambiamento non è cosi semplice, perché ogni allenatore è controllato dall’ Inder (dal ministero dello sport) e DEVE organizzare le sedute seguendo la programmazione che arriva dal comitato centrale e secondo il metodo che lo stesso impone, un metodo che discende dalla scuola russa e che tutto può fare, fuorché divertire e migliorare le abilità dei bambini. E nessuno si salva, nonostante ormai mi sembra siano tutti arrivati oltre le soglie della sopportazione e vogliano tutti aprirsi al cambiamento. Ma non possono. Non ancora. I capi, coloro che comandano, sono ancora legati a quel governo accentratore, controllore, a quella sovrastruttura rigida che dominava e determinava la vita sull’isola e non sono capaci di staccarsi da essa (non credo non vogliano, per quello che ci dicono), non riescono ancora a farne a meno, per cui ancora per un po’ ci toccherà sorbirci corse in fila lungo la linea del fuori, stretching con bambini di sei anni, movimenti tipici dei vari anziani che incontro al parco di Monza quando vado a correre e altre indicibili situazioni. Ma, come scrivevo in principio, qualcosa sta cambiando e il nuovo progetto iniziato sembra tendere al meglio, portare migliorie e ammodernamento anche da queste parti. Lentamente, con calma, al ritmo cubano, ma forse riusciremo a vedere già la prossima volta un gioco iniziale per iniziare la seduta, al posto del solito riscaldamento alla Bolchi!!! Chissà.

giovedì 24 novembre 2016

Secondo giorno nella Capital

Secundo dia 


Questa notte ho fatto ancora meglio: erano da poco passate le 22 quando ho preso in mano internazionale e, convinto, mi sono messo a leggere l’articolo interessante riguardante il Rwanda che avevo iniziato in aereo, ma dopo poco più di tre righe le palpebre hanno iniziato a sbattere più velocemente, lo sbadiglio ha iniziato a ripetersi con insistenza e la testa è diventata più pesante, fin quando, non dopo la sesta riga…puff. Secco, con il settimanale sul volto. Trovo le forze giusto per togliermi gli occhiali e da li, fino alle 7 di questa mattina, nemmeno un sussulto, solo una grande, profonda, dormita. Cazzarola, Anna mi segna le notti brianzole, ma in giro, certo, non mi faccio mancare la compagnia di Morfeo. Il prossimo viaggio mando Silvia! Tocca anche a lei recuperare!
Le 9 ore di sonno (confesso, sottovoce, che se avessi potuto, sarei andato ancora avanti) mi riconsegnano alla città in perfetta forma, sveglio e pronto per un bell’allenamento lungo il Malecon. Dopo tanti lunghi per preparare la mezza di Monza, torno ai miei vecchi allenamenti super intensi insieme al prof: 1000-tabata-1000-tabata-1000, scendendo e risalendo il famoso lungomare della capitale, con onde che si infrangono sugli scogli, scaricando i carichi di acqua sul marciapiede dove stiamo correndo e un vento forte che spira dall’oceano a rendere ancora più difficile la corsa. Sono tanti gli “atleti” che incontriamo lungo il percorso, più del solito, e verso la fine dell’allenamento scopriamo il perché: domenica ci sarà la “maravana”, ossia la maratona de L’Havana, per cui un sacco di runner da tutto il mondo stanno arrivando per partecipare e stanno rifinendo la loro preparazione qui, insieme a noi. Domenica sarò ancora qui, avendo l’aereo alla sera. Quasi, quasi…



mercoledì 23 novembre 2016

Nell'isola "socialista"

Nell’ ex repubblica socialista


Nemmeno sono riuscito a concludere il racconto della missione in Israele-Palestina, che mi ritrovo di nuovo catapultato dall’altra parte del mondo: partenza da Linate alle ore 12, arrivo alle ore 21, in realtà le 3 del mattino in Italia, e via, pronto per un’altra avventura. Pronto…mas o meno; un po’ rincoglionito, ma via, si riparte, ancora una volta a Cuba, l’Havana per l’esattezza, ancora una volta provando a raddrizzare al meglio le cose in questo progetto che tanti problemi ci sta regalando negli ultimi anni.
Atterrati all’aeroporto Jose Martì, in breve, miracolo, siamo già fuori. In breve…rispetto al solito. Normalmente infatti per controllo passaporti, recupero bagagli e cambio soldi, abbiamo sempre impiegato non meno di un’ora e mezza, quindi quando questa volta ci troviamo seduti nel taxi dopo cinquanta minuti, possiamo certo dire “in breve, siamo già fuori”. Già fuori e già diretti verso la nostra solita casa, dal nostro solito, mitico Gustavo, dove oramai siamo ospiti fissi, abituali e dove ci sentiamo veramente come a casa e dove spero di arrivare in brevissimo tempo, perché questo viaggio mi ha distrutto come mai nessun altro prima. Sono a pezzi! Ho un sonno incredibile e mentre fuori dal finestrino, dal buio delle strada, scorgo i volti del Che e di Fidel di piazza della Revolution, quello di Camilo Cienfuegos su di un cartellone che ne commemora la morte e quello di altri eroi della rivoluzione che “urlano” dai loro manifesti che “revolution o muerte”, che “venceremos” e che “la revolution sigue”, i miei occhi faticano a stare aperti e non vedo l’ora di tuffarmi nel letto. Letto che puntualmente mi accoglie di li a poco e che velocemente conquisto, dopo aver salutato il padrone di casa e aver conversato un po’ con lui sulla situazione dell’isola, su Trump e su vari argomenti in generale. Quando sono circa le 23 io sono già partito e fino alle 7:30 del mattino non ho un sussulto! Solo i rumori della strada e la luce del sole mi strappano dalle braccia di morfeo e mi rimettono in piedi, pronto per la corsa del risveglio. Una corsetta, un tour per la città, è ciò che abbiamo deciso di fare: partenza dal campitolio, risalita attraverso avenida salvador allende fino a plaça de la revolution, discesa attraverso l’avenida de los presidentes verso il mare e rientro a l’havana vieja correndo sul malecon. 11 km in tranquillità, parlando e guardandoci intorno, in questa città unica, che però sembra aver preso la strada della conformità dopo tante battaglie portate avanti e tanti sogni rivoluzionari cullati. Cacchio, quella bandiera a stelle e strisce sul lungomare è proprio esplicativa…

venerdì 11 novembre 2016

giovedì 3 novembre 2016

In campo a Tel Aviv

A TEL AVIV
Bambini israeliani e bambini profughi, eritrei, filippini, sudanesi: questo il menù dell’allenamento di oggi. Obiettivo: farli giocare insieme e “magari” riuscire a migliorare lo schema motorio della corsa, insegnando loro, a seguire, come condurre palla. Insomma, un sacco di carne al fuoco anche oggi. E tutto in un campetto a cinque, all’interno di una scuola nella periferia sud di tel aviv e in poco più di un’ora, perché prima i bimbi hanno lezione e dopo viene buio e devono rientrare, soprattutto il gruppo “profughi”. Direi bene, quindi. La seduta si realizza abbastanza bene, nonostante i problemi legati ai comportamenti dei bimbi del gruppo profughi: vista la loro storia, viste le loro condizioni di vita, visto tutto quello che hanno alle spalle, il fatto che non riescano a stare attenti per più di tre secondi, che cadano spesso nel conflitto, che reagiscano male ai richiami, lo considero piuttosto normale. Per cui, alternando bastone e carota, richiamando fermamente i bulletti e sostenendoli, gratificandoli quando riescono positivamente nella seduta, le esercitazioni scivolano via positivamente, soprattutto quella situazionale, che diverte e coinvolge sempre un po’ più di tutto il resto. Visto come si stanno allenando e come si stanno divertendo io e il prof aumentiamo le varianti, più motorie che cognitive e, cacchio, arriviamo al momento della partitella che ci è rimasto poco tempo a disposizione. Rubiamo così una decina di minuti ai genitori ebrei in attesa fuori dal campo e alle educatrice degli altri bimbi, per portare a compimento il tutto e riunirli nel finale per una piccola chiacchierata riassuntiva di quanto si è fatto e, presumibilmente, imparato, e al saluto finale con l’urlo Inter Campus, sono soddisfatto di quanto fatto. Anche dell’attenzione di Ema e Yasha, i nostri due mister locali, per la seduta: in fin dei conti sono loro il mio vero obiettivo. Io voglio riuscire ad aiutarli a migliorare il loro modo di essere allenatori e di fare allenamento, nei pochi giorni in cui sono con loro, affinché poi il loro quotidiano lavoro sul campo porti reali e costanti benefici ai bimbi; di certo non è la mia seduta sporadica a raggiungere il grande obiettivo dell’integrazione, proprio di Inter Campus Israele/Palestina. Per cui…bravi ragazzi. Avanti così.
Chiusa la seduta, tocca a noi: ci trasferiamo sul tetto della scuola e scatta un mitico tre contro tre a sfinimento. Io, il prof, Francesco, un ragazzo dell’ambasciata italiana, Giulio e Vincenzo, due ragazzi che stanno realizzando un documentario su inter campus, e Ema, il nostro mister locale, con Yasha pronto a dare il cambio a chiunque ne abbia bisogno. Un’ora, forse anche qualcosa meno, ma…giocare è la cosa più bella!!! E mi serve da matti per conoscere e capire un po’ i “miei” allenatori nel mondo, perchè, come diceva Platone, si può capire più di una persona in un’ora di gioco, che in un anno di conversazioni. E allora…taca la bala!

lunedì 31 ottobre 2016

West Bank

IN WEST BANK
Sembra strano guardare fuori dal finestrino e scorgere un paesaggio così diverso da quello lasciato appena mezz’ora fa, eppure questo è ciò che succede tutte le volte che ci allontaniamo da Tel Aviv per andare in Palestina: se di là è tutto pianeggiante, verde, pulito, ordinato, con grandi e bellissimi palazzi ad incorniciare il tutto, di qua è tutto sabbia e sassi, campi di ulivi a perdita d’occhio e case più simili a capanne di pietra, basse e mezze diroccate, il tutto in un paesaggio collinoso e pieno ovunque di pattume di ogni genere. Due mondi diversi a mezz’ora di auto. E tali infinite diversità si ritrovano anche in campo: di là bimbi, forse perché più piccoli di età, timidi e per lo più ordinati, anche se scarsotti motoriamente, a parte qualche eccezione, di qui bambini esagitati, casinisti, difficili da gestire, con i quali risulta sempre difficile contenere il loro entusiasmo e la loro esuberanza. E tutte le volte rimango colpito da queste differenze: un allenamento in Palestina vale tre allenamenti a Tel Aviv, per quanto riguarda il dispendio di energie e l’attenzione che si deve tenere, per riuscire a realizzare una buona seduta per contenuti e intensità. Non puoi perdere di vista nessuno, non puoi distrarti e pensare per un solo attimo ad altro, non puoi far gruppi più numerosi di quattro giocatori, non puoi prevedere pause tra una fase della seduta e l’altra. Non puoi. Altrimenti si distraggono, prendono i palloni, i pochi che abbiamo, e li calciano a cazzo in giro per il campo, si spingono, iniziano a litigare (cosa frequentissima), si siedono. Fanno tutto ciò che non deve realizzarsi durante il corso di un allenamento. Ecco perchè ti sfiniscono. Ma allo stesso tempo ti riempiono, perché a fine seduta ti rendi conto di quanto sia necessario per loro giocare a calcio seguendo il nostro metodo, con dei principi, con una educazione di fondo, filtrata dalle varie proposte, e quindi ti rendi conto di quanto loro si siano divertiti e di quanto possano crescere. O siano già cresciuti. Perché da sei mesi a questa parte devo ammettere, e sono contento di farlo, che anche qui le cose sono migliorate e i bambini sono meno…esuberanti. Nella classica confusione araba, nel classico casino tipico di questi villaggi, tante volte incontrati nel corso della nostra esperienza intercampiste, a Deir Istia le cose stanno migliorando a vista d’occhio e i bambini stanno crescendo non tanto come giocatori, non solo per quanto riguarda le loro abilità balistiche, ma anche, se non soprattutto, come bambini. E questo è ciò che ricerchiamo più di tutto.
Per cui, finita la seduta, stravolto e anche con un po’ di voce bassa, risalgo comunque contento in macchina, con in testa un paio di idee per migliorare ancora le cose al di qua del muro, per aiutare Gheisan, il nostro mister, a crescere ancora e portare ulteriori migliorie al progetto, pur rimanendo convinto del fatto che il vero passo in avanti su questo campo del mondo, lo potremo fare solo quando quel muro sarà abbattuto e potremo controllare, monitorare, con più facilità e frequenza l’andamento dei lavori. Perché così siamo un po’ troppo latenti e non sfruttiamo appieno il nostro immenso potenziale. Ma vedo piuttosto impossibile che tale cosa si realizzi. Per cui il permanent coach continua a frullarmi in testa...

domenica 30 ottobre 2016

we all speak the same language

OGGI, TEL AVIV, GOALTIME…


“We all speak the same language” è uno dei motti di Ghetton, nostro partner su questi campi del mondo e mai come oggi ho visto concretamente, sul terreno di gioco, questa frase prendere forma. 105 bambini riuniti sotto una stessa bandiera, una stessa maglia, la nostra, quella splendida e neroazzurra, provenienti dalle 4 cellule di Inter campus Israele/Palestina; 105 bambini, chi ebreo di tel aviv, chi palestinese del “nostro” villaggio in West Bank, chi profugo etiope, congolese o eritreo, chi ancora gerusalemita, ebreo e mussulmano che fosse, tutti insieme, divisi solo dall’età su quattro campi diversi, dove si sono sfidati in due ore filate di partite. 105 bambini con le loro incomprensibili lingue, ebreo e arabo, cui si aggiungevano francesi e inglesi, più qualche italiano, a seconda delle origini di ciascuno, tutte accantonate per lasciar spazio alla palla, la vera lingua universale, il vero e reale esperanto del nostro mondo. Bello, veramente bello ciò che siamo riusciti a combinare oggi. Non senza momenti di tensione e problemi vari, chiaramente, come ad esempio quando il responsabile dei bambini di Deir Istia ha minacciato di portare via i bambini, perché in un paio di squadre c’erano bimbetto con la kippah in testa; o ancora quando una mamma ha protestato perché era troppo tardi e lei avrebbe dovuto portare via il figlio a causa dell’incombenza dello Shabbat; ma tutto è rientrato, tutto si è risolto, ancora una volta grazie…alla palla, alle partite, al divertimento che solo quell’oggetto sferico può scatenare in bimbi e adulti. E quindi ha vinto la voglia di giocare, di stare insieme, anche se diversi, lontani e non troppo amici e anche se, magari, questo incontro avviene solo nelle occasioni in cui inter campus li “costringe”, ma nonostante tutto capaci oggi di abbracciarsi dopo un gol, dopo una bella vittoria, o anche solo alla fine di una partita, perché si sono divertiti. Certo, anche questa volta, non tutti, perché non siamo nel mondo delle favole e sarebbe sciocco, ipocrita, oltreché falso, dire che oggi tutti sono andati d’accordo e ha vinto l’integrazione, però a noi bastano anche quei pochi gesti, a noi basta vedere che qualcosa può cambiare calcando lo stesso campo, a noi basta anche solo instillare il dubbio nelle menti di questi bimbi, cui tutti hanno sempre detto che al di la del muro ci sono i nemici, coi quali non si deve avere nulla a che fare. Non sono scemo, non credo che facendo giocare bambini dell’una e dell’altra parte risolveremo i problemi decennali di questa terra martoriata, ma mi piace pensare che forse in futuro i “nostri” bambini, una volta adulti e con figli, avranno un approccio diverso nei confronti del “vicino”.

venerdì 28 ottobre 2016

Israele 2016

ISRAELE 2016
Cazzarola, sono qui da una settimana e questa è la prima volta che riesco a prendere in mano il mio mac e svuotare un po’ la mia mente su questa carta virtuale, per provare a rivivere e fissare le esperienze fin qui vissute in questa missione Inter Campus. Tel-Aviv, Gerusalemme, ritorno a Tel-Aviv, Deir Istia, sempre piuttosto di corsa e sempre con poco tempo libero per potermi dedicare a voi, o 25 fedeli lettori. E quei momenti che siamo riusciti a ritagliarci son stati finora quelli mattutini, dedicati alle corse, agli allenamenti, parte immancabile e insostituibile dei nostri viaggi; ma ora eccomi qui: ho circa 20 minuti prima di scendere e prendere un taxi, direzione Goaltime, dove daremo forma al torneo finale, con tutti, o quasi, i nostri bambini coinvolti: i rifugiati di Tel Aviv, bambini dall’eritrea, dal sud sudan, dall’etiopia; gli ebrei sempre provenienti dall’atea città Israeliana; la squadra mista palestinesi ed ebrei di Bet Safafa, Gerusalemme; i palestinesi dalla west bank, dal villaggio di deir istia. Tutti insieme sul campo, con la stessa maglia neroazzurra, per giocare due ore, impegnati nel classico torneo di fine missione.
Ma come procedere nel “svuotare” la mente, nello scrivere, narrare la settimana di lavoro in questa splendida terra? Parto dall’esperienza mistica vissuta nella millenaria Gerusalemme? La corsa sul monte degli Ulivi? Oppure dal viaggio “al di la del muro”, per allenare i nostri bimbi in west bank? E perchè non partire dai grandi progressi che si vedono, si toccano con mano in campo, nel processo di integrazione tra ebrei e palestinesi di Bet Safafa? Seguirò il consiglio di un amico, che quando deve organizzare le sue giornate avanza…a ritroso: parte dall’ultima cosa che deve fare e da li va all’indietro, fino ad arrivare all’oggi, al momento attuale. E allora via, andiamo a ritroso…

lunedì 17 ottobre 2016

Foto Venezuelane

col profe Mesa
bimbe e bimbi in neroazzurro





i grandi mezzi a disposizione.

Piccoli intercampisti crescono...cresceranno!

venerdì 14 ottobre 2016

Columbus day

Columbus day
Oggi è il 12 Ottobre, un giorno di festeggiamenti in Spagna e di commemorazioni in molti paesi delle Americhe, per ricordare quando nel 1492 Cristoforo Colombo arrivò nel Nuovo Mondo, chi con feste, chi con manifestazioni di protesta.
Se infatti in Spagna è festa nazionale e si chiama Día de la Hispanidad, in molti paesi centro e sudamericani è una data celebrata per rivendicare i diritti dei popoli indigeni, schiacciati, massacrati proprio a causa di quell’invasione e viene chiamato “Día de la Raza” (giorno della razza), “Día de las Culturas” (giorno delle culture) e “Día de la Resistencia Indígena” (giorno della resistenza indigena).
I messicani portano fiori ai piedi del monumento alla razza situato a Città del Messico e, tra canti e balli, mentre gli indigeni alzano le loro voci nella Piazza dello Zocalo;
in Costarica, è chiamato il Día de las Culturas e con un carnevale si festeggia l’unione della cultura spagnola, indigena e afro-caraibica; i colombiani festeggiano questo giorno nelle scuole, dove con delle opere teatrali rappresentano il significato che questo giorno ha avuto per la storia; in Argentina, nel 1917 il 12 ottobre è stato stabilito come giorno della riaffermazione dell’identità ispanoamericana di fronte agli Stati Uniti, ma le comunità aborigene hanno denunciato il massacro delle comunità indigene e il giorno della razza è diventato così il Día della Resistencia de los Pueblos Originarios (giorno della resistenza dei popoli originari); in Bolivia si chiama “giorno della decolonizzazione” e infine qui, in Venezuela, dal 2002 Hugo Chávez e Samuel Moncada (all’epoca ministro dell’istruzione superiore) hanno deciso di ricordare questa data come il Día de la Resistencia Indígena, perché non lo considerano come la data di una scoperta, ma come la commemorazione della resistenza aborigena contro l’invasione spagnola.
Insomma, lo si chiami come si vuole, lo si viva come meglio si crede, quel lontano 12 ottobre ha segnato in ogni caso la storia dell’umanità, per noi europei positivamente, per gli indigeni delle americhe un po’ meno, visto che da quel giorno prese il via il più feroce eccidio della storia dell’umanità. Nei decenni 1491-1550 infatti, per effetto delle malattie tra l’80% e il 95% della popolazione indigena delle Americhe perse la vita: un decimo dell’intera popolazione mondiale di allora (500 milioni circa). La prima malattia nel Nuovo Mondo, causata da un germe dell’influenza dei suini, nel 1493 a Santo Domingo, annientò la popolazione: da 1.100.000 a 10.000 abitanti.
Poi il vaiolo, che destabilizzò l’impero Inca favorendo la campagna di conquista di Francisco Pizarro e il massacro della popolazione. E dopo ancora il morbillo e le epidemie che giungevano dall’Africa insieme ai nuovi schiavi. E ancora, alla ricerca di oro, bruciavano villaggi sterminando le intere popolazioni e facendo prigionieri e schiavi. Infine, dove non uccisero le malattie, lo fecero le armi, la schiavitù, la deportazione, i lavori forzati e la fame.
Oggi si contano più di 800 popolazioni indigene, per una popolazione di circa ai 45 milioni di persone dove i governi progressisti riconoscono i loro diritti. Riconoscono…diritti…insomma, anche qui, oltreché in Africa, mi sento fuori luogo.

giovedì 13 ottobre 2016

San Isidro

Vivere a San Isidro


Il programma di oggi prevede allenamento con il gruppo sub 12 e sub 14 (under 12 e 14), ma già al nostro arrivo al campo ci rendiamo conto che i numeri, che i bambini presenti sono un po’ meno rispetto a quelli attesi. Soprattutto il gruppo dei più grandi, che normalmente si presenta, come tutti gli altri, molto prima, nonostante fino all’ora prevista per la loro seduta non possano entrare in campo, non sembra palesarsi. Sinceramente non ci faccio molto caso, ma mi dedico completamente alla squadra dei sub 12, osservando insieme al prof l’operato di Mario, il nostro allenatore, cercando insieme al mio fido compagno la maniera migliore per correggere domani, durante la teoria, le cose un po’ carenti proposte dal nostro mister oggi. Discutiamo, ci confrontiamo, parliamo della seduta, fin quando arriva il momento dei grandi, ma…sono in 9. Cazzarola, 9. Come mai, chiediamo a Mesa? La risposta e tanto semplice da queste parti, quanto terribile per le nostre: ieri, in un assalto, è stato ammazzato un ragazzo di 29 anni, piuttosto conosciuto nel barrio e oggi è scattata la rappresaglia degli amici, per cui nel pomeriggio, poco prima che arrivassimo, nella favela oltre la collina rispetto a quella dove siamo noi “hanno iniziato a sparare e finora sono morte 13 persone”! Di conseguenza molte mamme si sono chiuse in casa con i figli e non li hanno fatti venire al campo. Per ragioni di sicurezza, meglio non uscire, ci dicono, e a volte quando l’aria si fa pesante, anche l’allenamento che ha già preso il via, viene interrotto e i bimbi vengono mandati a casa. Far West. Più o meno è così che me lo immaginavo il far west, anche se con un po’ meno sporcizia, puzza e inquinamento vario; un posto all’apparenza tranquillo, ma che di punto in bianco diventa una polveriera, pericolosa e assolutamente inospitale, dalla quale tanti cercano di fuggire. Tanti, fra cui molti nostri bimbi, o meglio, molte famiglie inserite nel nostro progetto, che andando a vivere per lo più in Colombia e portando con se, chiaramente, i propri figli, hanno lasciato le nostre squadre un po’ monche. Ma questo non è certo un problema: manca cibo, acqua, sicurezza e pulizia, ma bambini non mancano mai su questi campi del mondo. In una realtà come questa dove le ragazze diventano madri a 15 anni e dove se non fanno sesso entro quell’età vengono derise e mal considerate dal gruppo di coetanei, se non addirittura escluse, certo nuove leve da inserire e provare a crescere, educare, grazie a quella magica sfera certo non mancano. 

martedì 11 ottobre 2016

Ritorno a Caracas

Caracas

Sono già da due giorni in questa scalcinata capitale del mondo, ma ancora non sono riuscito a riordinare i miei pensieri e buttar giù due righe che mi aiutino a fissare su carta le esperienze di questa missione. Non sono riuscito principalmente perché il poco tempo libero avuto in questi giorni fino ad oggi l’ho voluto dedicare ad allenamenti, corsa e palestra, e il restante…al sonno!!! E che sonno. Tra ieri e oggi sono stato in grado di addormentarmi tra le 21 e le 22 e risvegliarmi alle 7:30, giusto perché avevo puntato la sveglia e volevo uscire a correre. Approfittando del fatto che qui non si può uscire al calar del sole per ragioni di sicurezza e ci si ritrova quindi costretti, bloccati in hotel, non appena si rientra dal campo, ecco che ho deciso di recuperare un po’ il mio rapporto con Morfeo, ultimamente piuttosto teso per via delle scorribande notturne di Anna. E posso affermare tranquillamente che ora siamo tornati grandi amici! La prossima missione manderò Silvia come secondo allenatore, in modo da far recuperare anche lei. 


Dicevamo, non si può uscire per ragioni di sicurezza, tant’è che anche noi dobbiamo lasciare la favela entro le cinque, per evitare assalti o incontri ravvicinati del peggior tipo. La situazione sociale ed economica è in picchiata vertiginosa, la gente non ha più niente, non può permettersi di comprare niente e anche i supermercati hanno ben poco da offrire: mancano farina, riso, legumi, carne; sono pieni di junk food, patatine, dolci, coca cola, sprite, merdate di ogni genere, ma certo non cibo. Addirittura manca l’acqua! Vendono succhi di frutta zuccherati di ogni genere, bevande gassate della peggior specie, ma non hanno acqua. Ieri l’abbiamo cercata in ogni dove, senza però esito. “Non abbiamo acqua. Quella poca che ci consegnano, sparisce il giorno stesso”, ci dice una ragazza del supermercato. Frutta, quella se ne trova. Non so dire la qualità, anche se quella che ho mangiato in hotel non era proprio di prima scelta, ma se non altro c’è. E all’orizzonte le cose non sembra possano migliorare. Anzi, considerando che dal nostro ultimo giro su questi campi del mondo, sei mesi fa, le cose sono addirittura peggiorate, la luce in fondo al tunnel ancora non appare. Notavamo io e il prof ieri in campo: non ci sono bambini sovrappeso, un po’ cicciottelli; anche quelli che lo scorso anno erano leggermente gordi, questa volta sono in linea, anzi, quasi sottopeso, e certo non perché si siano messi a dieta. Insomma, la situazione va peggiorando e l’unica cosa positiva rimane il campo, l’allenamento, che sta diventando sempre più importante per la vita non solo dei bambini, ma di tutta la comunità di san isidro, vero punto di ritrovo, punto fisso, per tutti quanti. E allora, via, torniamo in favela adesso: il campo ci attende.

giovedì 29 settembre 2016

Altre foto Iraniane



Non siamo nemmeno tanti...



Magari fosse vero!!! Maglia numero 6.



Grazie, Graziella e...


Non sono presidente, ma rimango operaio.



La consegna della maglia è sempre un momento unico per i bambini del mondo. Per lui forse ancor più unico: sordomuto, famiglia...in difficoltà, ricevere la maglia neroazzurra e potersi allenare sono due cose ora fondamentali. 

martedì 27 settembre 2016

Foto dalla Persia



Abbigliamento iraniano...





Chi sa solo di calcio, non sa nulla di calcio, dice il saggio. E allora via, cultura iraniana

mercoledì 21 settembre 2016

In campo a Tehran

L'accoglienza, l'ospitalità, la gentilezza, la disponibilità di tutte le persone con cui abbiamo a che fare è quasi imbarazzante e giorno dopo giorno, crescendo il rapporto tra noi, aumenta in maniera esponenziale, facendo rimbalzare nella mia testa il solito quesito che sorge in me, quando mi rapporto a gente così gentile: io farei lo stesso? Se loro fossero da me, in Italia, sarei in grado, come loro, di mettermi così completamente a loro disposizione, al loro servizio? Qui in Iran è particolare la loro gentilezza, ma pensando a Chicco in Tunisia, a Francis in Camerun, ai ragazzi di Nagallama e a mille altri posti dipinti di neroazzurro, mi rendo conto che...è contagiosa questa gentilezza, è quasi un marchio di fabbrica Inter campus! Come marchio di fabbrica di Inter Campus è il casino iniziale, la confusione totale e la difficoltà con cui dobbiamo fare i conti aprendo un progetto, per cercare di portare sulla nostra via, sulla nostra strada, allenatori e bimbi. Lo dico sempre e lo penso sinceramente: non credo che il nostro metodo sia la panacea di tutti i mali, non credo che il nostro metodo sia il migliore di tutti e non credo nemmeno, veramente, che quelli incontrati, conosciuti nel corso di questi anni di esperienze siano "sbagiati"; però mi rendo conto che ciò che noi proponiamo in giro, sui campi del mondo, stia dando frutti, stia portando vantaggi a tutti i bambini, però...che difficoltà condividerlo! E non è una questione di lingua. I traduttori (perché il farsi ancora mi manca) sono stati bravissimi questa volta, ma, soprattutto quando si parte da una base come quella di Tehran, gli ostacoli da superare ci appaiono insormontabili. Gruppi da 75 bambini (si, si, 75), seguiti da un mister, capace di proporre diverse esercitazioni, con diversi obiettivi, mantenendo buone intensità e buon coinvolgimento, ma, ovviamente, senza mai riuscire a correggere, a seguire, a creare rapporto con i propri bimbi. E questo è ciò che invece vogliamo noi, è la base del nostro metodo. Quindi...si cambia. O almeno si prova. Si mostrano allenamenti strutturati con gruppi di numero inferiore, esercitazioni legate sempre allo stesso obiettivo, atteggiamento positivo del mister, vicino ai ragazzi e propositivo; quindi si parla con loro, gli allenatori, si discute con loro del nostro modo di lavorare, di come applicarlo, di ciò che può portare di positivo nello sviluppo del bambino, ci si ferma ad osservare direttamente sul campo, nel corso della seduta, ciò che si sta dicendo...ma poi, quando tocca a loro fare allenamento, rieccoci con i mega gruppi. Allora si prende da parte un mister, gli si fa notare ciò che non va, secondo la nostra idea, della seduta, proprio mentre questa si sta svolgendo; si ferma il tutto, si riorganizza il gruppo e si propone una "nostra" esercitazione, stimolando il mister ad osservare, a notare le differenza tra "il prima e il dopo", si parla con loro, si affrontano temi legati all'educazione, alla crescita e...si spera che almeno qualcosa sia rimasto nella loro testa. Almeno i volti sorridenti, la postura aperta, il coinvolgimento totale di tutti. In modo che inizino in questi sei mesi a cambiare, a riorganizzare le cose e passo dopo passo, provare a fargli fare il cambio, aiutandoli da casa (per quanto possibile, viste le difficoltà che hanno con l'accesso a internet) mandandogli esercitazioni, allenamenti, proposte, consigli. Come facciamo in tutto il mondo. E tra sei mesi ci si rivede. Sperando di non vedere più gruppi da 75 bambini...

lunedì 19 settembre 2016

Un Paese in cambiamento

Se ieri mi lamentavo per l'obbligo di indossare pantaloni lunghi in pubblico e per il conseguente fastidio provato quando mi ritrovo costretto a correre con delle braghe lunghe e attillate, che cascano costantemente e mi fanno sudare il doppio dei miei già copiosi standard, non ho fatto cenno ad un'altra cosa per me stranissima, che vivo sempre da queste parti: il fatto che non ho ancora visto uno spogliatoio come lo intendo io, con giocatori, o allenatori, che si cambiano insieme, che si mostrano senza timori senza maglia o nudi, pronti per fare la doccia; insomma, che vivono serenamente il proprio corpo e che condividono con cameratismo tipico degli sportivi quelle quattro, solitamente sudice, mura. Si cambiano di nascosto, velocemente, senza farsi notare; non ho mai visto un mister senza maglia, non li ho mai visti docciarsi post seduta, non li ho mai visti in mutande, seduti sulla panchina, parlare dell'allenamento...per me, per come tutti gli sportivi del mondo, cambiarsi al campo, prima di iniziare la seduta di allenamento, è un rito, un momento condiviso con altri mister, quasi necessario, composto da una serie di gesti che mi, ci, permettono di entrare con la testa nella seduta: mi allaccio l'orologio (che fuori dal campo nemmeno indosso), metto le scarpe da calcio, mi cambio per lo meno la maglia, tiro su i calzettoni, conto i cinesini...un rito, ormai classico, visti i tanti anni fin qui trascorsi in campo, che prende forma sempre, insieme al mio compagno di viaggio, con i compagni di squadra,  qualunque sia lo spogliatoio (una baracca, un albero di mango che crea ombra, l'aula di una scuola, il retro della macchina: ogni luogo è valido, ma non entro mai in campo senza), che su questi campi del mondo non ho ancora vissuto. O meglio, l'ho vissuto, ma sotto lo sguardo quasi spaventato degli altri, che mi fissano sempre come se stessi compiendo chissà quale oscenità. Poi non mi dicono mai nulla, ma colgo il loro imbarazzo, il loro disagio. Mi spiace per voi  allenatori, (مربی, come scrivete voi), ma io passo più tempo nudo che vestito in spogliatoio o in camera, chiedete ai vari Gabri, Juri, Lore, Robi... ci provo, ma mi viene difficile nascondermi. 

A lato di queste situazioni per noi stranissime, devo però sottolineare come comunque il paese stia cambiando, si stia aprendo, soprattutto per quel che riguarda la condizione delle donne. In questi giorni con Max, che ha molta più esperienza di viaggi di me in questo lato di mondo, notavo alcune cose per noi normalissime, ma che contestualizzate a questa realtà, rappresentano vere e proprie rivoluzioni, conquiste, vittorie. 

Oggi, ad esempio, dopo allenamento stavamo rientrando a casa in macchina, come sempre bloccati nel costante traffico di Tehran (c'è sempre traffico, incredibile! Anche all'una di notte. Sul serio: sempre!) e in strada con noi abbiamo notato auto guidate da donne, ma soprattutto ragazze in motorino, passeggere su moto da strada, col velo, chiaramente, ma con il golfino svolazzante per via del vento, i capelli in mostra, seppur parzialmente coperti, caviglie nude per la postura cui erano costrette. Insomma, una rivoluzione! Una conquista incredibile. Impensabile anche solo quattro anni fa. E parlando con le persone, sono tanti i cambiamenti in corso e in procinto di realizzarsi, che permetteranno alle donne di ottenere qualche libertà in più, per noi date per scontate, ci mancherebbe, ma veri successi vivendo in alcuni Paesi. 

domenica 18 settembre 2016

A gambe coperte

TEHRAN 2 secondo giorno


Terminato l’afterhours in campo, con doppia sessione, dalle 9 alle 13, senza sosta (bella vita che fai…mi riecheggia sempre nell’orecchio), con una parte dei nostri 150 bambini locali (figli di profughi afghani, legati all’associazione Popli Khalatbari) e conclusa la riunione con gli allenatori, decidiamo di muoverci tutti insieme “nel miglior ristorante di kebab di tehran”, millantano, ma…abbiamo i calzoncini corti! "Non avete la tuta lunga", ci domandano un po’ preoccupati. Cacchio, no, dovevo fare allenamento: qui posso usare i pantaloncini! Chi ci pensava al fatto che saremmo potuti uscire per strada dove certo non possiamo mostrare le nostre nude e impudiche gambe. Quindi? Be’, alzate i calzettoni, ci suggeriscono…non male. Due provetti Nureyev in giro per la città, con gli occhi della gente addosso, incuriositi e alcuni infastiditi nell’osservare due arroganti occidentali che osano abbigliarsi a loro piacimento a casa di altri. Assurdo. E ancora più assurdo quando oggi siamo andati in un caffè per un pranzo veloce e leggero e, poiché noi due ritardati ancora non ci eravamo preparati, portandoci i calzoni lunghi, non volevano farci sedere! Sempre per il solito motivo: le gambe nude. Abbiamo allora rimediato come ormai  consuetudine con i calzettoni alti alla TT Henry, ottenendo di entrare, ma…fatti accomodare in un angolo del locale, di modo da non essere troppo visibili, perché la “polizia morale” potrebbe fare storie. Per fortuna Leila, la nostra referente locale, è una iraniana “moderna” e ci porta nel tavolo centrale senza troppe storie, chiedendoci solo di tenere alti i calzettoni, ma la gente intorno non sembra tanto d’accordo: sono tanti quelli che ci fissano in malo modo, tra lo spaventato e l’infastidito. Uomini, donne, anche ragazzi. Davvero incredibile. E dire che mi sembrava così cambiato il Paese l’ultima volta, più aperto, più tollerante. Invece in questi giorni sono stato smentito. Certo, gli sguardi potevano anche essere di compatimento, perché con quei calzettoni tirati sopra il ginocchio sembravamo proprio due babbazzi, però i loro occhi mi sembravano più accusatori che altro. Peccato. Per loro e per noi. Per loro perché certo non deve essere facile vivere in un simile contesto, per quanto sicuramente abituati, ma per noi perché…cacchio, col caldo che fa i calzoni lunghi sono una pena!!! Anche per correre, per allenarmi con Robi, sono stato costretto a infilarmeli, sacrificando i miei tanto amati pantaloncini da corsa, sudando così il doppio del normale, che già non è poco, ma soprattutto lottando tutto il tempo con il cavallo dei pantaloni, visto che sono super attillati e le mie gambone non si trovano tanto bene al loro interno!!! Che fastidio!!!Be’, domani nello zaino metto anche i pantaloni lunghi, promesso. Basta danzare per strada.

sabato 17 settembre 2016

Ritorno in Persia

TEHRAN
Si balla, eccome se si balla. Sull’aereo del big jim sul quale ci siamo imbarcati a Istanbul per dirigerci nella capitale della repubblica islamica, le turbolenze si sentono con forza. E si balla più che ad un concerto punk. Con la stessa violenza, però.Per fortuna il viaggio è breve, tant’è che dopo nemmeno tre ore siamo pronti all’atterraggio…ballerino! Che fifa. Nonostante le luci dell’immensa città che si estende sotto di noi rendano affascinante il nostro avvicinamento a terra, i continui “balzelli”, gli scossoni, ma soprattutto la vista delle ali fuori dal finestrino che si muovono senza piegarsi, fortunatamente, su e giù, sotto la forza del vento, delle correnti che stiamo attraversando, scendendo attraverso i nuvoloni neri che circondano Tehran, non nascondo mi abbiano non poco spaventato e il sudore che scorre a rigoli sulla mia schiena ne è testimone. “Tutto bene, viaggio tranquillo”, sono chiaramente le prime parole pronunciate toccato, gioendo internamente, il suolo iraniano, ma in realtà queste ultime tre ore, pur trascorse rapidamente, non son state propriamente piacevoli. Ma va bene così. Ora ci siamo. Sani, salvi e pronti tutti e tre, io Robi e Max, alla missione. Già perché dopo i cinque anni di stop, il check di maggio, eccoci ora qui a dare il via alle danze: domani (vaffanculo, alle 7:30 ci vengono a prendere! Siamo atterrati a mezzanotte, ora che siamo arrivati in hotel, da dove ora sto scrivendo, sono arrivate le due, ore 6:40 sveglia…anche senza Anna, si dorme pochissimo anche questa notte!) saremo in campo coi nostri bambini, 150, i nostri mister, 3, per dar forma noi alle sedute di allenamento, iniziando così a mostrare il nostro metodo di lavoro, così distante, così diametralmente diverso, dal loro. Già, perché qui i bimbi, per lo più profughi afgani, seguiti dalla fondazione Leila, che da' loro la possibilità di andare a scuola e di praticare sport, sono abituati a scendere in campo in 75 alla volta, seguiti da un solo mister…be’, si, direi che siamo un po’ distanti come metodo di lavoro. Da domani si inizia a cambiare.

mercoledì 31 agosto 2016

Una corsa nel buio

IN CORSA NEL BUIO

Esco da casa di Chicco che è già buio. 

Lore è un po’ titubante, vorrebbe evitare, ma io sono decisissimo e non può far altro che accondiscendere. “Ok, Albe, io però faccio il mio, al mio passo e torno”. Ho troppa voglia di correre e nonostante la lunga giornata di oggi, nulla mi vieterà di dar fondo alle mie energie. In fin dei conti è dalle 7 di questa mattina che si trotta: ore 8 allenamento (fa caldissimo ed è necessario cercare di mettere in campo i bambini nei rari attimi in cui la nostra stella luminosa è un po’ meno furente, per cui presto la mattina e tardi nel pomeriggio) gestito da loro, con noi in osservazione, ore 10 in aula, per due ore di teoria sul metodo di allenamento condiviso e su ciò che è emerso in campo; pomeriggio, quindi, alle 17 di nuovo in campo, questa volta io e Lore a dirigere i lavori, con due gruppi diversi rispetto a quelli del mattino di bambini dai 10 ai 12 anni, al termine due paroline con gli allenatori, due giochini con i bimbi, due sorrisi, due saluti…il buio arriva veloce ed ecco servita la corsa al buio. Buio quasi totale, perché ad Hergla l’illuminazione delle strade non è contemplata, se non con qualche timido e sporadico lampione, buttato qua e la, senza apparente logica (ma non solo apparente: senza alcuna logica!). Ma chi se ne frega. E allora via. Si parte. Iniziamo insieme, riscaldamento tranquillo, ma…non tanto! Dopo poco meno di due chilometri, dal lato mare della strada che stiamo percorrendo (una lunga strada in sabbia, che costeggia il mare), sbucano fuori due cani piuttosto incacchiati, che abbaiano furiosamente al nostro indirizzo! “Cazzo, Lore, quello grosso ci insegue” e il ritmo aumenta vertiginosamente e  miracolosamente, per Lorenzo…"speriamo non saltino fuori anche dei cinghiali”, mi dice il mio impavido compagno di viaggio, con del fiato tirato fuori chissà da dove. Già, perché sembra che in questa zona, da questa specie di pineta a bordo mare, scorrazzino liberi e selvatici anche gli animaletti tanto amati da Obelix. 

Per evitare ulteriori incontri e salvaguardare le nostre chiappe da eventuali morsi, iniziamo allora a girovagare per strade, stradine, viuzze sterrate o ancora in costruzione, invisibili per il buio, ma ben accessibili a noi, grazie alla spinta della fifa, in salita e in discesa; corriamo come matti e le ripetute in programma nonostante tutto scivolano via con tempi migliori di quelli preventivati e piuttosto semplicemente; certamente per via dell’adrenalina che viene pompata insistentemente nelle mie vene, ma anche un po' perchè come sempre, d'estate, riesco ad allenarmi molto bene e raggiungo picchi di forma solo immaginabili durante la stagione. 

Per fortuna, non senza difficoltà, ritroviamo al termine della quarta ripetuta la strada maestra e porto a compimento l’allenamento in solitudine: Lore rientra a casa subito, correndo lungo il porto e “sfrecciando” tra le viuzze del villaggio di Hergla, faticando per mantenere gli stessi ritmi di prima, quando cani e pensieri di cinghiali fungevano da grande stimolo! Bravo, però, Lore. Sei andato alla grande. E visto il ritmo che son riuscito a tenere, mi sa che per la gara dovrò procurarmi un cagnaccio da mettermi alle calcagna.

martedì 30 agosto 2016

Hergla

HERGLA
E dodici! Ebbene si, siamo giunti a dodici con questa appena iniziata e già al terzo viaggio. Dodici cosa? Stagioni. Dodici stagioni sportive con addosso questa maglia, dodici stagioni a girare il mondo per proporre allenamenti e corsi di formazione a bambini e allenatori di ogni razza (ma si può parlare ancora di razze?), religione, genere e stato sociale, dodici stagioni su campi in terra, in sabbia, in erba, con buche o superbamente curati, su spazi rubati all’interno di favelas, o in stadi bellissimi, anche se tristemente vuoti e silenziosi; dodici stagioni cercando di far conoscere ai nostri vari amici il nostro metodo di lavoro e l’importanza centrale dello stesso nel percorso educativo, nello sviluppo completo, “ideale” della personalità del bambino, attraverso lo sport da noi più amato e per noi più “educativo” di tutti. Il calcio. Che invece ai più appare tutto, fuorché educativo, fuorché strumento per insegnare ad un bambino a stare con gli altri, a conoscere se stesso, a pensare e a vivere insieme agli altri con regole e ruoli da rispettare. Già, perché se parlo di calcio a tutti vengono in mente i grandi campioni, le macchine di lusso, le donne da sogno e i conti in banca senza limite agli zero e a pochi, se non a nessuno, salta alla mente un qualche pensiero legato all’educazione, alla crescita, allo sviluppo di bambini e bambine. Eppure…eppure è così e da dodici anni, viaggio dopo viaggio, mi rendo conto di quanto forte, quanto potente, sia effettivamente questo strumento, questo mezzo, ma anche, se non soprattutto, quanto potenziale di esso viene quotidianamente sprecato sui…campi del mondo. Anche i nostri, quelli italiani, se non sopratutto sui nostri, troppo ingombri di allenatori improvvisati capaci di urlare sguaiatamente dietro a bimbi piccolissimi per un errore tecnico, capaci di lamentarsi con tutti gli arbitri che incontrano, capaci di insultare (si, si, insultare. Visti e sentiti in prima persona) i loro piccoli giocatori, rei, a loro modo di vedere, di aver fatto loro perdere la partita e quindi il gusto di poter andare al bar del paese a raccontare del loro primato in classifica. Retorica, pura retorica, questa, alle orecchie dei più: tutti ormai si riempiono la bocche di parole come “educazione e calcio”, “il calcio come strumento di crescita”, “bisogna pensare solo allo sviluppo dei bambini”, ma quando poi li vedi all’opera tutto questo non rimane che un concetto astratto, espresso per ben figurare. La partita va solo vinta e non mi importa come. Che abbia la responsabilità di bambini di sei anni, o di quasi uomini di quattordici. Parole, soltanto parole. E nessuno fa nulla di più. Nessuno…quasi nessuno. C’è qualcuno che da vent’anni fa altro (inter campus), per mezzo di altri che da dodici girano il mondo.Meno male che ci sei, Inter Campus.

martedì 2 agosto 2016

pictures


NY vista dall'altra parte del fiume
Altre prospettive della città
At the UN
la sala dell'assemblea generale





lunedì 1 agosto 2016

Inter Campus all'ONU

Ci vuole del tempo per capire bene le cose, per far scemare le emozioni e comprendere meglio ciò che si è fatto e il valore, eventuale, delle azioni; è per questo che ci ho messo un po' a riprendere in mano il mio diario virtuale e scrivere, raccontare l'ultima, grande, esperienza inter campista. Ora, a distanza di un paio di giorni provo a riguardare indietro e a fissare su questi fogli ciò che è stato, magari per capire anche meglio io stesso le cose.
La sveglia suona un po' prima del solito, perché se io e Andre oggi vogliamo allenarci l'unico momento disponibile è questo, vista la fitta agenda degli impegni odierni. Fuori, pur essendo solo le 7, fa già caldissimo. Caldo e umido ci accompagnano per tutta la seduta, per tutte le ripetute, ma non ci abbattono anzi, forse per il pensiero fisso a ciò che succederà nel pomeriggio, le gambe girano alla grande e il menù scivola via senza intoppi. Sudato fradicio, ma soddisfatto per la fatica, rientro nel gelido hotel (gli americani sono dei ritardati: come cacchio si fa a tenere l'aria condizionata sparata a questo modo???), colazione nel solito stanzino (preferivo la sala dei giocatori, dove per errore ci siamo trovati a mangiare il primo giorno, guidati da Toldo) e via, pronti per il trasferimento. Direzione 760 United Nations Plaza, New York, NY 10017, USA, ossia Palazzo di vetro dell'Onu. Già, perché oggi saremo ospiti noi di inter campus coi nostri bambini, insieme alla squadra e a tutto lo staff, proprio li, in quel luogo ove tante decisioni fondamentali per il mondo vengono prese (o almeno, discusse...), dove nel bene o nel male tanta storia è passata. Pensa un po', io, qui presente per l’evento Inter at UN: The power of football to change the world, fostering the Sustainable development goals, dove come Inter Campus portiamo la nostra testimonianza di come sia stretta la relazione tra il mondo dello sport e i 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (SDGs) che le Nazioni Unite intendono completare entro il 2030.  Cazzarola...l'Onu. Da piccolino pensavo di fare del calcio la mia vita, ma mai avrei immaginato che attraverso quella palla rotolante sarei arrivato fin qui! Certo, non io, Alberto Giacomini, noi, Inter Campus siamo arrivati fin qui, però seduto su quelle poltrone a sentir parlare dal palco della conferenza, mediata da Joe Colombano, il Vice Rappresentante Permanente per l’Italia, l'ambasciatore Inigo Lambertini, il Presidente dell’Inter Erick Thohir, Javier Zanetti e il responsabile ONU dei programmi per la gioventù Ahmed Alhendawi, al momento ci sono io, quindi...chi l'avrebbe detto. Ma l'emozione più grande è arrivata dopo, quando ci siamo trasferiti nella sala dell'assemblea generale, noi, con tutti i bambini. Li, dove veramente si discute, li dove tanti personaggi storici si sono succeduti, ora tocca a noi, anche solo passare, anche solo vedere, ma...tocca a noi. Ora mi sa che farò un tour tra tutti i miei prof del liceo a raccontare cosa sto combinando...

mercoledì 27 luglio 2016

Belle sorprese

Quasi avessero letto il mio post di ieri e quasi per contraddirmi apertamente, i quattro giocatori che oggi si sono presentati al campo di Inwood per giocare con i nostri bambini, consegnar le maglie nuove e rendere così speciale il loro pomeriggio, sono stati gentilissimi, disponibili e carini con tutti, piccoli e adulti, e pronti a soddisfare le loro richieste varie. Ranocchia, Della Giovanna, Pinamonti e Ansaldi, quest'ultimo poi particolarmente, hanno voluto, si vede, riscattare la figura del calciatore viziato, perché non hanno lesinato sorrisi, abbracci e parole (Ansaldi direttamente in spagnolo: i nostri sono tutti messicani, ecuadoregni e giù di li, quindi l'inglese non lo parlano benissimo, per lo meno gli adulti) positive per tutte; anche quando io e Andre abbiamo messo in piedi una mini esercitazione, in cui i quattro, in realtà tre, perché cristian si è messo in porta, dovevano difendere, attaccati prima da uno, poi da due "nani" contemporaneamente, sono stati al gioco, hanno finto di subir tunnel, hanno simulato falli, insomma, hanno fatto la loro parte fino in fondo. Grandi. Certo, mezz'ora, non di più, ma...piutost che nigot.
Dopo l'allenamento, quindi, l'incontro coi giocatori, strette di mano e sorrisi vari, come dice il Galbio, via di corsa verso la prima strada, verso il palazzo di vetro, verso il quartier generale dell'Onu e...be', un po' mi sono emozionato. Tra le tante cose che sono fin qui riuscito a fare insieme a Inter Campus, questa è una di quelle che proprio non mi sarei mai immaginato. Invece. Eccomi qui. Per preparare l'evento che avrà luogo proprio in questo storico palazzo tra due giorni: Inter Campus, come partner di alcuni uffici delle Nazioni Unite (Unosdp e Undp) Giovedì porterà la prima squadra a partecipare ad una conferenza che riguarda l'agenda 2030 per gli obiettivi sostenibili, per portare testimonianza, attraverso il proprio lavoro di questi vent'anni e i propri colori, di come il calcio possa essere parte attiva di questo percorso; qui, tra questi corridoi dove si sono prese tante decisioni storiche e dove tutt'ora si condiziona, se non si determina, la storia, passeremo noi, insieme ai bambini di Inwood e alla squadra, mister compreso. Cacchio! Che figata! 

martedì 26 luglio 2016

New York, ancora tu: ma non dovevamo non vederci più?

Rieccoci qui, in questa città da me per nulla gradita. Niente contro la grane mela in se', contro i suoi palazzi, il suo cemento, i suoi prezzi folli e la sua moltitudine di gente, per carità, ma non è certo questo il posto per me ideale, o diciamo idoneo, alla realizzazione di quel progetto che tanto amo. Ma ok, si deve fare e lo si fa; in find ei conti ovunque, a ben vedere, c'è un bimbo in difficoltà, che ha bisogno del nostro intervento, della nostra palla. E allora, dicevamo, rieccoci qui, a nemmeno tre mesi di distanza, a inseguire la prima squadra, in tournè da queste parti, affinchè ci degni di attenzione, per regalare un paio di giorni un po' speciali ai nostri bimbi in compagnia dei nostri "campioni". E pensa come cambiano  i tempi: da piccolo, ma nemmeno tanto piccolo, trovarmi in albergo con i giocatori dell'Inter, far colazione con Thoir, salire in ascensore con Miranda, incontrare Biabiany nella hall, sarebbero stati sogni quotidiani, desideri irrealizzabili per un super tifoso, per di più simil calciatore, come il sottoscritto, oggi invece è quasi un fastidio. Vedere questi ragazzini viziati, che vivono su un pianeta diverso dal mio, che godono di favori e grazie inimmaginabili, che bisogna corteggiare per mesi per averli mezz'ora al campo di Inwood a calciare due palloni con dei bambini che vivono e vivranno, spero di no, ma la vedo dura, una vita diametralmente opposta e decisamente più dura della loro e sapere anche che la gente stravede per questi pirla e farebbe di tutto per loro...be', mi infastidisce. Adoro il calcio, vedo e rivedo partite, studio e analizzo, vivo di calcio, ma i suoi interpreti proprio non li mando giù e quei sogni di bambino, oggi che si possono realizzare, si frantumano, a contatto con la triste e fastidiosa realtà dei fatti.
Voglio poi vederli giovedì, quando li porteremo alle nazioni unite, nostro partner (o meglio, noi siamo partner di alcuni suoi uffici, unosdp e undp), come reagiranno, come si comporteranno, se si renderanno conto di dove si troveranno, del valore simbolico di quel palazzo di vetro e del potere che risiede in quelle stanze; delle scelte che possono prendere quei funzionari che incontreremo e del peso di queste stesse scelte per gli sviluppi nella storia passata e futura; insomma, voglio vedere cosa succederà. Magari mi faranno ricredere di tutto e mi rimangerò ogni...pensiero. Intanto andiamo in campo, ad Inwood, coi nostri bimbi sovrappeso. Vamos adelante (perchè su questi campi del mondo è lo spagnolo la lingua ufficiale).

venerdì 22 luglio 2016

Kinshasa

Come sta cambiando velocemente questa città! Non so dire se positivamente o negativamente per coloro che ci vivono, perché "passandoci" solo per un paio di settimane l'anno non posso certo capire se tutte le novità che scorgo intorno a me stiano portando migliorie o meno, ma quel che posso dire è che anno dopo anno, visita dopo visita, la città sembra un'altra.
A partire dall'aeroporto: la prima volta che siamo arrivati qui siamo scesi dall'aereo e a piedi (si, si, a piedi, in mezzo agli aerei) abbiamo attraversato le piste per arrivare al terminal, terminal dalle sembianze della peggior boglia dantesca, con una fila infinita e tipicamente africana (che non si discosta molto da quella italiana, ossia non una fila, ma un ammasso di gente in movimento, schierato in orizzontale, che spinge e strattona per far valere la propria "supremazia" territoriale), gente che chiedeva di vedere il passaporto che sbucava da ogni angolo (chiedevano il passaporto, scoprimmo in seguito, per rubartelo...pensa che bell'accoglienza) e una confusione dominante, abbellita dal caldo umido tipico di questa parte di mondo. Ma il bello era la zona del ritiro bagagli: viaggiando sempre con lo zaino, quindi non dovendo aspettare nulla al nastro, ma semplicemente facendo compagnia al mio compagno di viaggio di turno (Max sempre e allenatori a rotazione, da Raffaele, a Lore, fino a Dario), mi sono sempre potuto "godere" le scene assurdo che mi si presentavano dinnanzi; bagagli ammassati, l'uno sopra l'altro, con scatoloni scocciati qua e la a farcire l'immobile tapis roulant, che di roulant manteneva solo il nome, e gente "armata" di pettorina colorata arancione, a garanzia delle loro azioni, in piedi su di esso, che prendevano e distribuivano a mani imploranti questa o quella valigia, a seconda delle richieste e del tagliando mostrato. Sempre se la sorte ti permetteva di riabbracciare il tuo bagaglio: Lorenzo rimase una volta tre giorni senza il suo, dirottato chissà perché a Luanda, e una mia valigia piena di roba per bambini arrivò una volta a missione conclusa.
Oggi invece sembra di essere sbarcati in un altro paese: bus che ti accompagna al terminal, fresco per l'aria condizionata, con diversi posti di controllo che smaltiscono facilmente la fila, nessuna persona esterna a quelle deputate a lavorare in quella zona intorno e bagagli riconsegnati...normalmente. Un altro aeroporto! E fuori i cambiamenti proseguono: pochi anni fa la strada che ci portava in città (all'inizio stavamo nel quartiere Limite, un po' fuori) era una pista sterrata, strabordante di gente, macchine e camioncini gialli e blu (sono delle specie di Ducato, con delle panche di legno piantate al suo interno, che fungono da trasporto pubblico; senza finestrini, sempre colmi oltre ogni possibilità umana...assurdi!), vere schegge impazzite, spesso senza luci, che occupavano tutta la strada, in ogni dove. Oggi...è ancora così, anzi, forse le macchine e la gente che occupa la strada sono ancora di più e il traffico, anche a causa del comportamento a dir poco indisciplinato della gente, è peggiorato, per quanto incredibile possa sembrare, ma la strada in se', lo spazio da occupare è aumentato ed è tutto asfaltato. Addirittura in alcuni punti c'è anche un marciapiede, o almeno una zona che potrebbe, dovrebbe, fungere a tale scopo. Insomma, la città sta rinnovando il suo vestito, si sta rifacendo il trucco grazie alla "cosmesi" cinese (tutte le strade sono costruite dai cinesi, così come i grandi edifici nuovi del centro, della zona della Gombè), Kinshasa sta curando la sua apparenza e si presenta migliore rispetto al nostro primo incontro, ma non son certo che questo basti a dimostrare un miglioramento delle condizioni di vita. Sicuramente l'economia del paese sta crollando, vista l'ennesima svalutazione in atto del franco congolese e vista la crisi mondiale delle materie prime (che qui sono la base di tutto e per tutto), e i bimbi che chiedono di entrare a far parte di Inter Campus sono sempre di più, a dimostrazione di ciò. Per cui...rimbocchiamoci le maniche e scendiamo in campo, bagai. 

mercoledì 20 luglio 2016

Congo-Kinshasa

Confesso che sono un po' in ansia per questo viaggio, perché le ultime vicende relative a questo progetto non sono state proprio positive, al punto che hanno pensato di chiuderlo e anzi, lo hanno congelato per sei mesi. Poi mi sono esposto in prima persona, ho insistito sulla validità sociale del nostro intervento in questa parte sfigata di mondo, ho convinto i capi e ora, ad una settimana dal rientro in Italia, rieccomi in volo, per cercare quelle conferme da portare a Milano, per poter andare avanti con i lavori. Effettivamente un po' di confusione si è creata negli ultimi tempi, con il nascere di quell' academy in città, figlia del primo inter campus in loco, costruita grazie alla spinta iniziale data da noi con i soldi raccolti girando l'Italia con la coppa dei campioni vinta nel 2010, ma che vive di vita propria, separata dal nostro progetto sociale, in un altro punto della città, con altri allenatori e altri bambini, ma guidata dalla stessa persona che lavora con noi e, chiaramente, organizzata in campo, negli allenamenti, con il nostro metodo, essendo i suoi allenatori quelli che ho formato io agli albori del nostro intervento. In più i nostri partner locali si sono dimostrati un po' incapaci di scindere completamente le due cose, di allontanare con decisione Inter Campus da quei discorsi di rette annue o talent scouting propri dell'academy, ma che noi da sempre rifuggiamo, quindi, giustamente, i "capi" hanno chiesto luce, chiarezza, prima di poter proseguire. E allora...eccomi qui, per cercare di dimostrare l'enorme valore che ha anche qui il calcio come strumento di prevenzione della criminalità, come mezzo attraverso cui tener lontani i nostri bambini dalla strada, dando loro un luogo dove giocare, dove entrare a far parte di un gruppo, dove apprendere e interiorizzare regole, dove...crescere come uomini e non solo come calciatori. Qui come in tanti altri posti, considerando che i nostri bimbi sono figli di militari, quindi di gente che vive con 20 $ mensili, che può permettersi di dar da mangiare ai propri figli a giorni alterni, che non può garantire l'iscrizione a scuola a tutta la prole, che...ha bisogno di Inter Campus, cazzo! Ma questa cosa deve, giustamente, rimanere "pura", senza contaminazioni esageratemente "agonistiche", senza valorizzazione esclusiva del talento, senza nessuna forma di selezione, perché, cacchio, tutti devono giocare e tutti devono migliorare e crescere con quella palla tra i piedi e sempre in testa, come obiettivo, come guida per la vita. E allora...via, destinazione Kinshasa. Ripartiamo con Inter Campus, riportiamo la palla magica anche su questi campi del mondo. 

martedì 12 luglio 2016

In Boda-Boda a Nagallama

Nagallama
Arriviamo al "nostro" African Village prima del previsto, un paio d'ore prima, quindi col prof decido di muovermi subito verso la scuola, la "nostra" scuola,  St. Joseph Primary School di Nagallama, per fare una sorpresa ai “nostri" allenatori che ci aspettano domani mattina e "spiare" se le cose vanno come crediamo, o se stiamo vivendo un'illusione. Sai com'è, fidarsi è bene..."Come RRRRaggiungiamo la scuola, misteRRR", con la sua r parmense, mi chiede Silvio. "Di corsa, no? Sono 8km in fin dei conti". Rimane un po' perplesso, poi "ma il Ritorno saRà col buio: meglio non RRRischiaRe", memore, forse, di quando venne investito da un Matatu, tre anni fa, proprio qui. "Be', allora, prendiamo un boda-boda: con 2, 3 mila scellini arriviamo facile a scuola". E così fu: boda-boda, ossia le moto taxi, una sola per entrambi, direzione Nagallama. Non era la prima volta che salivo su questi mezzi, ma in questa occasione il clima, l'entusiasmo di rivedere la nostra cellula, il verde più lussureggiante dell'ambiente intorno...non so cosa, ma questa volta è stata più bella, sia l'andata che il ritorno. Ci sentivamo bene, a casa, eppure eravamo a migliaia di km di distanza: sapete quando siete tranquilli, sicuri, sapete benissimo dove andare, conoscete perfettamente l’ambiente in cui vi trovate? Ecco, noi in quel momento, su quella motoretta, schiacciati l’uno all’altro per stare su quel sedile in tre, io, il prof e il pilota-centauro capace di parlare solo Luganda, noi ci sentivamo esattamente così, come se fossimo io a Villasanta e lui a San Secondo: a casa.Arrivati a scuola entriamo quasi di soppiatto, per non farci vedere, ma due mzungo qui non passano tanto inosservati, tant’è che non siamo ancora giunti all’enorme mango, simbolo per me di Inter Campus Nagallama, che già bimbi in neroazzurro ci sono corsi incontro chiamandoci per nome e prendendoci per mano. Già, tutti vestiti di neroazzurro, perché questa è la settimana Inter Campus da queste parti, ossia una settimana in cui tutte le maglie ricevute fino ad oggi vengono consegnate la mattina a tutti i bambini della scuola per lo svolgimento di tutte le attività previste nella giornata, per poi, la sera, quando la scuola chiude, essere nuovamente prese in consegna dai professori. Se pensate che qui i bimbi sono circa 800, potete provare ad immaginare come tutto l’ambiente fosse saturo dei nostri colori, del nostro simbolo, con bambini e bambine intenti chi a preparare la sfilata della domenica, chi a prepararsi per l’allenamento, indossando la maglia col simbolo bardato del tricolore, quella della stagione 2009/2010, o quella con la scritta Pirelli dorata, quella 2008/09… Bellissimo!!! Ma ancora più bello constatare che tutto quanto detto, stabilito, organizzato, si sta realizzando con continuità sul campo, grazie ai nostri mister, al lavoro svolto con loro negli anni passati e alla validità concreta, effettiva, quasi unica, del nostro intervento da queste parti. Mi ci voleva un po’ di Africa!!!

venerdì 8 luglio 2016

Road to Aber

ABER


“Attenzione: all’incrocio più avanti ci sono tre elefanti molto vicini alla strada”. Non volevo crederci. Invece il camion che abbiamo incrociato sulla strada sterrata che da Pachwacy ci stava riportando ad Aber diceva la verità. O quasi, visto che gli elefanti in realtà erano quattro, due adulti e due piccoli. E passando dall’incrocio (non pensate ad un incrocio di strade a tre corsie, ma piuttosto ad una strada rossa, polverosa e sgangherata, che incrocia le vecchie rotaie arrugginite della ferrovia che dalla capitale Ugandese un tempo conduceva fino al Kenya) eccoli li, a non più di dieci metri da noi, con la loro imponente stazza, il loro puzzo selvaggio e il loro fascino africano. Bellissimi. Dopo i soliti cercopitechi che incontriamo sempre lungo la strada e i babbuini, avere il piacere di un incontro così ravvicinato con questi bestioni è spettacolare. Ma non finisce qui: poco oltre, tornati sulla strada asfaltata che viaggia lungo il Murchinson Fall National Park, nella radura verde che ci circonda scorgiamo un’altra decina di elefanti, impala e un’altra bestia non meglio identificata (sempre tipo impala, simbolo anche della nazione, ma di cui non ricordo mai il nome). Insomma, una sorta di safari involontario quello vissuto oggi lungo la rotta per Aber. Ma anche se non avessimo scorto quelle bestie, questa rotta è sempre stupenda da vivere: sono circa cinque le ore che impieghiamo per coprire la distanza da Kampala alla regione del West Nile e ogni chilometro è realmente affascinante. Un giorno forse mi stuferò di ciò che scorre là, fuori dal mio finestrino, ma ora rimango ancora volentieri a guardare queste immense pianure ondulate verde smeraldo, con alberi di ogni forma, dimensione, specie, che le affollano, accalcandosi l’uno accanto, l’uno sopra l’altro, intervallate qua e la da villaggi di capanne di fango e paglia, o città parallele alla strada, che si sviluppano lungo la via che taglia in due il verde, profonde un paio di metri, con alle spalle l’incombente, selvaggia, natura. Questa volta, mi fa notare il prof, ci sono più coltivazioni, soprattutto grano ed effettivamente incappiamo con più frequenza del solito in piccoli incendi, appiccati per far spazio a zone ove seminare e per rendere più fertile il terreno, esattamente come si faceva milioni di anni fa. Oltre alle solite, immense fattorie, che incrociamo, una cinese e una indiana, questa volta sembra che anche gli stessi ugandesi si siano messi a coltivare la loro terra; sembra, chissà se poi sono loro a trarne beneficio. 

giovedì 7 luglio 2016

Uganda-Aber

ABER-UGANDA
Che casino. Che casino che faccio. Sempre. Non so proprio, non riesco proprio a gestire questa agenda viaggi: credo di essere indispensabile ovunque, quindi inserisco il mio nome in ogni missione, partendo in continuazione e perdendo completamente di vista tutto il resto, tutto ciò che è extra, oltre inter campus. Prima “subivo” in un certo senso l’agenda, nel senso che non ero io a decidere viaggi e staff, ma ora che sono io il responsabile devo riuscire a gestirmi meglio, a cedere qualche paese, a dedicarmi ad altri, a…stare più a casa, cazzo! Invece, proprio perché sono il responsabile, mi sento incaricato di tutto, mi sento in dovere di controllare, verificare, far marciare il tutto al meglio, ma così mi costringo a tornare e ripartire con una frequenza da pilota Lufthansa! E infatti rieccomi in viaggio, dopo nemmeno due settimane, trascorse tra l’altro…in campo, visto che c’era la scuola calcio estiva da portare avanti, con 8 allenatori provenienti dal mondo inter campus ospiti e coinvolti negli allenamenti, nelle attività, cui badare, cui organizzare le giornate, i trasferimenti, i momenti extra campo. Quindi due settimane a casa, ma super impegnate, dalle 7 del mattino alle 20, senza sosta, senza pausa a casa con Anna e Silvia…e se ne sono accorte. La seconda soprattutto...Per carità, tutti lavorano, tutti sono impegnati come, se non più di me durante le loro giornate e tutti riescono a stare con i propri bimbi poco, pochissimo, come il sottoscritto solo la sera, rientrati a casa, stanchi, stremati dalla lunga giornata. Io ho però i mille viaggi annuali (questa stagione, ad ora,  sono 15, con due mesi di stop per la nascita di Anna…), a complicare le cose, ma se imparassi a staccarmi un po’ dai Paesi, qualche cosa migliorerebbe. Invece io le complico. ‘azz, se le complico. Ma migliorerò; anche perché peggiorare è dura. 

Dicevamo: rieccoci in viaggio, direzione Uganda. Ritorno nella “mia” cara e amata Africa. È da un pezzo che non calco questi campi del mondo, l’ultimo è stato in Angola a febbraio, e il continente nero, quel “mondo” che mi ha rapito dieci anni fa, iniziava a mancarmi, con i suoi colori, i suoi odori, la sua gente, i suoi paesaggi. Qui poi i paesaggi sono particolarmente…africani, soprattutto quando, come questa volta, ci muoviamo verso il nord, verso Aber e uscendo da Kampala attraversiamo la savana, con le sue immense pianure verdi, verdissime (in questo periodo, stagione delle piogge, altrimenti aride, gialle e caldissime), i suoi alberi giganti, le sue capanne di fango e paglia disperse qua e la. Tutte le volte sembra di essere in un documentario! Bellissimo. Via allora la nostalgia, i casini e sotto col campo!