lunedì 31 ottobre 2016

West Bank

IN WEST BANK
Sembra strano guardare fuori dal finestrino e scorgere un paesaggio così diverso da quello lasciato appena mezz’ora fa, eppure questo è ciò che succede tutte le volte che ci allontaniamo da Tel Aviv per andare in Palestina: se di là è tutto pianeggiante, verde, pulito, ordinato, con grandi e bellissimi palazzi ad incorniciare il tutto, di qua è tutto sabbia e sassi, campi di ulivi a perdita d’occhio e case più simili a capanne di pietra, basse e mezze diroccate, il tutto in un paesaggio collinoso e pieno ovunque di pattume di ogni genere. Due mondi diversi a mezz’ora di auto. E tali infinite diversità si ritrovano anche in campo: di là bimbi, forse perché più piccoli di età, timidi e per lo più ordinati, anche se scarsotti motoriamente, a parte qualche eccezione, di qui bambini esagitati, casinisti, difficili da gestire, con i quali risulta sempre difficile contenere il loro entusiasmo e la loro esuberanza. E tutte le volte rimango colpito da queste differenze: un allenamento in Palestina vale tre allenamenti a Tel Aviv, per quanto riguarda il dispendio di energie e l’attenzione che si deve tenere, per riuscire a realizzare una buona seduta per contenuti e intensità. Non puoi perdere di vista nessuno, non puoi distrarti e pensare per un solo attimo ad altro, non puoi far gruppi più numerosi di quattro giocatori, non puoi prevedere pause tra una fase della seduta e l’altra. Non puoi. Altrimenti si distraggono, prendono i palloni, i pochi che abbiamo, e li calciano a cazzo in giro per il campo, si spingono, iniziano a litigare (cosa frequentissima), si siedono. Fanno tutto ciò che non deve realizzarsi durante il corso di un allenamento. Ecco perchè ti sfiniscono. Ma allo stesso tempo ti riempiono, perché a fine seduta ti rendi conto di quanto sia necessario per loro giocare a calcio seguendo il nostro metodo, con dei principi, con una educazione di fondo, filtrata dalle varie proposte, e quindi ti rendi conto di quanto loro si siano divertiti e di quanto possano crescere. O siano già cresciuti. Perché da sei mesi a questa parte devo ammettere, e sono contento di farlo, che anche qui le cose sono migliorate e i bambini sono meno…esuberanti. Nella classica confusione araba, nel classico casino tipico di questi villaggi, tante volte incontrati nel corso della nostra esperienza intercampiste, a Deir Istia le cose stanno migliorando a vista d’occhio e i bambini stanno crescendo non tanto come giocatori, non solo per quanto riguarda le loro abilità balistiche, ma anche, se non soprattutto, come bambini. E questo è ciò che ricerchiamo più di tutto.
Per cui, finita la seduta, stravolto e anche con un po’ di voce bassa, risalgo comunque contento in macchina, con in testa un paio di idee per migliorare ancora le cose al di qua del muro, per aiutare Gheisan, il nostro mister, a crescere ancora e portare ulteriori migliorie al progetto, pur rimanendo convinto del fatto che il vero passo in avanti su questo campo del mondo, lo potremo fare solo quando quel muro sarà abbattuto e potremo controllare, monitorare, con più facilità e frequenza l’andamento dei lavori. Perché così siamo un po’ troppo latenti e non sfruttiamo appieno il nostro immenso potenziale. Ma vedo piuttosto impossibile che tale cosa si realizzi. Per cui il permanent coach continua a frullarmi in testa...

domenica 30 ottobre 2016

we all speak the same language

OGGI, TEL AVIV, GOALTIME…


“We all speak the same language” è uno dei motti di Ghetton, nostro partner su questi campi del mondo e mai come oggi ho visto concretamente, sul terreno di gioco, questa frase prendere forma. 105 bambini riuniti sotto una stessa bandiera, una stessa maglia, la nostra, quella splendida e neroazzurra, provenienti dalle 4 cellule di Inter campus Israele/Palestina; 105 bambini, chi ebreo di tel aviv, chi palestinese del “nostro” villaggio in West Bank, chi profugo etiope, congolese o eritreo, chi ancora gerusalemita, ebreo e mussulmano che fosse, tutti insieme, divisi solo dall’età su quattro campi diversi, dove si sono sfidati in due ore filate di partite. 105 bambini con le loro incomprensibili lingue, ebreo e arabo, cui si aggiungevano francesi e inglesi, più qualche italiano, a seconda delle origini di ciascuno, tutte accantonate per lasciar spazio alla palla, la vera lingua universale, il vero e reale esperanto del nostro mondo. Bello, veramente bello ciò che siamo riusciti a combinare oggi. Non senza momenti di tensione e problemi vari, chiaramente, come ad esempio quando il responsabile dei bambini di Deir Istia ha minacciato di portare via i bambini, perché in un paio di squadre c’erano bimbetto con la kippah in testa; o ancora quando una mamma ha protestato perché era troppo tardi e lei avrebbe dovuto portare via il figlio a causa dell’incombenza dello Shabbat; ma tutto è rientrato, tutto si è risolto, ancora una volta grazie…alla palla, alle partite, al divertimento che solo quell’oggetto sferico può scatenare in bimbi e adulti. E quindi ha vinto la voglia di giocare, di stare insieme, anche se diversi, lontani e non troppo amici e anche se, magari, questo incontro avviene solo nelle occasioni in cui inter campus li “costringe”, ma nonostante tutto capaci oggi di abbracciarsi dopo un gol, dopo una bella vittoria, o anche solo alla fine di una partita, perché si sono divertiti. Certo, anche questa volta, non tutti, perché non siamo nel mondo delle favole e sarebbe sciocco, ipocrita, oltreché falso, dire che oggi tutti sono andati d’accordo e ha vinto l’integrazione, però a noi bastano anche quei pochi gesti, a noi basta vedere che qualcosa può cambiare calcando lo stesso campo, a noi basta anche solo instillare il dubbio nelle menti di questi bimbi, cui tutti hanno sempre detto che al di la del muro ci sono i nemici, coi quali non si deve avere nulla a che fare. Non sono scemo, non credo che facendo giocare bambini dell’una e dell’altra parte risolveremo i problemi decennali di questa terra martoriata, ma mi piace pensare che forse in futuro i “nostri” bambini, una volta adulti e con figli, avranno un approccio diverso nei confronti del “vicino”.

venerdì 28 ottobre 2016

Israele 2016

ISRAELE 2016
Cazzarola, sono qui da una settimana e questa è la prima volta che riesco a prendere in mano il mio mac e svuotare un po’ la mia mente su questa carta virtuale, per provare a rivivere e fissare le esperienze fin qui vissute in questa missione Inter Campus. Tel-Aviv, Gerusalemme, ritorno a Tel-Aviv, Deir Istia, sempre piuttosto di corsa e sempre con poco tempo libero per potermi dedicare a voi, o 25 fedeli lettori. E quei momenti che siamo riusciti a ritagliarci son stati finora quelli mattutini, dedicati alle corse, agli allenamenti, parte immancabile e insostituibile dei nostri viaggi; ma ora eccomi qui: ho circa 20 minuti prima di scendere e prendere un taxi, direzione Goaltime, dove daremo forma al torneo finale, con tutti, o quasi, i nostri bambini coinvolti: i rifugiati di Tel Aviv, bambini dall’eritrea, dal sud sudan, dall’etiopia; gli ebrei sempre provenienti dall’atea città Israeliana; la squadra mista palestinesi ed ebrei di Bet Safafa, Gerusalemme; i palestinesi dalla west bank, dal villaggio di deir istia. Tutti insieme sul campo, con la stessa maglia neroazzurra, per giocare due ore, impegnati nel classico torneo di fine missione.
Ma come procedere nel “svuotare” la mente, nello scrivere, narrare la settimana di lavoro in questa splendida terra? Parto dall’esperienza mistica vissuta nella millenaria Gerusalemme? La corsa sul monte degli Ulivi? Oppure dal viaggio “al di la del muro”, per allenare i nostri bimbi in west bank? E perchè non partire dai grandi progressi che si vedono, si toccano con mano in campo, nel processo di integrazione tra ebrei e palestinesi di Bet Safafa? Seguirò il consiglio di un amico, che quando deve organizzare le sue giornate avanza…a ritroso: parte dall’ultima cosa che deve fare e da li va all’indietro, fino ad arrivare all’oggi, al momento attuale. E allora via, andiamo a ritroso…

lunedì 17 ottobre 2016

Foto Venezuelane

col profe Mesa
bimbe e bimbi in neroazzurro





i grandi mezzi a disposizione.

Piccoli intercampisti crescono...cresceranno!

venerdì 14 ottobre 2016

Columbus day

Columbus day
Oggi è il 12 Ottobre, un giorno di festeggiamenti in Spagna e di commemorazioni in molti paesi delle Americhe, per ricordare quando nel 1492 Cristoforo Colombo arrivò nel Nuovo Mondo, chi con feste, chi con manifestazioni di protesta.
Se infatti in Spagna è festa nazionale e si chiama Día de la Hispanidad, in molti paesi centro e sudamericani è una data celebrata per rivendicare i diritti dei popoli indigeni, schiacciati, massacrati proprio a causa di quell’invasione e viene chiamato “Día de la Raza” (giorno della razza), “Día de las Culturas” (giorno delle culture) e “Día de la Resistencia Indígena” (giorno della resistenza indigena).
I messicani portano fiori ai piedi del monumento alla razza situato a Città del Messico e, tra canti e balli, mentre gli indigeni alzano le loro voci nella Piazza dello Zocalo;
in Costarica, è chiamato il Día de las Culturas e con un carnevale si festeggia l’unione della cultura spagnola, indigena e afro-caraibica; i colombiani festeggiano questo giorno nelle scuole, dove con delle opere teatrali rappresentano il significato che questo giorno ha avuto per la storia; in Argentina, nel 1917 il 12 ottobre è stato stabilito come giorno della riaffermazione dell’identità ispanoamericana di fronte agli Stati Uniti, ma le comunità aborigene hanno denunciato il massacro delle comunità indigene e il giorno della razza è diventato così il Día della Resistencia de los Pueblos Originarios (giorno della resistenza dei popoli originari); in Bolivia si chiama “giorno della decolonizzazione” e infine qui, in Venezuela, dal 2002 Hugo Chávez e Samuel Moncada (all’epoca ministro dell’istruzione superiore) hanno deciso di ricordare questa data come il Día de la Resistencia Indígena, perché non lo considerano come la data di una scoperta, ma come la commemorazione della resistenza aborigena contro l’invasione spagnola.
Insomma, lo si chiami come si vuole, lo si viva come meglio si crede, quel lontano 12 ottobre ha segnato in ogni caso la storia dell’umanità, per noi europei positivamente, per gli indigeni delle americhe un po’ meno, visto che da quel giorno prese il via il più feroce eccidio della storia dell’umanità. Nei decenni 1491-1550 infatti, per effetto delle malattie tra l’80% e il 95% della popolazione indigena delle Americhe perse la vita: un decimo dell’intera popolazione mondiale di allora (500 milioni circa). La prima malattia nel Nuovo Mondo, causata da un germe dell’influenza dei suini, nel 1493 a Santo Domingo, annientò la popolazione: da 1.100.000 a 10.000 abitanti.
Poi il vaiolo, che destabilizzò l’impero Inca favorendo la campagna di conquista di Francisco Pizarro e il massacro della popolazione. E dopo ancora il morbillo e le epidemie che giungevano dall’Africa insieme ai nuovi schiavi. E ancora, alla ricerca di oro, bruciavano villaggi sterminando le intere popolazioni e facendo prigionieri e schiavi. Infine, dove non uccisero le malattie, lo fecero le armi, la schiavitù, la deportazione, i lavori forzati e la fame.
Oggi si contano più di 800 popolazioni indigene, per una popolazione di circa ai 45 milioni di persone dove i governi progressisti riconoscono i loro diritti. Riconoscono…diritti…insomma, anche qui, oltreché in Africa, mi sento fuori luogo.

giovedì 13 ottobre 2016

San Isidro

Vivere a San Isidro


Il programma di oggi prevede allenamento con il gruppo sub 12 e sub 14 (under 12 e 14), ma già al nostro arrivo al campo ci rendiamo conto che i numeri, che i bambini presenti sono un po’ meno rispetto a quelli attesi. Soprattutto il gruppo dei più grandi, che normalmente si presenta, come tutti gli altri, molto prima, nonostante fino all’ora prevista per la loro seduta non possano entrare in campo, non sembra palesarsi. Sinceramente non ci faccio molto caso, ma mi dedico completamente alla squadra dei sub 12, osservando insieme al prof l’operato di Mario, il nostro allenatore, cercando insieme al mio fido compagno la maniera migliore per correggere domani, durante la teoria, le cose un po’ carenti proposte dal nostro mister oggi. Discutiamo, ci confrontiamo, parliamo della seduta, fin quando arriva il momento dei grandi, ma…sono in 9. Cazzarola, 9. Come mai, chiediamo a Mesa? La risposta e tanto semplice da queste parti, quanto terribile per le nostre: ieri, in un assalto, è stato ammazzato un ragazzo di 29 anni, piuttosto conosciuto nel barrio e oggi è scattata la rappresaglia degli amici, per cui nel pomeriggio, poco prima che arrivassimo, nella favela oltre la collina rispetto a quella dove siamo noi “hanno iniziato a sparare e finora sono morte 13 persone”! Di conseguenza molte mamme si sono chiuse in casa con i figli e non li hanno fatti venire al campo. Per ragioni di sicurezza, meglio non uscire, ci dicono, e a volte quando l’aria si fa pesante, anche l’allenamento che ha già preso il via, viene interrotto e i bimbi vengono mandati a casa. Far West. Più o meno è così che me lo immaginavo il far west, anche se con un po’ meno sporcizia, puzza e inquinamento vario; un posto all’apparenza tranquillo, ma che di punto in bianco diventa una polveriera, pericolosa e assolutamente inospitale, dalla quale tanti cercano di fuggire. Tanti, fra cui molti nostri bimbi, o meglio, molte famiglie inserite nel nostro progetto, che andando a vivere per lo più in Colombia e portando con se, chiaramente, i propri figli, hanno lasciato le nostre squadre un po’ monche. Ma questo non è certo un problema: manca cibo, acqua, sicurezza e pulizia, ma bambini non mancano mai su questi campi del mondo. In una realtà come questa dove le ragazze diventano madri a 15 anni e dove se non fanno sesso entro quell’età vengono derise e mal considerate dal gruppo di coetanei, se non addirittura escluse, certo nuove leve da inserire e provare a crescere, educare, grazie a quella magica sfera certo non mancano. 

martedì 11 ottobre 2016

Ritorno a Caracas

Caracas

Sono già da due giorni in questa scalcinata capitale del mondo, ma ancora non sono riuscito a riordinare i miei pensieri e buttar giù due righe che mi aiutino a fissare su carta le esperienze di questa missione. Non sono riuscito principalmente perché il poco tempo libero avuto in questi giorni fino ad oggi l’ho voluto dedicare ad allenamenti, corsa e palestra, e il restante…al sonno!!! E che sonno. Tra ieri e oggi sono stato in grado di addormentarmi tra le 21 e le 22 e risvegliarmi alle 7:30, giusto perché avevo puntato la sveglia e volevo uscire a correre. Approfittando del fatto che qui non si può uscire al calar del sole per ragioni di sicurezza e ci si ritrova quindi costretti, bloccati in hotel, non appena si rientra dal campo, ecco che ho deciso di recuperare un po’ il mio rapporto con Morfeo, ultimamente piuttosto teso per via delle scorribande notturne di Anna. E posso affermare tranquillamente che ora siamo tornati grandi amici! La prossima missione manderò Silvia come secondo allenatore, in modo da far recuperare anche lei. 


Dicevamo, non si può uscire per ragioni di sicurezza, tant’è che anche noi dobbiamo lasciare la favela entro le cinque, per evitare assalti o incontri ravvicinati del peggior tipo. La situazione sociale ed economica è in picchiata vertiginosa, la gente non ha più niente, non può permettersi di comprare niente e anche i supermercati hanno ben poco da offrire: mancano farina, riso, legumi, carne; sono pieni di junk food, patatine, dolci, coca cola, sprite, merdate di ogni genere, ma certo non cibo. Addirittura manca l’acqua! Vendono succhi di frutta zuccherati di ogni genere, bevande gassate della peggior specie, ma non hanno acqua. Ieri l’abbiamo cercata in ogni dove, senza però esito. “Non abbiamo acqua. Quella poca che ci consegnano, sparisce il giorno stesso”, ci dice una ragazza del supermercato. Frutta, quella se ne trova. Non so dire la qualità, anche se quella che ho mangiato in hotel non era proprio di prima scelta, ma se non altro c’è. E all’orizzonte le cose non sembra possano migliorare. Anzi, considerando che dal nostro ultimo giro su questi campi del mondo, sei mesi fa, le cose sono addirittura peggiorate, la luce in fondo al tunnel ancora non appare. Notavamo io e il prof ieri in campo: non ci sono bambini sovrappeso, un po’ cicciottelli; anche quelli che lo scorso anno erano leggermente gordi, questa volta sono in linea, anzi, quasi sottopeso, e certo non perché si siano messi a dieta. Insomma, la situazione va peggiorando e l’unica cosa positiva rimane il campo, l’allenamento, che sta diventando sempre più importante per la vita non solo dei bambini, ma di tutta la comunità di san isidro, vero punto di ritrovo, punto fisso, per tutti quanti. E allora, via, torniamo in favela adesso: il campo ci attende.