lunedì 29 febbraio 2016

INCONTRI

INCONTRI SUL CAMMINO IN NEROAZZURRO
La casa salesiana questa volta è piena di ospiti provenienti un po’ da tutto il mondo, nonostante le condizioni piuttosto decadenti del posto, volontari, salesiani in formazione, gente di ogni tipo e da ogni angolo della terra: tre ragazze francesi, qui per due anni per lavorare ai progetti educativi dei salesiani, per conto di una ong, una delle quali divenuta allenatrice Inter Campus e pienamente coinvolta “sui nostri” campi; un ragazzo tedesco, a caccia di se stesso da ormai cinque anni, finito in questa sorta di discarica a cielo aperto ormai un anno fa, per continuare la sua ricerca, che però non sembra aver dato grandi frutti (molto preoccupato, a Marzo tornerà in Germania senza aver capito cosa fare nella sua vita, senza un lavoro, senza un punto da cui partire…ieri, mentre ci salutavamo, l’ho visto in grande difficoltà, por bagai); diversi ragazzi angolani, chi studente, chi invece lavoratore per i salesiani, impegnati nel mantenimento della casa (devo dire che potrebbero fare ben meglio!!! Preferisco il Chiapas: almeno li sei all’aperto, nella natura, non sei circondato da spazzatura e sensazione perdurante di sporcizia), nella gestione logistica dei progetti e in varie altre mansioni, nei mille e più progetti di questo straordinario ordine religioso; due ragazze brasiliane, qui per…non ho ben capito. Sicuramente sono volontarie, ma non ho ben capito che cacchio facciano qui; una ragazza argentina, fotografa di professione, in questo lato di mondo per mettere a disposizione la sua “forza lavoro”, anche se non l’ho mai vista far concretamente qualcosa, ma magari lavorava quando noi eravamo in campo o in aula…E infine due ragazzi argentini, partiti da Rosario, entrati in europa dalla Spagna, scesi in Africa attraverso il Marocco, con l’interno di circumnavigare il continente in sella alle loro biciclette! In viaggio da 10 mesi, passati attraverso Senegal, Guinea, Costa d’Avorio, Ghana, Benin, Nigeria, Camerun, Gabon, Congo Kinshasa e giunti ora a Luanda, sono fermi nella capitale Angolana in attesa del rinnovo del loro passaporto, per poter ripartire e scendere verso la Namibia e proseguire il loro cammino. Uno solo però, Favio; l’altro ha deciso di mollare e tornare a casa, dalla sua ragazza. Troppo difficile starle lontano, mi ha detto. E così abbandona il suo compagno, ben deciso quest’ultimo, invece, a proseguire, fino…fino a quando non sentirò di essere arrivato a conclusione. Che roba. Che scelta. Per me, così inquadrato, così organizzato, il pensiero di un’esperienza come questa mi affascina, ma allo stesso tempo mi crea difficoltà: oltre al fatto che sono felicemente sposato e con una nanetta a casa che non vedo l’ora di rivedere, immaginarmi partire una mattina in bici senza una meta precisa, senza sapere chi o cosa troverò una volta arrivato, senza alcun tipo di certezza, sicurezza…confesso che farei fatica, seppur intrigato. Ma lui chi è? Perché lo fa? “porque no? Es mi manera de ser libre, de viver mi vida”…’azz.  Totale libertà e la possibilità di incontrare gente e vivere esperienze uniche. ‘azz un’altra volta. Ma lui chi è, si diceva: lui, Favio,  è un uomo di quasi cinquant'anni, evidentemente di sinistra, apertamente attivista di sinistra, ma aperto, senza estremismi manifesti o chiusure mentali; è stato in Bolivia sulle tracce del Che, lavorando con i campesinos, è stato a Cuba in bicicletta, passando attraverso il Mexico, per il 40esimo anniversario della rivoluzione, ha una vasta e interessante conoscenza di tutto ciò che riguarda le rivoluzioni sudamericane ispirate dal Che e non solo sudamericane. Insomma, un uomo con le idee chiare su come vivere la sua vita. Certo “chissà cosa c’è dietro”, dice il prof mentre ci alleniamo e condivido con lui la mia fascinazione nei confronti di questa esperienza estrema (tranquilla, Silvia, non vi abbandono, non vi liberate di me così), chissà che storia ha alle spalle, continua, per arrivare a una scelta del genere. Non lo so, sinceramente non credo ci sia niente di negativo, ma solo l’interesse oserei definire anacronistico per la scoperta, per l’esplorazione e la conoscenza, l’amore per la vita e la volontà di viversela totalmente, seguendo i propri desideri, le proprie idee, i propri principi. Grande, bellissimo incontro. Anche questa volta, sono in giro per “formare persone” e sono io ad essere formato. Grazie.

domenica 28 febbraio 2016

Viaggio per Dondo

DONDO
Quando la sveglia inizia a suonare, io rimango calmo e tranquillo tra le braccia di Morfeo, senza cenni di risveglio. La melodia di bonghi della mia suoneria deve ripetersi e alzarsi di intensità per raggiungere il suo obiettivo e mi accorgo quando apro gli occhi che sono già trascorsi due minuti dal loro primo rintocco: sono infatti le 4:12 e avevo programmato il risveglio per le 4:10. Balzo in piedi, uscendo faticosamente dalla zanzariera, non senza difficoltà, ma dopo un primo momento di spaesamento, mi rendo conto di non essere particolarmente rintronato a causa delle poche ore di sonno; niente che una buona moka non possa guarire (ovunque sia passato o sia ancora presente un italiano, troverai la tua caffettiera Bialetti preferita: Uganda, Congo, Angola, foresta Brasiliana, Se uno di noi è passato da quelle parti, l’ha fatto con del caffè al seguito. Garantisco). Via allora e mentre mi incammino, al buio, sento rumori strani provenire dalla cucina: il topastro! Non lo vedo, è buissimo e quando accendo la luce nulla mi appare, se non alcune bucce di banana per terra, stranamente a terra. Ratatouille era in vena di ricette. Amen. Tanto il caffè non lo interessa, quindi via, acqua, certo non quella corrente, e dose massiccia di caffè per noi tre, ripetuta, prima di salire in macchina con Padre William, Favio, l’argentino, e Gouveia. Si parte. La città è irriconoscibile: accarezzata da una fresca brezza, silenziosa e senza traffico. I cumuli di pattumiera a bordo strada non sono ancora sede di ricerche di vario tipo da parte della gente delle favelas e i vari buchi che ci accompagnano lungo la rotta in direzione est per uscire dalla città, seppur mascherati dal buio, si riescono a vedere ed evitare, non essendo celati al nostro sguardo dalle macchine che ci precedono e che si muovono in ogni dove, pur di trovare uno spiraglio attraverso cui avanzare. Man mano che ci allontaniamo dalla capitale aumenta la luce, ma soprattutto…si entra in Africa! Luanda infatti è un groviglio puzzolente e inquinato di “case”, costruzioni basse, macchine, strade, senza un solo spicchio di verde e sembra di essere ovunque, fuorché nel continente nero, ma appena fuori la natura torna ad essere regina incontrastata: immense distese di verde, enormi baobab (è il posto dove ne vedo di più, mi aspetto sempre un piccolo principe pronto a dar loro da bere) e terra rossa, rossissima che si alterna alla foresta e agli spazi enormi. Poco prima di Dondo, poi, ossia circa due ore e trenta dopo la nostra partenza (non circa, precisamente: il prof cronometra qualunque cosa, quindi sappiamo con esattezza di aver impiegato due ore e ventisette minuti per il viaggio) attraversiamo l’immenso fiume Kwanza ( dove la prima volta che sono stato in Angola ho fatto il bagno dopo una mega partita con gli educatori di allora, in gita a Massangano), con il suo immenso letto, le sue acque apparentemente calde e, dicono, ricche di coccodrilli. Nella piccola e calma cittadina ci fermiamo poco tempo, giusto il tempo di rivedere padre Gino, maledetto juventino, e dar vita a un bell’allenamento con i bambini (cento sono parte della cellula, ma 26, anzi no, 32, anzi no, 36, sono quelli che giocano con noi, aumentando di numero, mano a mano che l’allenamento avanza) e quindi a un piccolo incontro con gli allenatori, per dar loro due indicazioni su come proseguire il loro lavoro in campo. Campo…uno spazio piccolissimo, sarà un 40x20, in cemento, con i muri della casa salesiana a chiuderlo e un continuo via vai di persone dirette o in uscita dalla casa stessa. Insomma, un casino. Quando poi eravamo noi in campo, la folla di gente, ovviamente, si fermava incuriosita ai margini del nostro spazio di gioco, per capire cosa stessero combinando i due bianchi, con quei nastri e quelle strane richieste, continuamente fatte ai bambini, attenti e pendenti dalle loro labbra, riducendo ancor più i metri a nostra disposizione. Insomma, la solita situazione Inter Campus, dalla quale siamo usciti alla grande: dopo l’introduzione coi nastri a raffica per lo sviluppo della lateralità, per lo schema motorio del correre e del saltare, essendoci accorti che i bambini erano quasi raddoppiati, ci siamo divisi materiale e giocatori e abbiamo proseguito la seduta separati, concludendo dopo un bel lavoro analitico e una bellissima, per come l’hanno sviluppata loro, esercitazione situazionale, con un torneino a cinque squadre, su un mini campo 4<4 con doppia porta. Bello. Tutti sorridenti, contenti e soddisfatti. Io e Silvio, forse, più di tutti. Stanchi, sudati, ma contenti. 

venerdì 26 febbraio 2016

Luanda, Luanda

LUANDA, LUANDA…

Cazzarola, da dove cominciare? Dalla condizione terribile in cui vivono i salesiani che ci ospitano, con topi come commensali, acqua che salta, luce che va e viene? Dalla disastrosa situazione delle strade, veri e propri fiumi di acqua putrida, che invadono anche le case…le baracche della gente, costretta a camminare immersa in questa melma nera fino alle ginocchia? Dalla rumenta che si ammassa ovunque, riempiendo l’aria col suo tanfo e occupando quei brevi tratti di terra ferma ove scorrono le macchine, le innumerevoli macchine, che affollano la Lixeira? O dall’entusiasmo che quella sfera magica riesce a trasmettere ai bambini e alle bambine che stanno giocando con noi in questi giorni, che si presentano al campo con zainetti strappati, bucati, senza scarpe, o alcuni con una di un tipo e una di un altro, con calze bucate, ma con una splendida, lucente maglia neroazzurra, affamati di calcio e di gioco? 
È un casino trovare il bandolo di questa matassa che mi si aggroviglia in testa, sciogliere questo ammasso di pensieri, ricordi, emozioni, che hanno puntellato la mia giornata odierna, iniziata come sempre con l’allenamento all’alba insieme al prof e proseguita con la trasferta a Mota per il corso prima e l’allenamento poi, e conclusa con la partita nostra, tra mister, occasione unica per conoscere realmente i “miei” allenatori (non so chi diceva che “occorrono cinque minuti di gioco, per conoscere una persona” e mai verità fu per me più condivisibile) e per divertirmi, tornando bimbo una volta di più. 
Soprattutto ora, sdraiato nel letto, col pensiero della sveglia alle 4 di domani, in vista della trasferta a Dondo (che, cazzo, dista 168km da qui, ma per le strade da quarto mondo di questo disgraziato paese valgono come 1000) e della intensa giornata che ci attende, mi viene difficilissimo provare a raccontare ciò che è stato oggi. 
Desisto.
Lascio cadere la penna…la tastiera. Dormo, se quel cacchio di condizionatore funziona e riesco a non morire così di caldo, sotto la mia zanzariera bucata, in questa stanzina salesiana. 
Buona notte.

La Venezia angolana

giovedì 25 febbraio 2016

In campo a Maduba e Trillho

PRIMERO DIA

Pensavo che col ritorno di Padre Stefano in Italia la mia vita qui a Luanda assumesse contorni più umani, più accettabili, senza più sveglie prima dell’alba, corse da un campo all’altro, soste di un’ora e poco più per pranzare, invece…madonnina, invece la sveglia questa mattina è suonata alle 6 e sono riuscito a sdraiarmi solo ora sul mio letto, in attesa della cena (che sarà il solito riso scotto, con del pollo mezzo avariato…madonnina che merda! Altra cosa che con Ste non mancava era un piatto decente per rifocillarsi a fine giornata, mentre ora…rimpiango il Chiapas, fai tu!), al termine di una super, intensa e positiva giornata. Certo, un po’ me le vado a cercare, perché la sveglia me la sono messa io per potermi allenare col prof (sembravamo due criceti in gabbia: qui non possiamo uscire dalla casa salesiana, siamo in Lixeria, a Sambisanga, un quartierino non proprio residenziale, e le nostre facce pallide accendono i sogni di ricchezza dei più la fuori, quindi per allenarci dobbiamo accontentarci dei due campi da calcetto dell’oratorio, dove abbiamo dato forma a un allenamento aerobico, riuscendo a percorrere quasi 5 km nei nostri 8’di riscaldamento e nei tre c.c.c.v.v. da 6, 4 e 4 minuti. Non male, se consideriamo lo spazio a dir poco ridotto!), però l’incontro con gli allenatori alle 8 e l’allenamento alle 9.30 non sono stati una mia scelta! E nemmeno la seconda parte, a Trillho, alle 14, con chiusura del tutto alle 17:30, dopo quasi tre ore di aula e altre tre di campo, e conseguente ingaraffamento per rientrare a casa. Ma tutto sommato…chi se ne frega! Sono stanco, ma stra contento per la giornata: girando per i nuclei, andando direttamente sui campi dove allenano i nostri mister, chiedendo loro i problemi, gli ostacoli, le difficoltà che incontrano quotidianamente nel corso delle sedute, nella gestione dei bambini, che non dimentichiamolo sono bambini di strada, siamo riusciti a “toccare” la loro realtà, siamo riusciti a intervenire individualmente, siamo riusciti, credo, a lasciare indicazioni, chiarimenti, aiuti importanti per i loro futuri interventi in campo. E in più, partendo dalle loro domande, dalle loro richieste, siamo riusciti a rivedere tante cose, tanti contenuti dei corsi passati, alzando il livello, le conoscenze, le competenze di tutti i nostri ragazzi. Certo, il loro limite rimane sempre lo stesso: non riescono, quasi tutti, non voglio generalizzare, a astrarre, a usare i contenuti teorici, per immaginarsi esercizi nuovi, giochi, esercitazioni utili per la crescita globale, integrata, del bambino e spesso si limitano a copiare, a ripetere pedissequamente le nostre proposte, senza farle proprie, modificarle in funzione delle proprie esigenze, dei propri bisogni, dei propri obiettivi. Non pensano, non fanno nulla che non sia loro detto, proposto: spiego il gioco iniziale, le sue caratteristiche, i suoi contenuti, le modalità di gestione e realizzazione, loro capiscono, sanno, ma poi, dovendo pensare ad una esercitazione utile allo scopo, vanno in cagone, per dirla con un francesismo. E tornano alle nostre esercitazioni. Non tutti, ripeto, e coi nostri interventi di questi due giorni ho la presunzione di pensare ancora meno, rispetto a prima, però tanti, troppi. Ma nessuno ha mai insegnato loro a pensare: anche i bimbi in campo agiscono, non ragionano, non guidano il loro movimento, fanno, eseguono la richiesta del mister, ma se l’esercizio prevede, richiede, un ragionamento, son risate. Un semplice comando destra o sinistra in una corsa, dato con uno stimolo uditivo, piuttosto che visivo, porta ragazzini anche di 13/14 anni a sbagliare, a non riconoscere il lato destro e quello sinistro, addirittura…ad andare dritti, invece di girare, talmente tanto sono confusi! Ma siamo qui apposta: c’è da lavorare, ma la loro volontà, le loro, e le nostre, motivazioni sono altissime, quindi si tratta solo di insistere, come stiamo facendo dal 2007, e come per alcuni “si è accesa la luce” (Gouveia, Wilson, Dunga, Simao, ad esempio), l’illuminazione arriverà anche ad altri. Credo...

mercoledì 24 febbraio 2016

Angola 2016

Viaggio lungo, notturno, ma tuttavia semplice, quasi piacevole, ed eccomi nuovamente a Luanda, accolto dalla solita sberla di caldo umido, tipico di questa città, e da quell’odore forte, intenso, unico, che è un misto tra l’odore delle fogne di Calcutta d’estate e lo spogliatoio di una squadra di adolescenti dopo una partita di fine campionato, giocata alle 15. Come inizio non c’è da lamentarsi…
Entrato in aeroporto i segnali del cambiamento in atto nel paese, iniziato e già osservato anni fa, ma tutt’ora in corso, sono diversi: rompifila per accedere al controllo passaporti, aria condizionata, addirittura macchinette per i passaporti elettronici che velocizzano le procedure; insomma, una bella trasformazione, una bella crescita, soprattutto se con la mente torno al primo viaggio in questo lato di mondo, quando per accedere al bancone del controllo ho dovuto fare una fila tipo tornelli di san siro e nell’attendere l’arrivo del bagaglio, con gente ovunque che mi strattonava e mi chiedeva di portare la mia valigia, ancora dispersa nel marasma del nastro trasportatore, ho sudato come durante la mezza di Gerusalemme. Rispetto al Camerun, sembra che qui qualche passo in avanti si stia facendo, ma quando salgo in macchina con Padre William, sostituto di Padre Stefano, rientrato definitivamente in Italia e di cui parlerò più avanti, e parlo con lui della situazione del Paese, scopro che è tutta apparenza. L’Angola, ricca di petrolio e altre materie prime, dopo un decennio di ricchezza sta conoscendo la crisi, che però, come ovunque nel mondo, sta colpendo solo…no, be’, soprattutto,  una parte della popolazione, quella più povera, lasciando per lo più inalterate le ricchezze di quella piccola parte di cittadini vicino al governo e alle grandi multinazionali presenti in loco, che pensano bene di salvare l’apparenza, continuare ad investire per far sembrare che tutto vada bene, piuttosto che intervenire per aiutare quella larga fetta di popolazione in seria, serissima difficoltà. Muovendoci verso la Lixeira questa cosa emerge nitidamente: per evitare l’ingaraffamento, ossia il traffico, il salesiano brasiliano passa per le strade sterrate dei quartieri poveri, dove agiamo noi col nostro progetto, e che a causa delle piogge degli ultimi tempi sono ridotte a veri e propri laghi di acqua putrida! Una cosa disgustosa: col jeeppone siamo immersi in questa melma nera e puzzolente fino alle portiere e i bambini diretti a scuola per passare da una lato all’altro della strada devono letteralmente guadare, cercando pietre che spuntano per evitare di…affogare. E che schifo le robe che galleggiano in questa palude: olio, bottiglie, foglie, rami, oggetti che è meglio non riconoscere: i passi in avanti fatti in aeroporto ti portano ad affogare nella melma della strada, ma nonostante questo la gente sorride, ti saluta, esce dalle baracche in cui vive perfettamente vestita, pettinata, soprattutto le donne, con delle capigliature incredibili, e vive la vita come se la loro fosse una condizione del tutto normale. Davvero, rimango sbalordito nel vedere questa gente muoversi in questa Venezia dei poverissimi come se niente fosse, tranquilla e sorridente, accompagnato e conciliato nella mia osservazione dalla musica di Padre William…e che musica! Slayer, Manowar, Motorhead, Sepultura!!! Mitico! Un altro salesiano metallaro. Dopo quel viaggio nelle favelas di Luanda con Powerslave a manetta nella macchina di Ste, questo è sicuramente un altro incontro piacevole e inaspettato con la mia musica preferita in terra angolana! Così, accompagnato dai growls di Max Cavalera, arrivo in Lixeira, a Sao Jose, dove starò con Max e Silvio per i prossimi giorni a dormire, muovendoci tra i vari nuclei della città per vedere i nostri allenatori all’opera e accompagnarli nel loro difficile lavoro di allenatori-educatori di ninos de rua.

venerdì 12 febbraio 2016

I nostri allievi...

PRISON DE BAFFOUSAM, GIORNO 3 “Alberto, vedi quell’allenatore?” mi chiede Max; “certo, bravo, molto disciplinato, tranquillo, perché?” chiedo ingenuamente. “È condannato a morte per aver ammazzato un bambino”Senza parole. Resto senza parole. Davvero. Ma come è possibile? E Chantalle, la panzona seduta in prima fila, sempre precisa e attenta nei suoi interventi, validi e corretti? Condannata per aver, insieme al marito di cui ho già parlato, ammazzato 15 persone per poi venderne gli organi. Come fanno a convivere queste due anime? Malfattori degni di un film di Tarantino la fuori, tranquilli, educati e ordinati qui dentro: ma sono le stesse persone? E quando mi accingo a correggere il test di ciascuno di questi Jekyll e Hide, un po’ di timore si fa largo in me, per lasciar spazio a vera paura nel momento in cui, con Andre, capisco che sono ben dieci i bocciati! Ok, non ne usciamo vivi, questa volta. Invece…siamo riusciti a cavarcela anche questa volta!!! Chiaramente scherzo: non ho mai avvertito tensione, paura, se non un po’ di fastidio per le continue richieste delle calze, della maglia, dell’orologio, da parte della “popolazione” dei detenuti, ma soprattutto delle guardi. Ne siamo usciti, infatti, alla grande, con un grandioso ultimo giorno di lavoro e di festa, che ha coinvolto tutto il carcere e tutti i detenuti: Alphonse, nostro storico allenatore (quello che la volta che siamo andati a Pinzolo con gli allenatori africani insieme alla prima squadra, durante il ritiro, aveva messo in piedi una splendida bancarella di prodotti di artigianato fuori dallo stadio, prima dell’amichevole dell’Inter…un genio) ha messo in piedi una vera e propria festa dello sport, con gare di tiro alla fune, di corsa nei sacchi, di braccio di ferro, oltre alla finale del nostro torneo, con premi e regali per tutti. Tutto il materiale Calva che avevamo portato, quattro valige, è servito come trofeo, non solo per coloro che hanno vinto qualche gara, ma anche per “il più pulito”(bella lotta…), il più ordinato, il più gentile…insomma, ogni scusa era buona per regalare una maglia d’allenamento, una felpa, una tuta, un k-way, quasi tutto made in Calva e quasi tutto come nuovo. E alla fine tutti erano contenti, tutti hanno passato una giornata un po’ diversa, di certo inimmaginabile, e anche chi non è riuscito a ricevere un capo d’abbigliamento, ha ottenuto un sapone, bene preziosissimo da queste parti, chiudendo il suo incontro con l’uomo bianco con soddisfazione e gioia. Per oggi almeno. Domani si torna a tirare fino a sera in questo spazio angusto, puzzolente e sovraffollato, condiviso con gente di ogni genere e in attesa di un giudizio che tarda ad arrivare e che magari ci dirà anche che siamo innocenti e che abbiamo buttato 10-15 mesi qui dentro, ingiustamente. Assurdo. Domani però: oggi ci siamo divertiti, grazie a questa maglia neroazzurra e a questa palla sempre più magica.

giovedì 11 febbraio 2016

Secondo giorno in carcere

PRISON DE BAFFOUSAM, GIORNO 2


“Albertò, Albertò”, con l’accentro sull’ultima vocale. Mi sento chiamare mentre con Andre sto concludendo il riscaldamento del nostro personale allenamento. Non è possibile, chi cacchio mi può conoscere quaggiù; non può nemmeno essere uno dei bambini o dei mister del corso, perché sono tutti detenuti in carcere, non possono certo essere a zonzo per la città e salutarmi. Sarà la stanchezza per la salita stile “montagna del diavolo” di Fantozziana memoria, per quei primi, maledetti, 500 mt che da fuori l’hotel, ci conducono su questa strada, unica parte in piano (in realtà anche qui è un continuo sali-scendi, ma rispetto al resto della viabilità cittadina, questa zona è sicuramente la meno peggio), a farmi avere allucinazioni uditive. “Alberto, ça va?” cacchio no, è vero, è un ragazzo in sella al suo moto taxi, con un mega, bianchissimo sorriso, ad insistere nel volermi salutare. Guardo bene, attraverso la strada…Leonard!!! Fantastico. Un nostro vecchio allenatore, che ha fatto con noi almeno cinque formazioni, l’ultima a Limbè, uno dei migliori, o meglio, uno di quelli che col tempo, con la pratica, l’impegno, la passione, è diventato sempre più bravo, fino a riuscire ad ottenere un lavoro proprio come allenatore per una squadra di liga 1, qui in Camerun. Che bello! Che piacere mi ha fatto vederlo. E che strana sensazione venire riconosciuto, venir salutata a migliaia di km da casa. Grande Leonard, mi hai fatto proprio un bel regalo.
Questo accadeva ieri sera, oggi invece è stata la volta di incontrare un nostro bimbo di Mbalmayo, un ex inter campista, oggi rinchiuso in carcere! Cazzarola, non è proprio una bella pubblicità per il nostro progetto educativo, ma sono talmente tante le variabili impazzite che vanno a condizionare la vita dei nostri bimbi in giro per il mondo, che, ahimè, anche questo può accadere. Niente di grave sulle sue spalle: è accusato di aver rubato non ho ben capito cosa, ma niente di più. Be’, certo, un ragazzino di 16 anni che ruba non è proprio una bella cosa, ma qui dentro potevo aspettarmi di peggio. Anche se, effettivamente, come lui altri ragazzini con cui ho parlato e che mi hanno oggi raccontato parte della loro storia, sono qui per gli stessi motivi: il primo, dentro da due mesi, in attesa di processo, è accusato di aver rubato un lap top in un negozio e di essere stato immediatamente “beccato” e messo in prigione; da come mi racconta l’evento, pur professandosi innocente, mi sembra colpevole: abbassa gli occhi quando gli chiedo se è vera l’accusa, ride e gioca con le sue mani. Mi sbaglierò, però…L’altro, invece, è stato accusato dalla sua maestra di aver rubato dei banchi a scuola! SI, dei banchi! Perché? Per venderne il legno, ecco perché. Lui è qui da un mese, anch’egli in attesa di processo, anche se ha chiesto la libertà condizionata e sta aspettando una risposta. In carcere. A stretto contatto con banditi veri (uno dei nostri, di quelli che potrebbe allenarlo dal mese prossimo ha rubato in banca, perché l’esercito per cui lavorava, non lo pagava…5 anni di condanna! ‘Azz), assassini, ladri, truffatori, qui con lui, giovane di 16 anni, ancora in piena “formazione”, ancora “recuperabile”. Siamo sicuri sia giusto riservare questo trattamento a questi adolescenti? Non è così facendo li si manda a scuola di crimine? Certo, van puniti, hanno sbagliato, se hanno sbagliato, ma “gettandoli” nella stessa gabbia di altri furfanti patentati, non rischiamo di farne degli ottimi allievi e poi dei perfetti delinquenti? In più alcuni sono in fuga dalla guerra centroafricana o dai terribili assalti di Boko Haram nel nord (uno dei nostri mi ha detto che una volta che tornerà libero rientrerà in Nigeria, da dove è fuggito, appunto per le tensioni legate al gruppo terroristico), quindi…non c’è un sistema migliore per provare ad aiutarli? certo, in carcere hanno da mangiare e un posto, anche se stretto e puzzolente, per dormire, quindi per loro stessa ammissione, non è poi così male, ma, caspita, a sedici anni. Mah…

mercoledì 10 febbraio 2016

In campo...in carcere!

PRISON DE BAFOUSAM, GIORNO 1

La sveglia suona insistentemente, ma impiego un bel po’ di tempo prima di rendermi conto che questo fastidioso suono non è la colonna sonora del mio sogno (in cui vi erano protagonisti Ludovico, mio giocatore del 2000, Lore e Gabri, ma non chiedetemi perché e in che modo, perché non lo ricordo), bensì il segnale che da’ inizio a un nuovo, impegnativo ed entusiasmante giorno. E allora via, giù dal letto, elastico in mano e diamo inizio al risveglio muscolare con il solito circuito per petto, bicipiti, tricipiti, dorso e spalle, più lo specifico per gli addominali: giuro, non conosco modo migliore per iniziare la giornata, se non una corsa, ma quella viene, come ieri, a fine giornata (ieri 6 km liberi, in ripresa, dopo il doppio viaggio, nel saliscendi estremamente polveroso di Baffousam…sto ancora sputando sabbia, cazzo!!!).Posato l’elastico, giusto il tempo di far colazione e in breve eccoci in macchina, direzione prigione; non nascondo che sono un po’ emozionato, se non quasi spaventato: entrare in carcere e avere come allievi prima e come giocatori poi persone, uomini e donne, ragazzi, che in un modo o nell’altro hanno commesso qualche reato, di qualsiasi genere sia, un po’ attiva la parte bacchettona, moralista, del mio cervello. In più l’ambiente “estremo” entro il quale dar forma al nostro intervento…be’, non so voi, ma io qualche pensiero me lo sono fatto! Pensiero che però, una volta superati i “controlli” (ieri in due ci hanno scortato, uno davanti e uno dietro, attraverso le varie sezioni del carcere, oggi invece ci hanno abbandonato a noi stessi, hanno aperto i vari cancelli e…via, dentro, carne da macello, nella gabbia delle tigri. Non oso immaginare domani!!!) ed entrati nello spazio adibito ad aula, svaniscono, per lasciar spazio a cose molto più utili e necessarie per oggi, ossia i temi da affrontare, la concentrazione sull'argomento e la volontà di fare il massimo per riuscire a trasmettere qualcosa ai “miei” alunni. La particolarità di questa formazione, oltre all’ambiente e ai fruitori, è sicuramente l’obiettivo finale: se normalmente formiamo allenatori con lo scopo di migliorare il loro approccio al bambino e alla sua educazione attraverso l’allenamento, questa volta abbiamo a che fare con gente che ha essa stessa bisogno di aiuto, di qualcosa di nuovo in cui credere, di qualcosa che gli aiuti a trovare una nuova via per riabilitarsi e reinserirsi in società, chissà, magari proprio re-inventandosi educatori sportivi. Chissà…E non è propriamente un semplice obiettivo. Ma si può fare.Rompo subito il ghiaccio, inizio a muovermi tra loro facendo domande, coinvolgendoli nella lezione, evitando di pormi come il “professore” sofista, che versa il sapere nelle loro menti vuote e questo nuovo, rivoluzionario per loro (abituati, in tutti i campi, a relazioni padrone-inferiore, il superiore che comanda e l’altro che esegue, senza fiatare e rispettando, ossequiando il capo, professore, allenatore di turno) modo coglie nel segno, dando a tutti modo di aprirsi, parlare, chiedere, partecipare. Le tre ore, così facendo, volano e arriviamo velocemente alla parte pratica, l’allenamento. E qui viene il bello: in undici anni di Inter Campus, in undici anni di campi impensabili, materiale scadente, numeri di giocatori impressionanti, mai avevo vissuto una situazione paragonabile a quella di oggi! 30 ragazzi, dai 12 ai 17 anni, in carcere perché “ragazzi di strada”, quindi ladruncoli, piccoli truffatori, giovani poco, se non per nulla, istruiti, con un esagerata energia da sfogare e uno spazio in cemento di circa otto metri per venti a disposizione! Un buco, un’arena!. Un buco tra l’altro pericolosissimo, perché circondato dalle mura degli edifici delle varie sezioni e con un canale di scolo su un lato lungo e come se non bastasse, ulteriormente ristretto dalla presenza di un numero imprecisato di incuriositi inquilini della prigione, oggi distratti dalla presenza di questi bianchi e dei loro palloni. Insomma, un gran casino, non c’è altro modo per descrivere la situazione pomeridiana, dalla quale ne usciamo però piuttosto bene: introduzione ludico-motoria, sfruttando tutto lo spazio a disposizione, inserimento dell’attrezzo mantenendo la stessa struttura di esercitazione e progredendo con le varianti e torneo finale, dividendo il gruppo in mini squadre da tre, quattro giocatori, per mini partite di cinque minuti. Il risultato pare positivo: i ragazzi ridono, corrono, sudano, si spingono, calciano, si divertono, esultano e si stringono tra loro per esultare. Insomma, giocano, fanno sport, sono entrati nel mondo Inter Campus! Ma che fatica. E quando poi, uscendo, Francis ci racconta che tra gli incuriositi spettatori vi era anche un uomo condannato per quindici omicidi e per il conseguente traffico di organi messo in atto, mi rendo conto una volta di più che ciò che stiamo realizzando sfiora la follia. Solo l’Inter poteva fare una cosa del genere. Amala!

martedì 9 febbraio 2016

In prigione

Ma com’è questa prigione? Perché la definisco buco sovraffollato? Dove stanno, come sono organizzati i detenuti? 
Proverò a raccontare, a descrivere, il nostro nuovo “terreno di gioco”, anche se, ripeto, il sovraffollamento di pensieri ed emozioni, ha reso difficile la registrazione della realtà e il mio tentativo di fissarlo su carta sarà arduo.
Quando ci hanno aperto il primo cancello siamo entrati in una grande stanza, piena di una trentina tra ragazzi e ragazzi, intenti a parlare, urlare, ridere; chi seduto, chi in piedi, incuriositi e divertiti dalla nostra presenza ci guardavano e cercavano in qualunque modo di attirare la nostra attenzione, chiamandoci, chiedendoci la maglia, le scarpe, l'orologio; attraversiamo la stanza e passiamo attraverso un altro cancello, che ci conduce in un corridoio all’aperto, che sfocia in un cortile, anch’esso aperto, grande più o meno come un campo a sette, occupato da panche di legno, tende, negozietti di vario genere e gente da tutte le parti (negozietti, si, bancarelle, piene di frutta, schifezze fritte, pesce...un souq, un vero e proprio souq in prigione); sulla sinistra il barbiere, davanti a noi la “chiesa” protestante, il negozio di sartoria, la lavanderia e poi chi cucina una pannocchia, chi tosta le arachidi, chi vende biscotti secchi, chi bibite. Una strada di villaggio col suo mercato, ecco cosa mi è sembrato: mancavano solo i moto taxi e poi poteva tranquillamente essere una qualsiasi strada di una qualsiasi città, la’ fuori. In fondo a questo cortile un piccolo corridoio, superato il quale, sulla destra, un altro cancello porta al quartiere dei minori, ossia il settore dei ragazzi detenuti. Ladruncoli di strada, piccoli truffatori, bambini fuggiti dal nord, terrorizzato da Boko Haram, o dalle follie della guerra centroafricana; dodicenni, quindicenni, tutti insieme, tutti costretti in questo spazio all’aperto durante il giorno, grande come un campo da calcetto, e rinchiusi dalle 16:30 in 25 per prigione. Loro, da domani, saranno i nostri giocatori…bon chance.

Appena oltre il quartiere dei minori, il settore “dei cattivi”, il sud africa, come lo chiamano qui dentro: l’ala del carcere dove sono detenuti coloro che sono accusati di colpe gravi, che vanno ben oltre il furto di strada o la detenzione di un qualche quantitativo di droga. Lo spazio qui è ancora più piccolo e la gente che lo popola è ancora di più; c’è fumo, perché sono sparsi qui e la fuochi di barbecue che cuociono ogni cosa commestibile transiti da quelle parti, e in fondo c’è uno spazio “ospedale” per i malati di scabbia…madonnina, ci mancava questa. Un nell’ambientino, non c’è che dire. Belle idee che ti vengono a volte, Be.

lunedì 8 febbraio 2016

A Baffousam

ANCORE BAFFOUSAM
Il Camerun è l’unico dei “miei” Paesi Inter Campus dove non ho mai saltato una missione da quando, nel marzo del 2006, vi misi piede per la prima volta, quindi, facendo due rapidi e semplici calcoli, vista la mia scadente familiarità con numeri e operazioni varie, posso dire che questa è la mia diciottesima visita alla terra dei leoni; eppure mai avevo vissuto un’esperienza come quella che mi sto accingendo a vivere. Ne’ qui, ne’ altrove, a volerla dire proprio tutta. Già, perché mai avevamo messo in piedi un progetto in carcere e mai avevamo pensato di coinvolgere i detenuti adulti per renderli allenatori dei carcerati più giovani e dare forma così ad una nuova, innovativa, cellula di Inter Campus. E così, quando oggi pomeriggio, dopo le 4 ore di auto che da Yaoundé ci hanno condotto nella terza città più popolosa del Camerun, Baffousam appunto, siamo entrati nella prison principal de la citè, e mi sono reso conto che quella folla idea condivisa con Francis a Luglio stava divenendo realtà, la mia mente si è improvvisamene sovraffollata di pensieri, il mio “quartier generale” è stato co-condotto contemporaneamente da tutte le sensazioni in esso presenti: la verde ed energica Gioia, la blu e cicciotta Tristezza, la altrettanto verde e brillante Disgusto, il rosso e irascibile Rabbia e il viola e timoroso Paura. Tutte insieme a tirar leve, schiacciar bottoni, generando in me un mix di emozioni e pensieri che ancora mi scombussola (Inside Out è un film geniale; le sensazioni sopra citate sono i personaggi di quel film, per chi tra voi, venti lettori, non avesse colto la dotta citazione). Il pensiero poi che il settanta percento dei detenuti è ancora in attesa di processo, quindi potenzialmente innocente, eppure costretto a marcire in questo buco sovraffollato, non ha fatto che aumentare ancora il mio scombussolamento emotivo, accendendo però contemporaneamente la mia determinazione nel voler, da domani, provare a far qualcosa di buono anche qui dentro, provare a portare la magica sfera di cuoio anche tra queste quattro, fatiscenti, luride, mura. Certo, non sarà per nulla facile fare lezione a trentatré carcerati di vario genere, tra cui otto donne, così come sarà durissimo riuscire a organizzare allenamenti coi 34 ragazzi nello spazio a nostra disposizione, ma…ehi, siamo Inter Campus. Sfida raccolta, domani ci si metterà in gioco e si vedrà.

domenica 7 febbraio 2016

Ancore Camerun

Camerun 2016
Quando l’aereo tocca non senza violenza terra, dopo le 9, canoniche, ore di viaggio, la sensazione che provo è identica a quella che vivo ogni volta che rientro da una missione: un misto di eccitazione e gioia per essere tornato, una tranquillità, sorta di pace, che riemerge in tutti noi quando ci sentiamo a casa, al sicuro, sul nostro terreno di gioco. Eccomi qui, Yaoundé! Fuori dall’aereo nulla è cambiato, nulla cambia mai: le solite scale che scendono, la solita disordinata fila per farsi prendere la temperatura corporea con un non ben identificato termometro a distanza, che sembra più che altro una macchina fotografica, il solito finto controllo del libretto delle vaccinazioni e il solito, eterno, controllo passaporti, prima della vera bolgia infernale, il ritiro bagagli. Qui qualcosa è cambiato, anche se in peggio: la confusione è aumentata, la calca di gente attorno al nastro sembra quella assiepata fuori i cancelli di san siro prima del derby (maledetto, maledettissimo derby…), con lo stesso vigore nello spingere e nel cercare di farsi largo, sperando così di arrivare fino alla lingua nera trasportatrice e magari riuscire a toccare con la mano una qualsiasi borsa, sperando cosi di riuscire a riconoscere la propria e strapparla al disordine per poter finalmente uscire. Questa volta però l’impresa appare più ardua, perché l’aereo ha sputato fuori tantissima gente e i loro bagagli si accalcano l’uno sull’altro al punto da bloccare il nastro trasportatore, costringendo più volte gente dell’aeroporto, forse dell'aeroporto, ad arrampicarsi su di esso per liberarlo e far riprendere il tour delle valige. Ci dividiamo i compiti: Max di guardia ai bagagli a mano e io e Andre a caccia del resto, tra braccia nerissime e afrore opprimente che invade tutta la sala; la battaglia, fortunatamente, si risolve in poco più di un’ora e ci permette così di uscire da quel girone dantesco per…entrare in quello seguente: il parcheggio. “monsieur, monsieur…” da tutte le parti, “taxi…change…pour la citè…” e altre offerte di ogni tipo. “No, merci. On attende un ami” continuo a ripetere come un disco rotto, senza però scoraggiarli. Ci seguono, come fanno sempre, come fanno da sempre, sperando di ottenere cosi qualcosa, fino a quando…ecco Francis! In uno splendido bubu bianco, ecco venirci incontro il mitico Francis ed ecco allontanarsi i vari procacciatori di affari.Col suo luminoso sorriso ci accoglie come tutte le volte, accompagnandoci a casa sua dove, come tradizione vuole, ceniamo tutti insieme a suon di poullet dg e ananas e con le mitiche cacaouttee, vera droga personale!Eccoci a casa, seppur a migliaia di km di distanza. Via, si dia inizio ad un’altra missione in Camerun!