domenica 31 dicembre 2017

In Base

LA BASE
Muri grigi più bassi di quelli che mi immaginavo poco fa, quando Juri mi ha chiesto cosa pensavo di trovare, blocchi di cemento, pile di gomme bianche e rosse, filo spinato da tutte le parti e torrette a circondare il perimetro: ecco il benvenuto riservatoci all’arrivo alla base. Mi immaginavo una situazione simile, ma esserci dentro mi fa un certo effetto. Come mi fa effetto essere scortato in ogni mio movimento da due Lince con tanto di soldato in torretta armato di mitragliatrice, uno davanti e uno dietro, e da vari soldati armati come se dovessimo assaltare chissà quale rifugio di combattenti. Questo effetto diventa poi rottura di c…o quando durante il briefing “di benvenuto” in cui mi spiegano cosa succede in caso di attacco alla base e cosa devo fare (tranquillo, sono tranquillissimo) per salvarmi le chiappe, mi dicono anche che non posso correre da solo. Ho bisogno della scorta. E che palle!!! Volendo andare domani molto presto, visto che poi abbiamo attività alla scuola, non mi va proprio di costringere qualcuno alla sveglia anticipata per venire a correre con me, ma appena chiedo se posso correre la mattina, scatta subito “l’operazione scorta maratoneta” e ci affibbiano un cinquantenne attivissimo, che, per lo meno all’apparenza, si dice contento del compito che gli è stato dato. Contento tu…”Ok, ragazzi, domani mattina ore 6:30 pronti a muovere”, ci dice salutandoci. Non sbatto i tacchi, salutandolo con la mano destra sulla fronte, per non rischiare di essere preso per “blasfemo”, però il suo modo di congedarmi mi “carica” come direbbe Lorenzo. Via allora, in branda, domani la sveglia sarà peggio di quella milanese. 

domenica 24 dicembre 2017

In Libano per la prima volta

LIBANO, finalmente Libano


Dopo tanti viaggi, dopo tanti anni, finalmente riesco a mettere piede anche qui, in Libano. Finalmente. L’ultima volta che avrei dovuto venire, pochi giorni prima della partenza, mi sono stampato in moto, quindi son stato costretto a rimandare il tutto a data da destinarsi, che tra un viaggio e l’altro sembrava non arrivare mai, fino ad oggi. E sono contento. Uno degli obiettivi che mi sono dato quando sono diventato responsabile tecnico del progetto era visitare tutti i progetti nel mondo e dedicarmi a tutti quelli ritenuti più critici, per indicare ai mister la strada da seguire e poter svolgere così a pieno titolo il mio ruolo. Ora mancano Cambogia e Russia al mio risiko nero azzurro, poi avrò calcato tutti i campi del mondo che conta per me. Fino a nuove aperture. E per tutti mi son fatto una idea, su tutti ho una “road map”, esclusi i due che ancora mi mancano, per cui…bravo, il primo obiettivo è stato raggiunto. Sotto con tutti gli altri. 
Il viaggio aereo è stato facile e breve, solo tre ore e cinquanta, ma il bello mi attendeva a Beirut: usciti dall’aeroporto il nostro partner si è fatto facilmente riconoscere, mostrandoci i mezzi con cui è venuto a prenderci: due Lince a fare da scorta, mezzi corazzati con tanto di torretta e postazione mitragliatore sul tetto, uno davanti e uno dietro, un furgone centrale dove saliamo noi e una camionetta dell’esercito libanese davanti a sirene spiegate. Già, perché da queste parti il nostro partner sono i caschi blu dell’ONU, o meglio i soldati italiani dell’ UNIFIL, impegnati dai tempi dell’ultima guerra in Libano, 2006, a fare da mediatori nella difficile situazione tra il paese che ora ci sta ospitando e Israele. E con loro le procedure sono…militari, per cui GAP (giubbotto antiproiettile che “nudo”, ossia senza i vari caricatori che mettono loro, pesa circa 10 kg e che con i vari optional arriva  a oltre 15kg…da indossare per muoversi. Mica male) da indossare prima di partire e elmetto, che però loro stessi mi dicono di non indossare (“ma tu di che l’hai indossato, se te lo chiedono”), in dotazione, per quasi tutto il tragitto che ci separa dalla base UNIFIL di Shama, dove staremo per i prossimi giorni. È la prima volta che lavoro con militari, è la prima volta che entro così direttamente in questo mondo e sono curioso di conoscere meglio i ragazzi che lo definiscono, i ragazzi che rappresentano l’Italia in queste zone di tensione, i ragazzi che decidono di arruolarsi e di vivere una vita così intensa, almeno per quel che mi immagino io, e così diversa. Quando poi ho saputo che insieme ai “nostri” del CIMIC, alla base ci sarà un battaglione della folgore, la mia curiosità è cresciuta esponenzialmente! Via allora, che inizi anche questa esperienza.

mercoledì 6 dicembre 2017

Qualche foto


Sfilata di auto "moderne"


Il sacro ed il profano nella pozza (edificio ambasciata russa e chiesa)


L'aereo a pedali


Saggezza di regime


martedì 5 dicembre 2017

Ricomincio da capo

SEMPRE LA STESSA STORIA…ANCHE QUI!
Quando sbarco su quest'isola mi sembra sempre di essere entrato a far parte del cast di una nuova, scadente versione di quel film degli anni '90con Bil Murray in cui il protagonista rivive quotidianamente il giorno della marmotta! 

È la quarta volta questa che vengo a Holguin; è la quarta volta questa che mi avventuro verso l’aeroporto dei voli interni, quello “nacional de l’havana” per prendere un cacchio di aereo che risale ai tempi della madre russia (un antonov a elica tenuto insieme non si sa bene da quali viti eterne); è la quarta volta che il volo in un modo o nell’altro è in ritardo (senza contare quella volta che nemmeno partì e ci costrinse a tornare in Italia); è la quarta volta, ma non ne voglio più sapere! Basta. Sempre la stessa storia. E la cosa che più mi fa imbestialire è che nessuno ti dice nulla, nessuno sa nulla, tutto sembra rientrare nella norma: un’ora di ritardo, un’ora e mezza, alla fine due ore e dieci di ritardo, poi finalmente ci imbarchiamo. Ma sembriamo noi tre gli unici ad avere una percezione reale del tempo: per gli altri è come se si stesse partendo in orario, tutto normale, pacifici, serafici, lenti come solo loro sanno essere, ridendo, parlando e scherzando danno forma all’ennesima fila della loro giornata, aspettando di salire sul trabiccolo volante. Quando finalmente si decolla le nuvole intorno a noi ci fanno subito capire che non sarà un volo semplice: sul triciclo ad elica di fabbricazione russa le turbolenze sono fortissime e più di una volta mi ritrovo a serrare con entrambe le mani i braccioli rosicchiati del sedile sfondato sul quale siedo (giuro, non sto esagerando: il sedile è davvero sfondato e si sentono le barre di ferro, scheletro un tempo ricoperto, sulla schiena), sperando di toccar terra al più presto. Lo shakeraggio per fortuna si conclude dopo poco più di due ore e una volta atterrati il buon Castro, referente del progetto in Oriente, ci accompagna in hotel, al magnifico hotel pernik...madonnina, che scempio. Sempre peggio. Se la menano come se fosse il Melia, quando già alla prima occhiata ci rendiamo conto della decadenza dell'edificio: è evidente che questo doveva essere un fiore all'occhiello del regime nel periodo della grande mamma Russia, ma oggi non è altro che un triste e sbiadito ricordo vivente, più o meno vivente, dei bei tempi che furono: sporco, ultra mega umido, puzzolente (giuro, puzza di spogliatoio la domenica pomeriggio dopo tutte le partite del settore giovanile e quella della prima squadra sotto la pioggia), buio e soprattutto frequentato dai peggiori puttanieri dell'isola (un sacco di crucchi tra loro, non solo i classici italiani) e ovviamente dalle loro "muse". Spettacolo vero. Chiudiamo gli occhi, va, facciam finta di essere con Annina e pensiamo al lavoro che ci attende da domani. Che certo non è poco.

lunedì 4 dicembre 2017

Sempre la stessa storia

SEMPRE LA STESSA STORIA
Rileggendo ciò che ho scritto ieri mi vien da dire che è sempre facile fare il finocchio col culo degli altri, o per adattarlo alla situazione, facile fare il socialista con la vita degli altri. Io bello, bello, nel mio mondo capitalista e “libero”, almeno così sembra, con tutto ciò che voglio, anche di più, a portata di mano, anzi di carta di credito, vengo qui a dispiacermi per il crollo della grande illusione cubana e l’apertura al mercato mondiale dell’isola con il suo conseguente totale adeguamento al…mondo la fuori, senza però aver mai vissuto sulla mia pelle “CUBA” nel vero senso della parola, il leader maximo e il sua reale governo dell’isola, la limitazione della libertà personale nel nome del bene comune in pratica, in grado di definire il mio sviluppo, il mio futuro, la mia crescita. Insomma, ho lanciato, scritto, proclami basandomi solo su ideali, sensazioni, pensieri e speranze, che però non derivano da esperienze dirette, da vita vissuta, perché quando poi sbatto il muso con una parte di realtà cubana, quella con cui entro in contatto io tutte le volte che torno qui, con alcune sue caratteristiche che condizionano fortemente il mio lavoro su questi campi del mondo, mi incazzo. Eccome se mi incazzo! E provo in tutti i modi a cambiare ciò che non mi piace, per renderlo più simile a ciò che credo sia meglio che è anche ciò che è tanto lontano dal loro modo di fare e di essere. Un esempio? Gli allenatori di questi campi del mondo devono attenersi rigidamente a ciò che il ministero dello sport dice loro di fare sul campo attraverso un manuale sempre uguale da trent’anni, che indica le linee guida, il metodo di lavoro da applicare per dar forma agli allenamenti e nessuno di loro può pensare di cambiare le cose: delegati della federazione del calcio girano fra i centri sportivi, osservano gli allenamenti e valutano i vari mister all’opera, sulla base delle vittorie in campionato e delle loro "proposte" sul campo, quanto queste seguono il “programa integral de preparacion del futbolista”, quindi quanto queste sono “confermi e fedeli” al metodo cubano. Chi è fedele rimane al suo posto, i “ribelli” vengono corretti e nei casi più estremi rimossi. Per cui il nostro metodo di lavoro che da tanti anni cerchiamo di applicare è già in partenza sconfitto , è già in partenza bandito dal vecchio dinosauro ministeriale, perché i nostri ragazzi, per quanto interessati, desiderosi di applicare i nostri suggerimenti, sono impossibilitati dal farlo, soprattutto se non vincono i tornei. E io mi incazzo! Per forza, perché le proposte sono noiose, per nulla divertenti, inadeguate e lontane anni luce da ciò che Inter campus propone e suggerisce e i bambini sono molto più contenti di giocare con noi, piuttosto che rimanere sotto le grinfie del dinosauro, ma…non si può cambiare. Non ci si può aprire. Nessuno sa meglio di cuba quale sia il bene per cuba. Per cui…sempre la stessa storia.

sabato 2 dicembre 2017

Il capitalismo a Cuba

L’ISOLA DELLE CONTRADDIZIONI
Lo scrivevo giusto ieri: quante contraddizioni porta con se’ questo posto, in particolare questa città. Ma a pensarci bene dovrei probabilmente scrivere portava con se’, perché ormai “l’imperialismo americano” ha vinto, annientando tutti i sogni socialisti con il suo potente e famelico capitalismo ormai dilagante e onnipresente, che giorno dopo giorno prosegue il suo crudele e inesorabile stupro della capitale, aumentando quotidianamente il divario tra chi i soldi li ha e chi i soldi li brama, ma non li ottiene. Un terribile divario. Oggi ne ho avuta l’ennesima dimostrazione: dalla volta scorsa abbiamo deciso di abbandonare la pasteleria francesa per la nostra tradizionale colazione, per affidarci all’hotel telegrafo, dove con 10 cuc, circa 9 euro, abbiamo accesso al buffet del ristorante, evitando i vari italianucoli che popolano il bar sotto i portici vicino al Capitolio e le ore di attesa per ottenere un succo di Guaiaba e un caffè. Piacevole e anche abbastanza dignitoso, con frutta e succhi vari (frutta rinseccolita e succhi allungati, ma...così funziona), rimaniamo soddisfatti dell’hotel e per pura curiosità (pura curiosità, perché la casa particular dove siamo, ospiti di Gustavo, è un po’ casa nostra ormai, col nostro letto e le nostre routine) chiediamo il prezzo per una notte in una doppia…il ragazzo della reception mette subito avanti le mani “come cubano mi vergogno di questo prezzo. Non siamo noi a deciderlo, sono i padroni, che non sono cubani”. Quindi, “quanto?”, chiediamo. 420€ a notte! What??? L’hotel telegrafo? E il "central" quanto costerà mai, allora? E il nuovissimo Manzana, allora? Semplice, dai 400 ai 700 euro a notte!!! Incredibile. O meglio, normale, normalissimo: anche a New York gli hotel costano uno sproposito insensato, anche quelli di bassissima qualità, però qui a me fa più effetto sbattere il muso contro questa realtà delle cose. Stupido, inutile pensiero il mio, ma…cacchio, questa è l’isola della rivoluzione impossibile, messa in piedi e realizzata da pochissimi, contro tanti, tantissimi, mossi da un ideale altissimo, da un sogno, da una speranza (certo, che poi si è realizzata a costo di qualcos’altro, però l’ideale era bellissimo); questa è la città dove, quando ancora c’era un controllo del turismo, i pochi che potevano entrare in contatto con gli stranieri e con i loro soldi, ottenendo quindi condizioni economiche privilegiate (basti pensare che un pesos cubano vale 1/25 di dollaro e un turista sgancia mance anche da 5$), avevano creato una cassa di solidarietà in favore dei lavoratori esclusi dall’oro turistico, per condividere fra tutti i loro vantaggi! E ora...e ora sono arrivati gli stranieri, con i loro prezzi e le loro regole di mercato, con i loro "sogni" che si possono comprare e il loro benessere, la loro "libertà" sbattuti in faccia a gente cresciuta in un mondo diametralmente opposto. È così, è il mercato, è il capitalismo e quindi anche qui è iniziata la corsa continua e comune al resto del mondo all’arricchimento, una corsa senza fine, spesso senza vincitori, ma che porta tutti a vendersi, a vendere, pur di avere in tasca il faccione verde di Ulysses Grant o Benjamin Franklin, più ambito . E allora eccoli, per la strada: “taxi”…”chicas”…”cigarros”…di tutto e di più, pur di avere il tuo cuc.

venerdì 1 dicembre 2017

Ritorno a Cuba

RITORNO A CUBA
Il volo scivola via abbastanza tranquillo, nonostante qualche inquietante balletto fra le nuvole: l’upgrade in economy plus ha fatto la differenza e le dieci ore lassù in cielo, seduto comodo in poltrona, con ampio spazio per le mie corte gambe e la possibilità di sdraiarmi quasi a 180 gradi, passano apparentemente più veloci e sicuramente più comodamente. Il non aver fatto fila al controllo passaporti ha reso ancor più incredibilmente fortunata fin qui la lunga trasferta (ricordo delle volte in cui siamo rimasti due ore in fila per entrare nel paese e 40 minuti è sempre stato il minimo indispensabile per farsi mettere il timbro dell’immigrazione), ma la normalità del tempo infinitamente dilatato di Cuba ci attende dietro l’angolo, o più precisamente oltre il controllo al metal detector, ossia al nastro bagagli: un’ora ad osservare valigie sempre diverse passare sotto il nostro naso, in attesa di scorgere la nostra. O meglio, la loro, perché io non cambio la mia strategia e ho sempre con me il mio fedele zaino, bagaglio a mano, appunto per evitare queste attese snervanti dopo viaggi così lunghi. Quando finalmente anche i nostri bagagli arrivano, un’altra coda (questo è il paese delle code, lo dico da sempre) ci attende, quella della dogana: in aereo hanno distribuito solo pochi formulari da compilare e in aeroporto non se ne trovano più, per cui molti viaggiatori appena atterrati ne sono sprovvisti e rimangono fermi in fila in attesa di non si sa bene cosa, visto che senza il foglietto compilato non si esce, impedendoci di uscire. Tra spinte e scavalcamenti vari delle persone ferme, degni solo di noi italiani, con il nostro raro bel formulario in mano dopo altro tempo buttato, eccoci fuori: aria fresca, calda, ma piacevolissima, una splendida luna a forma di sorriso dello stregatto ci danno il benvenuto ancora una volta a l’Havana! Ancora una volta (forse l’ultima per me dopo tanti anni) rieccomi in questo posto che tanto mi affascina e che tante contraddizioni porta con se’, ora più che mai: il sogno socialista, gli slogan per la patria e il pueblo unito da una parte, le orde di turisti armati di dollari e capitalismo dall’altra. Un sogno infranto, una illusione dispersa. 

domenica 29 ottobre 2017

Ancora in campo

Fortunatamente riesco ancora a fermarmi, ad aprire bene gli occhi, a guardarmi intorno per capire bene dove sono e cosa stiamo combinando su questi campi.
Già, fortunatamente, perché a volte preso dai viaggi, dagli allenamenti, dall'organizzazione delle esercitazioni più idonee, più adatte alle esigenze dei bambini, mi perdo sul manto verde tra cinesini e palloni e non alzo gli occhi, non mi rendo conto, non mi ricordo che l'allenamento che propongo è solo un mezzo, è solo uno strumento, una "herramienta" come dicono da queste parti, per arrivare ad altro, per raggiungere altri obiettivi e non mi rendo conto che qui, in questo barrio, riuscire a portare, a tenere i bambini sul rettangolo verde, togliendoli dalla strada e da tutte le sue cattive tentazioni, è un risultato che vale più di una ricezione ben fatta o di una conduzione realizzata con l'arto debole (che comunque sono importanti).
Oggi questi occhi li ho alzati, mi sono guardato intorno e ho visto tutto quello che il calcio sta regalando a questi bambini e, sopratutto, a queste bambine: siamo infatti riuscire a dar forma in maniera definitiva alla prima squadra femminile, riuscendo così a tenerle con noi in campo per tre volte la settimana, in un paese dove le gravidanze giovanili sono all'ordine del giorno, dove a quindici anni si diventa mamme, dove la prima esperienza sessuale avviene sempre prima e si realizza più per adeguamento agli altri, più per essere accettate, che per reale desiderio, reale volontà. E così, alzando gli occhi, ho visto fuori dal nostro campo ragazze sole, quasi mai accompagnate da mariti o fidanzati che siano, con in braccio figli con meno di un anno di età, per mano l'altro, dedite ad osservare l'altra figlia, la maggiore, in campo con noi; ho scoperto bimbe sole, con la mamma in carcere e il padre sconosciuto, correre, calciare, segnare ed esultare serene, realmente felici, pienamente inserite nella loro famiglia acquisita composta dalle compagne e dal mister, per un'ora e mezza lontane dalla loro difficile condizione; ho visto...va be', basta con queste frasi da libro cuore. Ho visto e mi è servito, come sempre mi serve, rendermi conto che il mondo è altro da quello tranquillo e sereno dove vivo io. Ogni tanto è bene tornare a vedere, a toccare realmente con mano, ciò che di grandioso riesce a fare lo sport semplicemente...praticandolo, seguiti, aiutati, da persone competenti e con importanti valori di fondo, quali i nostri Mario, Carlos Mario e Mesa, dimenticando, o provando a farlo, tutti quei sedicenti mister che sbraitano e inseguono risultati, per dirsi capaci e abili e farsi belli davanti "ai colleghi"...praticamente tutti. W il calcio, quello vero.  

sabato 28 ottobre 2017

San Isidro e il suo campetto

Anche qui, a Caracas, ormai è come essere a casa: in hotel è un continuo stringer mani, salutare gente e alcuni tentano anche l'abbraccio, per quanto ormai siamo in confidenza (ma non hanno capito che io gli abbracci non è che li regga molto); il mattino abbiamo il nostro rito della corsa al parco Miranda, esattamente come se fossi a Villasanta col mio parco sotto casa; pomeriggio al primo ritorno al campo di San Isidro è un saluto unico, con i bimbi che ci corrono incontro e i genitori che ci salutano, come fossimo i parenti italiani rientrati da un lungo viaggio di sei mesi. Mi piace un sacco questa atmosfera, questo stato delle cose e mi piace un sacco il progetto su questi campi del mondo: vedo, tocco con mano, il valore di quella palla, di quella maglia e di quello che attraverso i nostri allenatori riusciamo a trasmettere, a "insegnare" a questi bambini, nella loro disperata situazione quotidiana (insegnare non è un termine che mi piace, per questo l'ho messo virgolettato). Non mangiano, nel loro barrio la delinquenza è la normalità, le ragazze a quindici anni diventano mamme, il tasso di mortalità tra queste baracche è altissimo, eppure sul campetto a cinque di erba sintetica (una moquette verde stesa sopra un fondo di cemento) i nostri bimbi non mancano mai e anno dopo anno, visita dopo visita, stiamo assistendo alla loro costante crescita, al loro costante miglioramento. E non sto parlando di miglioramento tecnico, per lo meno non solo: nei gruppi non abbiamo assistito ad alcun conflitto (all'ordine del giorno fino a un anno fa) nel corso della seduta gestita da Carlos Mario, tutti ascoltavano il mister in ordine, con attenzione, senza parlare tra loro, ridere, urlare senza motivo, come invece accadeva anche l'ultima volta, tra loro è emerso rispetto e cooperazione reciproca, l'uno aiutava l'altro, aspetto questo nemmeno contemplato la prima volta che siamo venuti qui. Insomma, nonostante tutto il casino la fuori, in campo Inter Campus sta facendo un gran lavoro e i frutti sono sotto gli occhi di tutti noi. Avanti così!!!

venerdì 27 ottobre 2017

Il jet leg è una ca..ata

CARACAS
Quando sali in aereo e ti cambiano il posto per regalarti un upgrade, capisci subito che la missione, che già è una di quelle che preferisco, parte nel miglior modo possibile. Sedermi quindi comodo al mio posto, ma soprattutto riuscire a sdraiarmi quasi a 180 gradi, è un regalo inaspettato che celebro al meglio: crollo secco per cinque ore filate tra le braccia di Morfeo, sogni inclusi, dimezzando cosi il tempo di viaggio che separa Parigi da Caracas e arrivo nella capitale venezuelana piuttosto tranquillo, senza grossi acciacchi dovuti alla sveglia o al lungo volo. Accolto all’arrivo dall’immancabile Mesa e da un caldo-umido degno di Douala, passo il tragitto aeroporto-hotel con il naso fisso fuori dal finestrino, cercando di cogliere da ciò che questa immensa e incasinatissima città mi presenta, gli eventuali cambiamenti, gli sperati miglioramenti, che però non sembrano palesarsi, anzi: mi sembra tutto più fatiscente e sporco del solito e seppur anche tutto molto più calmo, piatto, non colgo grossi segni di crescita. Parlando col nostro “profe” ho la conferma delle mie impressioni: altro che migliorare, qui le cose peggiorano di giorno in giorno. L’inflazione continua a crescere e a strozzare la “nostra gente”,quella del barrio san isidro, che si ritrova senza possibilità economica di comprare cibo, tanto che ci sono bambini che saltano gli allenamenti perché non riescono a mangiare nel corso della giornata! Incredibile. Solo in Congo avevo toccato con mano situazioni simili e ritrovarmi qui, tra grattacieli e macchine di lusso, a fronteggiare gli stessi problemi mi sembra assurdo, seppur sia facile trovare una sottile linea di congiunzione tra i due paesi:  entrambi sono potenzialmente ricchissimi, uno grazie a riserve immense di petrolio, l’altro grazie a minerali di ogni tipo, ma entrambi regalano queste ricchezze a pochi, pochissimi, tenendo alla fame il resto del popolo e costringendolo in una sorta di dittatura. Alla fine tutto il mondo è paese…
Scorre veloce la strada fuori dal finestrino e in meno di un’ora dal “basso” de la guaira, dove si trova l’aeroporto, arriviamo ai quasi 900 metri dell’hotel Pestana. Check in, allenamento, cena e…poco prima delle 21 sono in branda, confermando ancora una volta a me stesso che il jet leg è una cazzata dell’uomo bianco: secco, crollo nel letto in tre secondo netti e fino alle 7 passate del giorno dopo non apro un solo occhio, per svegliarmi quindi riposato e rilassato, pronto per la 12km in programma oggi, prima del corso e degli allenamenti. Vamos profe, vamos a trottar!

venerdì 20 ottobre 2017

Security control

Madonnina come odio questi controlli! Sono otto anni consecutivi che due volte all'anno metto piede in questo Paese e sono quindi 16 volte che tra andata e ritorno, in aeroporto, vivo questa esperienza fastidiosa e...che mi fa incazzare!!! Capisco bene le preoccupazioni e i controlli serrati in ingresso, soprattutto se c'è qualche pirla con visto sgradito sul passaporto (ogni riferimento è puramente casuale), ma in uscita??? Che senso ha svuotarmi valige e zaini vari con questa minuzia? Tutte le volte essere processato prima del check in e assistere allo stupro in diretta dello zaino per non so quale timore nei miei confronti (suvvia, sapete bene chi sono e cosa faccio qui; non rappresento certo una minaccia, cacchio) mi manda in bestia. In questa occasione mi ero premunito, per evitare il solito simpatico trattamento, organizzandomi con uno zaino da spedire e non più con il mio solito da cabina (prima volta in 13 anni di Inter Campus che spedisco la valigia), ma, ahimè, anche questo stratagemma non è servito. Anche questa volta domande su domande e la fila di sinistra! Che cos'è la fila di sinistra? È quella che ti fa buttar via per lo meno 90 minuti, quella che ti fa sudare in compagnia di altri derelitti in attesa di essere sospettosamente controllato attraverso tre passaggi (zaino e tasche passate al setaccio con una specie di spazzolino per i denti di un ippopotamo, camminata sotto il metal detector e nuovo controllo con il medesimo spazzolino di zaino, computer, scarpe e oggettistica varia), per poi essere rilasciato da questi ragazzini maleducati. Già, perché ai controlli ci si imbatte sempre in ragazzi e ragazze poco più che ventenni, antipatici e maleducati, mai sorridenti e un minimo accomodanti, pieni di domande sospettose e sguardi infastiditi, che rendono ancora più negativo il tempo trascorso in piedi, in attesa di essere rilasciato. Che palle!!! Davvero, non reggo più questa cacchio di situazione, questo cacchio di trattamento. Quando finalmente riesco a sedermi nella "piazza centrale" circolare dell'aeroporto, in attesa di imbarcarmi al gate, tutte le volte penso di non venir più qui, di lasciare il compito ad uno dei "miei" ragazzi, io ormai ho dato. Poi però, sempre seduto in quella piazza di attesa, ripenso agli allenamenti in west bank, a quel muro e a quei due mondi così distanti, ma tremendamente vicini, se non sovrapposti; penso alle sedute con bambini palestinesi e ebrei nella stessa squadra, al passaggio fatto dall'uno all'altro e al significato, magari illusorio, di quella palla che corre sull'erba sintetica del campo di Beit Safafa calciata da quei piedi così "diversi"; penso alla bellezza mistica e infinita della città di Gerusalemme, al fascino unico del western wall, alla suggestione irraggiungibile della via dolorosa, ai millenni di storia e di religione sui quali cammino ogni volta; penso alla nostra ormai tradizionale corsa intorno alle mura della città vecchia, sfiorando le porte della città per arrivare e correre fin su, sulla salita sfiancante che porta al monte degli ulivi, da dove si gode di una vista unica sulla città, con la sua caratteristica cupola d'oro in bella evidenza, la sua porta d'oro subito sotto (la più antica delle porte della città, unica ad essere murata, chiusa fino al secondo ritorno di Gesù secondo gli uni, o fino alla ricostruzione del tempio, secondo gli altri) e tutti i suoi luoghi sacri a portata d'occhio. E quando penso a queste cose un bel "vaffa..." vola agli addetti della sicurezza, accompagnato da un arrivederci a Marzo. Magari questa volta col passaporto senza visti sgraditi.

giovedì 19 ottobre 2017

lunedì 16 ottobre 2017

Here in west bank

Here in Deir Istia
Mi fa sempre una certa impressione salire in macchina e in poco meno di un’ora ritrovarmi “al di la del muro”, in una realtà così differente da quella quotidiana di tel aviv. In pochi chilometri grattacieli e spiagge lasciano spazio a uliveti (quelli che non son stati abbattuti o occupati, o divisi dalla costruzione del muro) e villaggi con case basse e la moschea centrale, dominante; giusto appena superato uno dei check point che ti portano in west bank, entrati nella zona A, quella parte dei territori palestinesi abitata da soli arabi (diversa dalla zona b, territori palestinesi abitati da entrambi, o dalla zona c, territori palestinesi usati come cuscinetto, cioè dove non si possono costruire insediamenti urbani e che rimangono sostanzialmente disabitati) ti sembra di essere altrove, se non fossero le fabbriche lungo la strada e le targhe per lo più gialle delle macchine che incrociamo a ricordarti di essere ancora in Israele. Più o meno. Il nostro speciale autista di oggi è Buma, un uomo di cui ho già sicuramente parlato, con una vita incredibile alle spalle, ma di cui mi piace ogni tanto scrivere, per ricordare, per lo più a me stesso, che non tutti gli esseri umani sono così schifosamente egoisti e crudeli. Buma è Israeliano, non religioso, e devoto da tempo alla causa palestinese; da quando suo figlio è morto nella guerra dei sei giorni ha deciso di aiutare in tutte le maniere a lui possibili i palestinesi: facendo la spola tra Gaza e gli ospedali del suo paese per far curare bambini che senza di lui sarebbero stati condannati a morte certa in quella che può essere considerata a tutti gli effetti la prigione a cielo aperto più grande del mondo; organizzando pullman per i bambini di alcuni villaggi in west bank, recuperando il permesso per uscire a tutti, per portarli a vedere il mare, distante pochi chilometri da casa loro, ma impossibile da vedere per quasi tutti; accompagnando i “nostri” bambini, come l’ultima volta, a Gerusalemme per il torneo, ma anche per visitare la Moschea della Roccia, terzo luogo sacro per l’Islam. Insomma, il vecchietto ne fa di cose. E dal primo giorno che io e Max l’abbiamo incontrato grazie a Yasha e Jas, ha sposato la causa di Inter Campus e il suo folle progetto, aiutandoci sempre per i permessi e consigliandoci sul da farsi nei non rari momenti di tensione che accompagnano un’idea come la nostra in un Paese così diviso come questo. Durante il percorso verso il nostro campo si lascia andare alle sue classiche peripezie automobilistiche: mentre guida fa altre cinquanta cose, per cui ti ritrovi a zigzagare fra le corsie mentre scorre la sua rubrica magica, picchi la testa sul sedile davanti a te perché, improvvisamente, per rispondere al telefono, frena con violenza, ti trovi fermo in mezzo alla strada con macchine che sfrecciano suonando nervosamente, perchè vuole mostrarti il muro costruito illegalmente su questo, o quel terreno, su questo o quell’oliveto, ti accosti a bordo strada, in una zona dove certamente non potrebbe perché vuol farci vedere l’insediamento sulla collina, che domina il villaggio palestinese, la dove non dovrebbe stare. Tutte le volte essere in macchina con lui è una esperienza unica, sicuramente per tutto ciò che può raccontarti, ma anche per la paura che riesce a farti vivere: anche i tre o quattro rosari in macchina con Buma fanno parte di inter campus Israele/Palestina.

venerdì 13 ottobre 2017

Here in Jerusalem

"Oggi a Gerusalemme con la macchina non potrete certo entrare", ci dicono dopo l'allenamento di Tel Aviv con i "nostri" profughi, insieme ai nostri bimbi ebrei. Perché? Perché c'è una mega manifestazione pro Israele che inonda le strade di gente, provenienti da tutti gli angoli del mondo e per far loro spazio la città santa rimarrà bloccata. Bene. Niente male. Proprio oggi che alle 16 abbiamo allenamento con i bimbi "delle due parti" insieme, riuniti sullo stesso campo dalla forza attrattiva della palla e, of course, della maglia neroazzurra. Che facciamo? La macchina tanto non l'abbiamo, quindi proviamoci: prendiamo un pullman dalla stazione di Tel Aviv e proviamo a vedere se riusciamo ad arrivare in tempo e soprattutto...se riusciamo ad arrivare!
Di corsa, allora, terminata la seduta del mattino (che ha mostrato grandi miglioramenti, per lo meno comportamentali, nei nostri bimbi!), zaino in spalla, prendiamo un primo bus, per poi salire su questo "405", diretto verso Gerusalemme, sperando che sia solo una leggenda quella che ci hanno narrato riguardo al traffico cittadino.
Fuori dal finestrino scorre la città che man mano va diradandosi, lasciando prima spazio agli uliveti e quindi alle grandi colline che ci conducono lassù, in cima, fino agli 800mt di Jerusalem, di Al Quds; un po' di traffico, un po' di confusione, ma riusciamo in poco più di un'ora a giungere a destinazione (un percorso che di solito richiede circa 45 minuti, per cui...ci è andata bene) e a muoverci a piedi nel casino della città, tra le sue millenarie strade, respirando il fascino unico e...mistico di questo posto. La città vecchia però, per il momento, la sfioriamo soltanto: obiettivo di oggi è beit safafa, il "nostro" quartier generale, là dove si trova il nostro campo e dove giocano i nostri bambini, che quando arriviamo in macchina insieme a Ema e Arturo sono già presenti. Per lo meno quelli palestinesi. Gli ebrei arrivano dopo, alla spicciolata, ma arrivano. Anche uno con i payot, la Kippa e i tallit si unisce al gruppo e la cosa non va sottovalutata. Per fortuna è anche abbastanza abile con la palla, per cui dopo un inizio stentato con il gruppo di bambini arabi (che lo guardavano come fosse un marziano e si domandavano chi fosse e perchè fosse li) li conquista e si guadagna la loro attenzione e il loro favore, al punto da essere conteso al momento della formazione delle squadre per la partitella. Che successo. Se si pensa che oltre a lui, altri due nuovi "evidentemente" ebrei si sono uniti al gruppo, direi che la strada è quella giusta, anche se...si può fare di più. Molto di più. 

mercoledì 11 ottobre 2017

Here in tel aviv

Parlando con "occhi" da turista, tra tutte le città del mondo che ho il piacere di visitare, di conoscere grazie a Inter Campus, questa, ossia Tel Aviv, è una di quelle dove mi piace stare di più: le spiagge lunghe, il lungomare ampio dove da sempre ci si allena alla grande, la vita alla sera, le sue mille culture mixate insieme, la millenaria Jaffa lassù, che domina mare e la città nuova...un po' tutto mi piace di questo posto, nonostante normalmente preferisca città storiche, città da visitare, da vedere, da vivere zaino in spalla e sguardo in su, affascinato da questo monumento romano, o da quel palazzo medioevale, che certo qui non posso trovare, eppure...eppure a meno di un'ora c'è Gerusalemme, la più "mistica" città del mondo, per cui anche quella esigenza, quel bisogno turistico di conoscenza, può essere facilmente risolto.
Parlando invece con "occhi" da intercampista, Tel Aviv non vince certo il premio di città Inter Campus perfetta, ma tutte le difficoltà, i problemi, i casini parte quasi fondante di questa realtà, le permettono di salire sul mio personalissimo podio. C'è da lavorare, c'è da lavorare tanto, ogni volta che si torna qui sembra di essere alla prima missione, ma...ce la si farà! Gli allenatori, intanto, stanno crescendo: anno dopo anno sia Ema che Arturo stanno diventando sempre più bravi e capaci di gestire un campo secondo le nostre esigenze, quindi con attenzioni che esulano dal semplice discorso tecnico, tanto che son convinto tante società delle nostre parti si bacerebbero i gomiti se li avessero nei loro staff, e anche a Gerusalemme le nostre due ragazzine Rozy e Beisan stanno mano a mano prendendo forma e imparando a conoscere il mondo dell'allenamento, quindi...quindi, come scrivo sempre, i problemi sono fuori dal campo, a volte sono più grossi del campo stesso, per cui non possiamo far altro che pedalare dentro e fuori quel rettangolo verde e provarci. 

domenica 8 ottobre 2017

Road to Tel Aviv

Certo che però me le vado a cercare! Conoscendo bene i fastidiosi e invadenti controlli della sicurezza dell'aeroporto di Tel Aviv, presentarsi al controllo passaporti per la seconda volta in due anni con fra le pagine un visto di ingresso Iraniano è una mossa da vero pirlone. Oltreche, ovviamente,  una mossa che mi fa perdere un sacco di tempo, ma sopratutto una mossa che mi fa sentire quasi colpevole di chissà quale reato: le continue richieste di chiarimenti, i sospetti, la tensione che creano questi ragazzini che spulciano fra le pagine del passaporto e ti inondano di domande, mi portano tutte le volte ad autoaccusarmi di tutti i delitti irrisolti nel paese dal 2005 ad oggi!!! Che ansia, come direbbe mia nipote Chiara. La procedura è sempre la stessa: occhiata al passaporto, giro fra i visti, occhio che si sgrana quando lo sguardo cade sulle scritte in farsi, passaporto chiuso e riposto sul lato, telefonata e..."puoi seguire il mio collega, mister Alberto?". Ma certo, non aspettavo altro. Stanzina con altre persone,  tutte in attesa di venir chiamate per poter motivare la propria presenza nel Paese e giustificare il loro presunto reato: l'esser stato in un posto a loro non gradito, provenire da un posto a loro non gradito, o semplicemente essere una persona non gradita. La fortuna però questa volta ha deciso di darmi stranamente una mano mandando con me Omer, il nostro allenatore di Tel Aviv, che ha parlato in ebraico al ragazzo che mi ha fermato, spiegando il perché della mia venuta in Israele, spingendo molto sul fatto che fossi un allenatore dell'inter, dopo aver scoperto fosse un amante del calcio e un appassionato di quello italiano. Bellissimo (adesso bellissimo, al momento non lo è stato per niente) quando un altro ragazzone della sicurezza è entrato nella stanzina, mi ha chiamato e Omer, cercando di ottenere una velocizzazione delle procedure, gli ha parlato dicendogli: "lui è l'allenatore dell'Inter"; il bestione mi ha guardato e con tono scocciato si è rivolto al mio buon amico dicendo "lui non è l'allenatore dell' Inter; io so chi è l'allenatore dell'inter". E certo che non lo sono, se no certo non verrei qui ogni sei mesi a farmi trattare come il peggiore dei terroristi di questo folle mondo! Sono un cacchio di intercampista che prova in tutta umiltà a far funzionare questo folle progetto di integrazione tra israeliani e palestinesi attraverso il gioco del calcio, coadiuvato, sostenuto nel suo lavoro da un bel gruppo di altri matti con cui condivido la passione per l'inter e per la causa, ossia i vari Yasha, Ema, Arturo, Cliff, Beisan, Rozy, Ali...una bella banda, dai.
Mossi da compassione, i vari funzionari della sicurezza decidono dopo poco di lasciarmi andare, con il mio bel fogliettino azzurro inserito nel passaporto: ce l'ho fatto, sono dentro. Ora, per lo meno fino a sabato, giorno del ritorno, posso stare tranquillo.

giovedì 28 settembre 2017

Chawama

CHAWAMA
Madonnina che vento! Altro che la “brezzolina” di ieri: oggi in campo a Chawama c’era una bora degna di Trieste, che mi ha fatto, ci ha fatto, mangiare chili di terra, tingendoci volto e gambe del rosso tipico di questi campi. Per me con le lenti a contatto, sai poi che gioia essere avvolto da una folata rossa, nel bel mezzo della dimostrazione dell’esercizio. Tra tosse e occhi chiusi non ho capito più nulla per un paio di minuti. 

Condizioni avverse a parte, anche oggi le cose sui campi congolesi sono andate bene e siamo riusciti a lasciare dei bei contenuti ai nostri vari mister al seguito, Gollum escluso, che poverino è da due giorni che combatte con chissà quale problema allo stomaco. Deve aver infilato il dito nell’anello una volta di troppo e ora è sfinito, senza forza e sofferente. Già perché Charles, questo il suo vero nome (o Smigol?) è uguale al personaggio del famoso libro e ogni volta che lo rivedo non posso non cadere col pensiero su Frodo, Gandalf e tutta la compagnia dell’anello! E non posso non ridere. Va però detto che il nostro omino stregato dall’anello sta, anno dopo anno, diventando un bravo hobbi...no, sbagliato, un bravo allenatore, intendevo. E da queste parti non è mica facile. Rispetto al primo anno, ormai il lontano 2009, sembra un altro quando scende in campo, anche nell’approccio ai bambini. Lui, così come JeanLuc, l’altro allenatore della cellula di Chawama: addirittura sorride quando è in campo! Come mi fanno felice questi traguardi raggiunti: vedere lo stesso mister che a distanza di anni inizia ad accantonare la corsa intorno al campo come forma di riscaldamento, lo stretching di Valcareggi, le esercitazioni noiosamente analitiche incentrate su non si sa bene quale obiettivo, per far spazio a giochi di attivazione ludico-motori, ad esercitazioni per il miglioramento del gesto pertinenti e ben gestite e soprattutto introducono sorrisi, frasi di incoraggiamento, giochi, scherzi e correzioni positive, è una delle cose più belle che mi lascia inter campus. Certo, i bimbi e quello che con la palla nerazzurra riescono a fare, a diventare, sono importanti, ma se non ci fossero questi ragazzi capaci di tenerli legati al campo, educarli attraverso il gioco in posti come questo, Inter campus non avrebbe senso. “Perché, dove sei?” mi si chiederà. Sono fuori dalla città, ormai nella “natura selvaggia”, presso un villaggio costruito ai margini di una strada sconnessa di sabbia e sassi, che fino a poco tempo fa aveva come vicini da una parte truppe ribelli dei mai-mai e dall’altra soldati quasi sempre ubriachi e a caccia di soldi facili, messi li dallo stato per controllare l’accesso alla "ville". Piacevole…e per un bimbo lo è ancora di più: nulla intorno a se, se non la scuola costruita da Alba e gestita dai salesiani; nulla da fare se non passare cinque ore della propria giornata in una classe sovraffollata, con un prof per nulla coinvolgente e nel caldo torrido di questi giorni. Che palle. Meno male che tre giorni alla settimana si gioca, sul campo costruito da Alba, con la maglia nerazzurra e con gli allenatori preparati e capaci di Inter Campus. Meno male che c'è il calcio!

martedì 26 settembre 2017

BUMI ONG

BUMI
Il campo è tipicamente inter campus: leggere pendenza (leggera…), buche, gente che entra ed esce dal nostro spazio di gioco e sabbia, sabbia in abbondanza che il vento di oggi alza e getta nei nostri occhi. Come tanti altri campi del mondo neroazzurro, che certo però non ci porta ad abbassare la qualità delle nostre proposte, che certo non ci distrae dal nostro obiettivo unico e solito: educare i nostri bimbi attraverso l’insegnamento del gioco del calcio e continuare il nostro percorso formativo, dedicato ai mister che ci stanno seguendo giorno dopo giorno, in giro fra le varie cellule di inter campus Lubumbashi. Quando poi al termine della seduta e dopo l’incontro coi mister, Sara, la responsabile della Ong Bumi con cui, attraverso Alba onlus collaboriamo da un anno, ci porta a vedere le case famiglia, la scuola e la fattoria dove vivono i “nostri” bambini, diventa per noi ancora più importante preparare al meglio gli allenatori, affinché siano in grado di offrire l’allenamento più bello mai vissuto prima a tutti loro. Questi bambini se non ci fosse Bumi sarebbero in mezzo ad una strada a vivere e se non ci fosse il calcio sarebbero già diventati abili ladruncoli, allenati a vivere di furti, ruberie ed espedienti di ogni genere. Sara stessa ci conferma che “quattro dei nostri piccoli calciatori mi hanno detto che se non ci fosse stato inter campus sarebbero già scappati e tornati a vivere in strada”. E il calcio è con loro attraverso noi solo da febbraio… Il prossimo passo, ora, sarà quello di trovare un altro allenatore da formare, per affidargli una squadra femminile (visti i problemi legati alla maternità “giovanile” e le ancor più grandi difficoltà di vita delle bimbe) per accompagnare anche loro sui nostri campi e nel loro percorso di sviluppo. Primo passo, questo, perché poi si potrebbero fare altre mille cose: l’ong si prende cura di bambini e bambini di ogni età, da 0 a 18 anni, e per ognuno ha attivo un progetto e per ogni progetto occorrono soldi, che, ahimè e ahiloro, ultimamente latitano. Cacchio! E vedere le casette sovraffollate dove vivono fino a 15 bambini, dai 2,3 anni, fino ai 10,12, seguiti da una “mama” che si occupa di preparare da mangiare, tenere in ordine quello spazio e prendersi cura di loro, sapendo che ne occorrerebbero altre quattro almeno per migliorare le condizioni di vita di tutti, è uno stimolo a cercare soluzioni per aiutarli a realizzare, raggiungere anche questo obiettivo. Come di preciso non so, ma magari attraverso inter campus, seguendo il simbolo inter, qualche sponsor si riuscirà a trovare e…chissà: casette nuove, campi recintati per impedire agli abitanti del quartiere di rubare le verdure che coltivano, inserimento di nuove culture per variare la dieta dei bambini…vediamo. Qualunque cosa può essere utile per provare a dare una speranza, un futuro a questi bambini. Fuor di retorica, assolutamente, ma qui c’è bisogno di aiuto.

lunedì 25 settembre 2017

In viaggio verso Lubumbashi

LUBUMBASHI
Tra tutti i viaggi di Inter campus, questo, per arrivare in Katanga a Lubumbashi, credo sia uno dei peggiori, insieme a quello per la Bolivia: partenza ore 17 da Milano, arrivo ore 21 ad Amsterdam, ripartenza ore 22:15 per Nairobi, dove arriviamo alle 5 del mattino e nella capitale Keniana 5 fottuitissime ore di attesa prima dell’ultimo volo che in tre ore ci deposita nella “ricca” capitale della regione del Katanga, RDC. Ricapitolando, quindi, circa 20 ore da quando abbiamo salutato Milano a quando siamo atterrati in questa parte di mondo, che però se mi metto a contare anche la partenza da casa, diventano 22. E che cacchio! Sembrava non finire mai. Soprattutto l’attesa a Nairobi è stata fisicamente devastante, passata solo grazie al wi-fi gratuito per un’ora che mi ha permesso di chattare con alcuni “miei” allenatori nel mondo e ricevere così aggiornamenti da alcuni “campi del mondo”, se no non mi sarebbe mai passata. Inutile però lamentarsi: questo è l’unico modo per arrivare quaggiù, quindi…va bene così. Arrivati al controllo passaporti l’accoglienza è sempre la stessa: una grande confusione diffusa con gente che spunta in ogni dove chiamandoti, salutandoti, per cercare di offrirsi come portatore per le tue valigie, o per aiutarti a sbrigare le pratiche burocratiche; gente che aumenta di numero una volta entrato nel salone, dove l’unico nastro trasportatore riconsegna i bagagli ai viaggiatori, in mezzo ad un andirivieni continuo di persone con la pettorina giallo fosforescente che entrano ed escono dall’aeroporto come se fossero al supermercato,  alla facciazza dei mille controlli di sicurezza europei. Usciti da questo girone infernale, eccoci in quella che per me è la calma Lubumbashi, lontana anni luce dal caos, dalla confusione, dalla frenesia di Kinshasa, pur parte dello stesso, enorme, stato. Eccoci nuovamente con Alba onlus dai nostri 170 bambini divisi nei cinque centri, Djamajeto, Bakanja, Bumi, Cowama, GoCongo, eccoci di nuovo dai nostri sette misters e sui nostri campi del mondo. Si comincia!

venerdì 15 settembre 2017

sabato 2 settembre 2017

Luanda la doppia

Dobbiamo aver varcato una qualche porta spazio-tempo questa mattina, quando in macchina siamo scesi fin sulla Marginal, abbiamo parcheggiato e abbiamo iniziato a correre: strada pedonale comprensiva di pista ciclabile, palme e praticelli verdi curatissimi, piccoli campi da basket su un lato e mare su quell'altro, edifici risalenti al periodo coloniale ristrutturati, al fianco di grattacieli moderni, altissimi, che nulla hanno da invidiare a quelli di qualsiasi altra capitale del mondo. E soprattutto quattro chilometri quasi di spazio lungo mare ove poter dar fondo a tutta la nostra voglia di correre (oggi era giorno per la dieci chilometri, che se fossimo rimasti a Sao Josè chissà come avremmo potuto completare)! Naaaa, questa non può essere la stessa Luanda dove lavoriamo normalmente, soprattutto non può essere a soli dieci minuti di macchina dalla polvere, dalle discariche fumanti a cielo aperto, dalle baracche in lamiera e le latrine a bordo strada, non può essere così vicina a dove siamo abituati a stare e dove vivono i nostri bimbi e i nostri allenatori. Eppure questi due estremi a stretto, strettissimo contatto sono la realtà e quando si sale alla fortaleza ci si può ancor più render conto di questi due mondi costretti praticamente sullo stesso suolo: salendo sul colle che domina la città, dove sorge il museo delle armi della rivoluzione, e guardando verso la Ilha, la moderna zona ricca, bianca, è infatti spaventoso (si, spaventoso credo sia l'aggettivo corretto) vedere, accorgersi di quanto sia netto il limite tra ricchezza e povertà, tra il mondo dei pochi e quello dei più e di quanto essi siano confinanti. Si distingue infatti nettamente da quassù fin dove sono arrivati i lavori di "abbellimento" della città, fin dove la parte ricca ha letteralmente mangiato, rubato la terra da sotto i piedi alla parte povera: una strada asfaltata nuova, nuovissima, costeggiata dalla spiaggia da un lato e da palazzi e locali moderni dall'altra, termina in un benzinaio, per poi tornare a lasciar spazio alle baracche fatiscenti, ai buchi, alla favela che prima occupava tutto lo spazio che i nostri occhi riescono ad abbracciare. Prima occupavano quello spazio, perché oggi le "case" di quella parte della popolazione che non ha diritto di replica sono state abbattute per far spazio al mondo moderno e ai pochi che possono permettersi di comprar casa in questa città assurdamente cara, costosa, e quelli che erano i suoi abitanti sono stati trasferiti forzatamente fuori, lontano da ciò che era fino a poco tempo prima "casa loro", per essere sistemati in villaggi "fantasma" che ricordano un po' i set cinematografici di cine città. Ricchezza e povertà li sotto, a contatto ancora per poco, perché il progetto in corso prevede l'abbattimento di tutta la favela e l'allontanamento di tutti i suoi abitanti, per completare l'opera iniziata. Anche la zona dove siamo noi subirà nei prossimi anni la stessa sorte: Sambisanga, il "nostro" quartiere, verrà praticamente abbattuto, ripulito e ricostruito con condomini e case con una ampia vista sul mare e sull'enorme porto della città e tutti i suoi abitanti...chissà che fine faranno. Poco cane, come ci si sente impotenti di fronte a tutto questo.

giovedì 31 agosto 2017

Allenarsi a Luanda

Porca paletta, se c'è una cosa che mi fa incacchiare di questa incasinatissima città, una delle tante cose, è l'enorme difficoltà con cui ogni volta dobbiamo fare i conti per trovare uno spazio adeguato per allenarci. Costretti come siamo a rimanere dentro la casa salesiana già quando la situazione "fuori" è normale, è tranquilla, in un periodo come questo, post elezioni, con i risultati che ancora non sono stati ufficializzati e lo storico partito al potere che invece si è già dichiarato vincitore, la possibilità di fare una corsa "oltre il giardino" non ci viene nemmeno negata, semplicemente non è contemplata. Si esce solo per andare nell'altra casa salesiana, quella di Mabubas, dove i nostri 33 allenatori hanno messo in piedi un accampamento e ci aspettano tutti i giorni per il corso mattutino, l'allenamento pomeridiano e la partita serale. Altre occasioni non le abbiamo. Figuriamoci per correre. E allora siamo costretti a girare come criceti in gabbia nel cortile della scuola salesiana, 290 mt il perimetro totale, tra i pilastri dell'edificio, le mura e i campi da futsal e basket! Sembriamo due carcerati, nel cortile della prigione, durante l'ora d'aria: giriamo in tondo come matti per...non sto nemmeno a scrivere per quante volte. Il primo giorno il programma che sto seguendo e che mi porterà alla mezza di monza prevedeva tre km di riscaldamento e una serie di ripetute...ho finito che non ero stanchissimo, ma mi girava la testa!!! Che palle. Mi piacerebbe per il futuro trovare una alternativa, perché così sono veramente a rischio labirintite!
Fortunatamente il divertimento non manca la sera, dopo l'allenamento coi bimbi, quando giochiamo noi a calcio coi mister: lunedì abbiamo fatto le squadre, quattro, e ogni giorno ogni gruppo gioca due partite "di campionato", che si concluderà sabato, per stabilire "i campioni". Bello, bellissimo allenare, ma giocare...vero, son più vicino ai quaranta che ai trenta, dovrei anche smetterla, ma quanto è bello calciare quella palla, smarcarsi, ricevere, dribblare, cercare il compagno, inseguire l'avversario, segnare ed esultare, anche se stai giocando a Mububas, su un campo di cemento, con dei ragazzi con almeno quindici anni in meno, un pallone rotto e rattoppato? Insostituibile. 

mercoledì 30 agosto 2017

Luanda la Intercampista

Cambia, cresce, puzza; fa sparire quartieri, ne fa apparire altri; finge di essere democratica per mezzo di elezioni che non portano alcuna novità e col vecchio presidente che "si fa da parte", per lasciar strada al suo prescelto; si fa bella, moderna e pulita nei quartieri alti, nella Illha, ma rimane il solito girone dantesco in lixeira. Insomma, Luanda rimane Luanda, nonostante tutto, con in più, da otto anni a questa parte, sempre più maglie neroazzurre che girano per Trillho, Palanca, Mota, Sao Paolo, Mabubas, Dondo e Kalulu, le comunità parte del nostro progetto; con in più un sacco di bambini e di giovani, con le relative famiglie indirettamente coinvolte, che crescono con i valori unici del calcio, dello sport, e con quella palla, qui rappezzata alla meglio e il più delle volte sgonfia, da inseguire senza compromessi. Qui forse più che in tutti gli altri "nostri" Paesi sento, vedo, quanto Inter Campus sia unico e incredibilmente forte e necessario per queste comunità, per sostenere, aiutare, i progetti educativi già attivi che i salesiani, nostri partner da queste parti, già da tempo portano avanti tra non poche difficoltà, ma con una determinazione unica e esemplare. Qui mi rendo conto forse più che da ogni altra parte, del valore insostituibile del gioco del calcio, quale mezzo, quale forma di educazione, quale strumento per accompagnare il bambino nel suo percorso, nel suo sviluppo, nella sua marcia per diventare uomo. Non voglio esser retorico, non voglio "darmi aria alle ascelle", come diceva un mio mister intendendo che non voleva darsi delle arie, tutt'altro; mi fermo solo a riflettere, ad osservare quanta forza, quanto utile, se non necessario, possa essere lo sport, se gestito, proposto, nel modo corretto, nel modo più congeniale, più naturale, per i ragazzi. Oggi in campo coi bimbi di 11 e 13 anni con cui abbiamo fatto allenamento sono emerse le difficoltà cognitive di molti, i limiti che i giocatori di questi campi del mondo hanno nel pensare, nel riflettere, nel ragionare, non certo perché hanno deficit di qualche tipo, ma semplicemente perché non sono abituati a farlo, non sono allenati, nemmeno a scuola, dove si trovano in classi super affollate e con professori che più che urlare e farsi pagare dagli studenti stessi per far lezione non fanno e certo non insegnano loro a ragionare. E questo loro scarso allenamento nel pensiero si ripercuote sul loro sviluppo, sulla loro crescita. Partecipando a Inter campus, però, ricevono stimoli che li costringono a pensare, a riflettere, a ragionare e a ricordare, stimoli che certo torneranno loro utili non solo in campo, ma anche, se non sopratutto, fuori da esso, accompagnandoli nella definizione della loro personalità. Parlo, anzi scrivo, di ragionamento perché è il limite più grosso emerso oggi, ma con l'allenamento "giusto" sono anche altri i punti, le aree come diciamo noi, che vengono stimolate e portate al miglioramento, quindi il lavoro che si realizza e che vediamo realizzato qui forse più che da altre parti, è veramente "completo", è veramente...educativo, che porta esiti positivi in una realtà così difficile e per nulla educativa. Bene così, allora, andiamo avanti!

martedì 29 agosto 2017

Luanda la puzzolente

Più la città cresce, cambia, si rimodella anno dopo anno, visita dopo visita, più i "nostri" centri, nei quartieri più poveri e disastrati della città, si riempiono di odori asfissianti, puzze di varia natura e vario genere, che rendono difficile il passaggio, figuriamoci la sosta. Discariche improvvisate a bordo strada colme di sacchetti di plastica, bucce di frutti che macerano sotto il sole cocente, banane marce e ananas smangiucchiati, ferro, legno marcio, pietre, escrementi animali e umani (rientrando dal campo, ieri, da una di queste buche colme di schifezze, si è scorto un bimbo, chiappe all'aria, nell'inconfondibile postura del cacatore...terribile!), tutta roba che viene bagnata dall'umidità della notte e scaldata, asciugata, dai potenti raggi del sole metà equatoriale e metà tropicale (Luanda si trova più o meno a metà strada tra equatore e tropico del Capricorno), con il conseguente sprigionamento di olezzi di difficile descrizione. Non ancora soddisfatti del livello di puzza raggiunto, i locali, costretti a vivere nelle baracche circondate da questi cumuli maleodoranti, guarniscono ulteriormente la già folta raccolta di rifiuti con urina, capace di donare conati di vomito al malcapitato passante. In questo caso il sottoscritto. Terrificante. E a bordo delle strade che percorrono i quartieri, strade di terra, con buchi che sembrano causati da una pioggia improvvisa di asteroidi, scorrono fiumiciattoli di "acqua" nera, nerissima, tanto scura e densa che colora con i suoi schizzi il terreno che la circoscrive, che segna, che marca indelebilmente tutta quella "strada" dove bimbi piccoli che sbucano da ogni baracca di lamiera circostante giocano con pietre, biciclette o palloni improvvisati. Terrificante visione. Quando oggi in mezzo a questo "asilo a cielo aperto" ho incrociato una bimba che sarà stata poco più grande di Anna, sporca di questo terriccio dalla fronte fino ai piedi, con indosso solo un paio di mutande verdi e le mani...lerce, sporche lerce! Assurdo, ingiusto, ma terribilmente reale. Annina, che fortuna che abbiamo.

lunedì 28 agosto 2017

LUANDA LA PROVVISORIA

LUANDA la provvisoria
Dopo la sosta estiva, dopo 30 giorni esatti dall’ultima trasferta intercampista, dopo i bagni a Punta Ala e le camminate sul Catinaccio con Anna sempre più grande e sempre più divertente, eccomi nuovamente in viaggio, destinazione Luanda, Angola. Viaggio notturno che da Amsterdam ci porta piuttosto facilmente nella capitale di questo disastrato Paese, vissuto, per una gran botta di culo, sdraiato sui quattro sedili centrali della cabina, insieme al prof, che per l’occasione decide di buttarsi per terra per dormire, lasciando a me le comodità delle poltroncine. Che figata un viaggio così. Le nove ore di volo in questo modo scivolano via con disinvoltura e al nostro arrivo sono quasi riposato, ma ci pensa subito l’agente della dogana a rovinare le cose: la borsa con i palloni per i vari nuclei non può passare e, compilando scartoffie varie e incomprensibili per diverso tempo, costringendoci ad una sosta forzata, ci fa capire che dobbiamo pagare una tassa di importazione. Fortunatamente la cifra richiesta è abbordabile, 36€, così saldiamo il conto e un’ora e mezza più tardi rispetto al nostro atterraggio riusciamo a metter piede su suolo angolano. La città è già in fermento, nonostante il giorno sia iniziato da poco, e le strade sono, come tradizione vuole, “ingaraffate”, ossia intasate dal traffico; le macchine che zigzano impazzite, cercando e trovando varchi invisibili ad occhi di bianco, ci costringono a procedere lentamente, con prudenza (non c'è più quel matto di Padre Stefano alla guida, quindi si avanza tranquillamente, senza perdere anni di vita ad ogni metro coperto) dandomi così la possibilità di osservare i cambiamenti li fuori, oltre il mio finestrino: strade nuove, ponti, sottopassaggi dove prima non c’era nulla, vie di comunicazione “inventate” dal nulla, che uniscono punti prima distanti della città. I cinesi si stanno dando un gran da fare nel costruire le infrastrutture in questo paese, così come stanno facendo in altri Paesi africani, portando continui cambiamenti al paesaggio. Una volta Max definì Luanda “provvisoria” e le immagini che mi scorrono davanti agli occhi non fanno che confermare questa definizione: ciò che era solo sei mesi fa, non è più e ciò che è ora, non sarà tra poco tempo. Emblematica, per capire quanto sto provando a descrivere, la zona che un tempo era del Roque Santeiro, il grande mercato all’aperto che prima occupava tutta la parte di collina antistante il porto: ogni volta che torniamo cambia, cresce, si modifica. Dopo aver sbaraccato tutte le “bancarelle” e cacciato gli abitanti del mercato (che doveva il suo nome ad una telenovela brasiliana), il terreno è stato spianato, è stata costruita una enorme strada che mese dopo mese si va definendo attraverso marciapiedi che compaiono e rotonde che prendono forma, è stato edificato un sovrappasso che dal porto conduce direttamente verso il centro ed è stato creato un ulteriore collegamento con un'altra importante strada che conduce fuori città.  Insomma, sembra che qualcuno stia giocando a sin city e stia costruendo da zero una nuova città! Una città provvisoria, perché chissà la prossima volta come sarà, chissà cos'altro troveremo e cosa non vedremo più. 

venerdì 30 giugno 2017

Drivin' in my car

GUIDARE IN GIRO TRA MOKONO E KALAGI
Questa volta il Cuamm ci ha dato buca avendo tutte le macchine occupate in varie missioni in giro per l’Uganda, ma fortunatamente troviamo in quel sant’uomo di Mike la soluzione: per i giorni di permanenza a Nagallama ci presta la sua Toyota Carina, una berlina con sopra segnati 270000 km, ma che in realtà ne avrà per lo meno il doppio. Rattoppata alla meglio in puro stile africano (appena saliti a bordo una copertura sotto la macchina salta: il fil di ferro con cui era tenuta insieme si è rotto e quindi questo enorme pezzo di plastica nera, consumato dal tempo, ora gratta per terra, rimanendo ostinatamente legato alla macchina per mezzo di brandelli di filo. Mi adeguo: recupero altro filo e insieme a Fred rimetto al suo posto il pezzo. Et voilat: come nuova!), funziona alla perfezione, ma ha un difetto che renderà la mia guida nei giorni seguenti piuttosto…fantasiosa! Una lunga crepa attraversa infatti tutto il parabrezza, già sporco di polvere e unto di non so bene quale sostanza, per cui quando alla sera lasciamo l’African Village per andare “in città” a cena, le luci delle macchine che incrociamo si allungano in strisce gialle che occupano tutto il vetro, o si aprono in raggi di luce che mi accecano totalmente, rendendo nera, completamente nera, la strada che sto percorrendo. Ogni matta, boda-boda o semplice auto privata che mi viene incontro è per me fonte di preoccupazione: per tutto il periodo in cui i loro fari puntano verso di me, io guido “a memoria”, sperando che nessuna delle centinaia di persone che come sempre sta camminando a bordo pista, decida di cambiare direzione, o, peggio ancora, di attraversare la strada. A complicare ulteriormente le cose, poi, va considerato che anche le altre auto che incrociamo sono state immatricolate per lo meno prima che io nascessi, quindi i loro fari non sono propriamente ben orientati, o ben funzionanti, per cui…non si capisce veramente un cacchio!!!
Se a tutto ciò aggiungiamo il non trascurabile fatto che da queste parti vige la tradizione automobilistica inglese, ossia guida a sinistra, uscire la sera sta diventando per me più impegnativo di un allenamento con 40 2011 alla prima esperienza con una palla! Arrivo al ristorante…al posto dove mangiamo che sono sempre quasi sudato! Ma anche questo fa parte di Inter Campus…sempre che lo si riesca a raccontare.

giovedì 29 giugno 2017

Oltre il cancello

NAGALLAMA ST.JOSEPH PRIMARY SCHOOL
Credo questa, spero questa, sia una di quelle cose cui non mi abituerò mai: entrare dal cancello della scuola ed essere accolto da questa marea neroazzurra era, è e sarà sempre una grandissima emozione. Per chi come me questi colori se li sente addosso, li sente come parte della propria vita, come seconda pelle, la vista di così tanti bimbi, tutti insieme, dai 6 ai 14 anni, vestiti con quella maglia…indescrivibile. E non è come andare in questo periodo in uno qualsiasi dei centri dove si stanno realizzando le scuole calcio estive: anche li tutti i bambini indossano la stessa nostra, amata, maglia, anche li il colpo d’occhio scatena emozioni positive, anche li la passione per il calcio che anima i bimbi è la stessa che qui, ma…ma qui quella maglia dona un prestigio unico alla “mia” Inter! Le scuole calcio estive le fanno tutti, tutti distribuiscono la propria maglia a bimbi che pagano per giocare una settimana in questo o quel campo, ma a Nagallama, in questo “bucio di culo” (permettete il francesismo), ci siamo solo noi a far giocare bambini che corrono dietro quella palla senza scarpe; a far giocare bambini che sotto quella maglia, che venerano e tengono come fosse una reliquia, indossano canottiere bucate e zozze; a far giocare bambini che mangiano una volta al giorno, quando va bene; a far giocare bambini che per venire a scuola e quindi poi per allenarsi con noi o con i nostri coach, camminano anche per un’ora, da soli, lungo la main road, tra matatu impazziti e boda-bora spericolati; a far giocare bambini che se non avessero incontrato inter campus sul loro percorso probabilmente sarebbero ancora in fila ad aspettare il loro turno per calciare in porta, in un esercizio che con un pallone prova a coinvolgere cinquanta bambini. Insomma, tutti fanno scuole calcio estive a pagamento, ma solo Inter fa Inter Campus. E, cacchio, è un vero peccato. Perché se noi arriviamo a far giocare circa 10000 bambini all’anno con la nostra maglia, con il nostro metodo di allenamento, con le nostre proposte che attraverso il calcio educano, crescono, pensa se tutte le grandi società calcistiche per lo meno italiane facessero lo stesso, quanti altri bimbi riusciremmo a coinvolgere. Cacchio! Noi, la seconda squadra di Milano, quella di Torino, la Roma: solo queste quattro potrebbero toccare circa 50000 bambini. Uno sputo nel mare, certo, se consideriamo i bambini in difficoltà nel mondo, ma sarebbe già più di quanto riusciamo a fare noi, sarebbe già una crescita. Invece rimaniamo solo noi. C’è solo l’Inter! Caro tifoso, solo per questo motivo dovresti giurare amore eterno ai nostri colori!



sabato 24 giugno 2017

Ritorno in Uganda

WELCOME BACK, MZUNGO
A soli tre mesi di distanza mi ritrovo seduto sulla ormai ma seggiola, nella ormai mia capanna, nell’ormai mio african village, a svuotare su questo foglio di carta virtuale la somma di esperienze di questa nuova avventura ugandese. tre mesi e non i canonici sei son trascorsi dall’ultima missione, perché…be’, non posso scriverlo, altrimenti altri richiami ufficiali, altre censure pioverebbero sul mio blog. Va bene così, diciamo. Tre mesi in cui, rileggendo ciò che ho scritto a Marzo, deve essere successo qualcosa in questo paese, perché gli standard quasi europei dell’aeroporto di cui narravo sono ormai uno sbiadito ricordo, sostituito da una più cruda e incasinata realtà: appena sbarcati dall’aereo, infatti, una fila sconclusionata, senza un apparente inizio, ma soprattutto senza un’unica fine, ci ha accolto al controllo passaporti, dove trascorriamo quasi un’ora in attesa di pagare il visto da 50$ che ci permette di entrare nel paese; sopravvissuti a questa prima prova, eccoci però al vero test di sopravvivenza: il recupero bagagli! Una calca “spingente” soggiorna nei pressi del nastro, quasi impedendo la vista delle valige che su di esso scorrono lentamente e quando finalmente riusciamo a tornare in possesso delle nostre borse, un’altra disordinata fila ci si para d’innanzi! Gente che spinge a destra, gente che spinge a sinistra, il carrellino di quello dietro che continua a colpirmi le caviglie stile difensore di terza categoria in marcatura sulla punta, su calcio d’angolo e tutto per dimostrare, attraverso la ricevuta che ti lasciano al momento del check in, che il bagaglio che hai con te è effettivamente tuo e poterlo così, in seguito, passare sotto la macchina a raggi x per fartelo controllare ed essere definitivamente libero. Non contento però di tutto il casino vissuto fino a quel punto, decido saggiamente di dimenticare la mia borsa con il lap top alla macchina a raggi x e, soprattutto, penso bene di ricordarmene solo una volta fuori, mentre stringo la mano al nostro driver, mandatoci dal Cuamm per il trasferimento all’African village. “cazzo, il mio mac”, urlo, e con scatto di Boltiana memoria mi fiondo nuovamente nella hall dell’aeroporto, dove però vengo malamente fermato, giustamente aggiungerei, dalla sicurezza, che un po’ alterata per il mio tentativo di irruzione, mi spinge verso altri controlli, da cui devo necessariamente passare per ri-entrare. Passato questo piccolo varco, però, mi imbatto in un secondo controllo, che, anche qui giustamente, mi impedisce di tornare nello stanzone dove si riconsegnano i bagagli. La fortuna è dalla mia e i due addetti alla sicurezza rimangono colpiti dalla mia polo Inter, così quando spiego loro il perché io l’abbia indosso, mi fanno lasciare lì zaino e documenti per tornare ai nastri a recuperare il mio computer. “I get it”, dico loro sorridendo. “Uebale sebo”. Scatenando una loro risata, guadagno, finalmente al completo, l’uscita, per salire in macchina e trascorrere altre tre infinite e noiosissime ore nel traffico di Entebbe e Kampala, prima di raggiungere la tanto agognata meta. Sono distrutto, ho un sonno micidiale, ma sono le 17:30, quindi…che faccio? Fuori, ci si allena. Una bella sudata e torno come nuovo…o quasi, pronto, ora, per un sonno rifocillante. Domani si inizia!

lunedì 12 giugno 2017

venerdì 9 giugno 2017

In giro per Kin

Se a Teheran ho vissuto quasi più tempo in auto che in campo a causa dell'incredibile e assurdo traffico della città, a Kinshasa ho passato in auto più tempo con gli occhi chiusi, che aperti!!!
Nemmeno ai tempi di Padre Stefano a Luanda e del suo selvaggio "dambaiare" (cioè "tagliare", "rubare tempo e spazio in auto agli altri", insomma...commettere infrazioni!) ho avuto tanto timore di trovarmi il muso di un auto nella portiera laterale, o di finire io stesso nel baule di una qualsiasi altra carriola a motore che gira per la città. Non ricordo chi abbia detto "le regole sono fatte per essere infrante", ma penso fortemente fosse un abitante di questa immensa, poverissima, disordinata e distrutta (ieri, rientrando dal fiume, col buio, a momenti finisco in un cratere penso causato dalla caduta di un asteroide, viste le dimensioni) capitale: macchine che vengono contromano, come se fosse la cosa più normale del mondo; motorini che si infilano, incuranti del pericolo, in ogni pertugio; folli pedoni che si lanciano nei pochi boulevard, vivendo l'esperienza di una roulette russa, come se un semaforo verde li avesse autorizzati a lasciare il "marciapiede"; mezzi di ogni genere, dimensione e soprattutto... di ogni anno (qui o ci sono i macchinoni tipo scorta presidenziale americana, con i vetri neri, lucidi e giganteschi, oppure girano con macchine tenute insieme da fil di ferro, con ruotini al posto del normale pneumatico, vetri rotti, parabrezza con più crepe che posti a sedere) che schizzano da una corsia all'altra (fossero segnate, le corsie), in cerca di uno spazio, anche minimo, ove infilarsi, per avanzare l'avversario, il vicino di finestrino; semafori-robot (non è uno scherzo: qui i semafori hanno la forma di robot, quelli da fumetto, tipo Daitan 3) che ormai servono solo per abbellire (oddio) la strada, vista la loro totale e assoluta inattività. Insomma, un vero inferno fatto di auto e asfalto, che fortunatamente (sei sicuro???) vivo da passeggero, da dietro, perchè se dovessi anche guidare impazzirei!!! 

giovedì 8 giugno 2017

Sul campo della Gombe

SUI CAMPI DI KINSHASA
Tra tutti e ventinove i campi del mondo Inter Campus, quello in sabbia dell’IT Gombe di Kinshasa è uno dei miei preferiti ed è sicuramente uno di quelli dove mi diverto di più in assoluto. Un campo a undici enorme, in sabbia gialla, giallissima, con tutto intorno erba altissima e gli edifici della scuola professionale gestita un po’ dai salesiani e un po’ dallo stato; un campo senza linee, con le porte senza reti, con buche, buchino, buchette e sconnessioni varie, dovute al fatto che, essendo in sabbia, ogni cambio di direzione lascia una traccia, una cunetta, un solco, che determina il rimbalzo del pallone, la corsa della palla lungo il terreno di gioco; un campo sempre pieno, ogni giorno, dalle 14 alle 18, dei nostri trecento bambini che, seguiti dai nostri 12 allenatori, si allenano, giocano, si divertono e rimangono lontani da quella strada così poco distante e così pericolosa per ciascuno di loro. Trecento sono i nostri, ma il campo accoglie almeno un altro centinaio di bambini nelle stesse condizioni: senza scarpe, con abiti logori, figli di militari feriti o rimasti disabili in una delle tante guerre del Congo e “raccolti” nei vari campi che circondano il nostro “stadio”. Un altro centinaio di bambini che però, al momento, non possiamo accogliere: non abbiamo allenatori che si prendano cura di loro e anche lo spazio, un solo campo, è ormai sovrasfruttato per pensare di aumentare il numero dei gruppi, per cui per ora, con nostro grande dispiacere (provate voi a dire a uno di questi bimbi, cacchio, mi spiace, ma adesso non possiamo farti giocare con noi. Scusaci) riusciamo a coinvolgerli solo come raccattapalle, come assistenti, come aiutanti, ma, cacchio, non come “calciatori”. Ma, ripeto, per ora: se le cose miglioreranno anche qui come in altri nostri progetti nel mondo, nulla ci vieterà di ampliare, di coinvolgere più bimbi, di fare più gruppi e di far così giocare più bambini! E di divertirmi ancora di più. Perchè la fame che hanno qui, la voglia di calcio, di apprendimento, di divertimento, che trovo ogni volta su questo campo del mondo, non la trovo spesso. Vanno come fulmini, hanno una linea di apprendimento praticamente verticale, per quanto riescono ad assimilare dal primo all’ultimo minuto della seduta, ascoltano e hanno tutti una buona base motoria che ti permette di proporre esercitazioni anche complesse. E se penso a quando siamo partiti qui, non posso che essere contento di come stiamo lavorando…su questo campo del mondo! 100 bambini, 4 allenatori, poi i soldi dell'Unicef, il campo al Tata Raphael (lo stadio dove si svolse lo storico combattimento Foreman-Ali nel '74), l'aumento dei bimbi e...oggi. Avanti così, se non meglio

mercoledì 7 giugno 2017

Il buio di Kinshasa

CORRENDO NELL’OSCURITÀ
certo che qui quando fa buio, lo fa sul serio! Ho deciso di andare a correre alla fine della giornata, dopo la mattinata di teoria e il pomeriggio in campo. Non più, dunque, come quasi sempre quando sono in trasferta, alle prime luci del giorno (così dormo un po’, cacchio…e non me ne voglia Silvia), ma con l’arrivo del buio. Rientro infatti a casa al termine dell’allenamento con i “miei” bambini che sono ormai le 17:30 e anche se velocissimo riesco a cambiarmi e ad indossare il mio garmin, il tramonto è ormai prossimo: alle 5:30 circa fa luce e alle 18:30 circa fa buio da queste parti. Ad aumentare il buio ci sono poi in cielo nuvoloni neri, segno inequivocabile di un temporale imminente, ultimo colpo di coda dell’ormai conclusa stagione delle piogge. Esco quindi che la luce ancora c’è, anche se le ombre iniziano inarrestabilmente ad allungarsi, e quando chiudo il riscaldamento sul lungo fiume congo, ormai intorno a me è tutto buio. Ma buio vero, cacchio! Fortunatamente l’unica zona di Kinshasa dove un mundele come me (bianco, nella lingua locale) può permettersi di allenarsi senza rischi è la zona delle ambasciate, dove c’è anche la residenza privata del presidente, la zona bianca per eccellenza, la zona ricca, quella quindi con anche l’illuminazione stradale…più o meno. Perchè i lampioni vanno due su cinque e a corrente alternata, ossia per un po’ due, per un po’ gli altri, creando un “simpatico” effetto vedo, non vedo, lungo la mia “pista”. Ad aumentare le difficoltà vi è anche la chiusura della zona pedonale lungo il fiume, chiusa in seguito ai violenti scontri di inizio anno che hanno causato anche diversi morti (scontri dovuti alle mancate elezioni presidenziali: il buon vecchio capo dello stato ha deciso di non lasciare il potere e di prolungare la sua nomina per almeno un altro anno e ciò ha causato un tentativo di rivolta da parte della gente, tentativo soffocato sul nascere con la violenza), per cui mi ritrovo costretto a correre quasi al buio, lungo la grande strada che porta all’hotel del fiume e agli altri grandi hotel dei bianchi. Per fortuna ci sono i lampi che piuttosto con frequenza illuminano la mia strada praticamente a giorno, senza però scaricare alcuna goccia di pioggia, per cui riesco a realizzare il mio programma di allenamento senza grosse difficoltà…oddio, senza difficoltà. Sto cacchio di infortunio e la forzata inattività si fa un po’ sentire sulle gambe e portare a casa il risultato oggi è una bella impresa. Ma sono contento. Contento per la bella giornata di lavoro, per il bell’allenamento proposto in campo, per il fatto di essere solo come allenatore (non c’era nessun mister disponibile, poiché tutti impegnati o in missioni contemporanee o che prenderanno il via al termine di questa congolese) e di essere quindi tornato ai tempi della prima africa con Max, e contento per la bella corsa “notturna”. Ora un po’ di ghiaccio sul ginocchio e poi si cena. Ho una fame… 

martedì 6 giugno 2017

Retour á Kinshasa

Retour a Kinshasa
Toccata e fuga in Italia, parsa più lunga grazie al ponte del due giugno che mi ha permesso di tuffarmi a tempo pieno in Anna e Silvia, e dopo una settimana giusta, rieccomi in volo: destinazione RDC, più precisamente, vista la vastità del paese, la capitale, Kinshasa.
L’aereo su cui viaggiamo mi lascia un po’ interdetto al momento dell’imbarco, perché è piccolino e seppur la rotta Istanbul-Kin non sia lunghissima, vedere questo aeroplanino e pensare che le mie prossime sei ore le trascorrerò su di lui, un po’ mi inquieta. Ma mi sbagliavo. Il volo fila via liscio, anche grazie ad una inaspettata e rara botta di culo: la mia fila è completamente vuota e così dopo il pranzo ho sollevato i braccioli e mi sono abbandonato ad un sonno profondo, compreso anche di sogni (essendo la mia sveglia suonata alle 3:45, una sana dormita in volo ci voleva!). Peccato che il sogno comprendesse Yasha e una sua presenza strana a casa mia (chissà dove era, però, questa casa mia), mentre facevo lezione di inglese con Claire Lewis, una ragazza che ha lavorato in Inter fino a non molto tempo fa. Assurdo. Così, tra sogni assurdi, un film pallosissimo, Fences con D. Washington (che poteva anche essere bello per i temi che tratta, ma i dialoghi infiniti del protagonista e la staticità assoluta delle scene mi hanno fatto rimpiangere Yasha in casa mia) e un momento dedicato alla stesura degli staff per il prossimo semestre di viaggi, eccomi abbastanza velocemente a Kinshasa. Qui l’aeroporto è ancora migliorato ed è un altro posto completamente rispetto a quella bolgia infernale che ci accolse ormai dieci anni fa, la prima volta che sbarcammo su questo campo del mondo: aria condizionata, wi fi (che non funziona, però c’è), mille posti per il controllo passaporto, che riducono le attese, le valige consegnate in brevissimo tempo, un tempo totale dallo sbarco, alla macchina che ci aspettava di meno di un’ora. Insomma, uno spettacolo. Peccato che il progresso si fermi alla porta di uscita degli arrivi, perchè una volta in strada si torna alla vecchia e conosciuta situazione congolese: macchine da tutte le parti che ondeggiano tra le corsie, gente che attraversa in ogni dove, camioncini adibiti al trasporto delle persone (sono delle specie di ducato, cui hanno inserito delle panche di legno nella parte posteriore, senza finestrini e con solo il portellone posteriore come via di uscita) che sfrecciano e scartano improvvisamente per raccogliere altre persone (che non si sa come, riescono sempre a trovare spazio in uno di questi mezzi già stracolmi)…un delirio, con colpi di clacson di diverse tonalità come colonna sonora. Cara, vecchia, Kinshasa…