lunedì 18 giugno 2018

venerdì 15 giugno 2018

Il torneo

CHWAMA
Con pochi chilometri di buche, salti e sabbia, dalla città si raggiunge Kilobelobe, un villaggio appena dentro la brusse dove sorge la scuola salesiana di Chwama e dove oggi abbiamo in programma un mega torneo con tutte le nostre cellule presenti, quindi tutti i nostri bambini e bambine, cui si aggiungeranno due squadre ospiti. Pochi chilometri di buche, sabbia e salti, ma molto intensi, diciamo e le mie chiappe ne sanno qualcosa, ma ne vale sempre la pena: questo campo che sbuca in mezzo a quest'immensità di alberi, con ai lati degli enormi, ma davvero enormi, termitai, sovrastato sempre, per lo meno la mia mente lo ricorda sempre così, da un cielo costantemente e meravigliosamente "bluissimo", di sabbia e sassi, con buche e cunette, è sempre un emozione incontrarlo. È sempre un'emozione che mi conferma quanto sia immensa la forza del calcio, quanto sia attraente quella palla: 160 bambini che si alternano nelle partite sotto un sole...africano (ne sa qualcosa il mio lungo naso, ovviamente bruciato a fine giornata), per lo più a piedi nudi, provenienti da tutti i nostri centri (quindi con anche il trasferimento su mezzi che definire eufemisticamente vecchi, ma soprattutto strapieni), giusto per la gioia di giocare...be', se non è passione questa. Peccato solo che in campo più che partite di calcio sembra di assistere a degli incontri di pallavolo: quella povera palla passa tutto il suo tempo per aria, scalciata dall'una e dall'altra parte  senza criterio, con violenza, sempre verso l'alto, costringendo giocatori e spettatori naso all'insù per cercare di seguire le sue folli traiettorie e provare a capire se prima o poi riuscirà a metter fine al suo inutile volo, alla sua continua e forzata esplorazione dei cieli. Al termine del primo incontro ho preso da parte i due mister, Jean e Auguy, per suggerir loro di suggerire ai ragazzi di ricercare giocate a terra, ma alla pronta risposta del primo ho capito che per oggi mi sarei dovuto accontentare dell'entusiasmo e della felicità dei bimbi, senza pretendere altro. "Giochiamo palla alta perché le partite durano poco, dieci minuti, e bisogna arrivare il prima possibile alla porta avversaria"... Ci ho provato, giuro che ho provato a smontare questa tesi, cercando di riportare a terra quella palla, ma non c'è stato niente da fare: in una partita quella povera sfera di cuoio ha passato a terra, in dieci minuti di partita, solo 59 secondi. 'azz. Va be', considerazioni tecniche a parte la giornata è stata lunga, ma molto positiva, con anche il coinvolgimento del villaggio intero, accorso al campo per vedere cosa fosse tutto quel baccano, tutte quelle urla, tutte quelle risate...tutte neroazzurre. 


giovedì 14 giugno 2018

Filosofia spiccia

FILOSOFEGGIANDO IN CAMPO
Quando faccio allenamento su questi campi volo immediatamente con la mente a Milano, dai nostri bambini italiani con cui da anni gioco e da cui ricevo puntuali lamentele per la qualità del terreno di gioco, per il pallone troppo duro o troppo molle, per le scarpe troppo strette, o peggio ancora troppo vecchie, pur impeccabili, per, per e ancora per. Volo da loro per poi tornare ad osservare i bimbi con cui sono ora in campo, qui a Bakanja: campo di sabbia e terra rossa, con buche, pietre e dune qua e la, scarpe…per venire al campo, non certo per giocare! Avendone un solo paio vanno tenute da conto e di certo non le rovinano calciando un pallone; oltretutto una palla sgangherata, durissima, rossa di sabbia, calciata con tale forza, determinazione e divertimento, che se colpita con l’unico paio di scarpe ridurrebbe all’osso la durata delle stesse, quindi calciata per lo più da piedi nudi. Che mondi distanti, eppure che mondi vicini grazie proprio a quella palla, riesco a vivere. Senza cadere nella sciocca e inutile retorica, facile compagna di riflessioni come queste, tutte le volte mi domando cosa si può fare per aiutare entrambi i bimbi, il milanese e…l’intercampista. Non parlo di aiuti materiali, di finanziamenti o altro, ma di aiuto vero, duraturo, che cambi le cose e valga nel tempo, senza voler avere la presunzione di trasformare la realtà. Perchè credo che entrambe le parti siano povere a modo loro, perché sono convinto che anche in questo parallelismo la verità stia nel mezzo e se da un lato i centri sportivi di ultima generazione, l’attrezzatura ultra moderna e professionale e tutta la nostra società dell’abbondanza tolgono “la fame”, raffreddano la passione, la purezza dell’amore per questo sport, riducendo il calcio ad un semplice passatempo, limitandolo ad essere un gioco, o peggio ancora vivendolo solo in virtù dei risultati raggiunti, delle abilità possedute, senza scoprire tutto ciò che può rappresentare nella crescita, nello sviluppo di un bambino, dall’altra parte la pochezza delle stesse cose pur non rappresentando un ostacolo per i nostri bimbi, certo non rendono semplice la pratica dello stesso e troppo spesso lo rendono esclusivamente un mezzo, un’occasione di riscatto, uno strumento per arrivare ad ottenere quegli agi, quei campi, quelle scarpe, facendogli perdere, anche in questo caso, tutto quell’enorme potenziale educativo, limitandolo, portandolo ad essere vissuto e praticato esclusivamente attraverso risultati, attraverso i gol fatti o i dribbling realizzati, attraverso le partite e i tornei vinti. Ma cacchio, il calcio non è questa cosa che vivete bimbi milanesi e bimbi congolesi!!! Inter Campus non basta, c’è bisogno di più. Ma ancora non so bene cosa, quindi…sotto con il campo, con la maglia neroazzurro e con tutto ciò che essa rappresenta in 29 paesi del mondo. 


mercoledì 13 giugno 2018

Elisabethville


LUBUMBASHI


“Questa è una baraccopoli, una città baraccopoli”. Mai descrizione calzò più a pennello. Gabriele sentenziò così ieri sera ed effettivamente come dargli torto. Oltretutto mai mi permetterei di dargli torto, visto che è dal 2004 che vive in questa “baraccopoli” e che gira Katanga e dintorni per i suoi vari progetti umanitari con Alba e  con altre associazioni con cui collabora, quindi chi se non lui può permettersi certi giudizi. Ma baraccopoli perchè? Case, casette alte non più di un piano, se escludiamo i nuovi palazzoni inaugurati dal presidente (nessuno sa perchè e per chi, ma…shhh, non va contraddetto), che necessiterebbero di una rinfrescata; strade piene di buche che Roma in confronto non è nulla, con avvallamenti e dossi sparsi qua e la, messi a caso, sembra quasi per tenere svegli e attenti gli automobilisti; polvere e sabbia a lato delle strade e alberi, cespugli, verde di ogni genere poco oltre che sembra non aspettare altro che una distrazione dell’uomo per rifar suo quello spazio strappatogli con la forza da asfalto e cemento; e gente. Gente ovunque, gente che cammina, gente che vende merce ad ogni angolo su banconi di legno improvvisati, gente che si ammassa nei vari taxi collettivi, che assiepano le strade, gente che vivacchia a bordo strada, chi bighellonando, chi cercando espedienti per mettere in tasca qualche franco, o qualche dollaro (meglio). Gente che in questa città arriva a comporre l’ 1,2 milioni di abitanti che si stima oggi abitino l’attuale capitale della regione del Katanga, fondata dai Belgi nel 1910 col nome di Elisabethville, un tempo fiore all’occhiello della colonia: ricca, ricchissima per via delle grandi miniere per lo più di rame della regione (ma per un periodo anche regina della gomma) e centro di importanti avvenimenti che hanno segnato la storia di questo enorme paese, dal tentativo di indipendenza e fondazione del regno autonomo del Katanga, all’ autoproclamazione del padre dell’attuale presidente, avvenuta proprio qui, quando Mobuto fuggì da Kinshasa nel 1997. Insomma un’importante città oggi ridotta un po’ a pezzi, un po’ a brandelli, dalla fame di potere dei politici e da quella di dollari delle grandi multinazionali straniere che qui fanno grandi affari, sfruttando la mano d’opera locale che comprende anche, se non sopratutto, bambini, e corrompendo la società a tutti i livelli, a tutti gli strati, generando così un sistema ultra corrotto che parte dalla strada e arriva al parlamento. E quale posto migliore per noi? Infatti, eccoci qui, dal 2011, insieme ad Alba con il nostro progetto, dentro le scuole da loro costruite, fornendo supporto educativo ai bambini attraverso l’allenamento, in cinque diverse scuole, con 5 diversi gruppi e allenatori. Una goccia nel mare, un piccolissimo spiraglio di luce in un ambiente buio, buissimo, ma...piutost che nigot, l'è mei piutost. Via, allora, andiamo in campo!


martedì 12 giugno 2018

Lubumbashi mon amour


LUBUMBASHI MON AMOUR
Finalmente siamo arrivati! Anche questa volta il viaggio infinito che ci porta nella capitale del Katanga, nella capitale delle miniere, nel centro “potenzialmente” ricco del Congo, ha avuto termine ed ora eccoci pronti per la consueta sgambata scogli gambe post viaggio dentro le mura del “complex la plage”, ossia casa nostra. 23 ore dopo essere partito da casa, infatti, riapro la porta di quest’altra casa, ormai anch’essa considerata mia, visto anche che ha i mobili del soggiorno Ikea esattamente uguali a quelli di Villasanta.23 ore che comprendono non solo il volo e i vari scali, ma anche il passaggio dovuto nella voglia infernale di dantesca memoria che altro non è che l’aeroporto internazionale di Lubumbashi, che detta così sembra un normale e moderno aeroporto, invece…già il fatto che quando scendi dalla scaletta dell’aereo puoi camminare, anzi devi camminare, lungo la pista per entrare alla dogana, ti fa capire che sei arrivato un posto…speciale. Poi, una volta che sei entrato nello stanzone per il controllo passaporti, il continuo andirivieni di strane persone con dei fogli in mano con su scritti nomi, per lo più cinesi, ti da’ la conferma della stranezza del luogo. Non è normale trovarsi in attesa, in fila, e vedere gente intorno che segue questi cartelli, lascia la fila, consegna il proprio passaporto a “l’uomo del cartello” e…va. Parte, esce: salta la fila, supera i controlli ed esce. È successo anche a noi, come sempre: siamo in fila, un ragazzo osserva la mia polo col simbolo, mi mostra il suo foglio con su i nostri nomi e al mio cenno affermativo…puff. La folla sparisce, la fila scompare e ci ritroviamo nell’androne dove si ritirano i bagagli. Ma anche qui l’attesa è limitata: oltre ai nostri passaporti il nostro angelo, nero, custode ha voluto anche il talloncino delle valige spedite, così lui penserà anche a questo, mentre noi iniziamo ad uscire, superando l’ultimo ostacolo, anzi gli ultimi due: “l’accuratissima” ispezione del bagaglio a mano e la barriera umana di persone che preme per entrare in aeroporto ( tutta gente che prova ad entrare per poter rimediare qualche dollaro da qualche bianco portandogli la borsa, recuperandogli la valigia, o compiendo qualsiasi altro lavoretto per lui) e che impedisce a chiunque, fisicamente, di uscire. Tutte le volte la stessa cosa: dal 2011, anno della mia prima missione in Katanga, ad oggi, sembra che il tempo qui si sia fermato: non si cambia, non si evolvono le cose. Tutto è fermo, tutto è identico, pur mostrando, edifici e strade, i segni del tempo che scorre. Chissà se mai anche qui scatteranno in avanti le lancette dell’orologio.