lunedì 20 marzo 2017

La Santa

LA MEZZA
La salita tra il diciottesimo e il diciannovesimo chilometro la utilizzerò come sprono nei momenti di difficoltà fisica: se son riuscito a completare quell’infinito e violento salire, posso superare sicuramente altri momenti di low battery! 

Certo è che dopo questa mezza a farle compagnia in archivio ho messo anche diverse altre salite di Gerusalemme, come quel lungo e dolce falso piano che ci ha accompagnati fin su, sulla promenade, da dove, sulla sinistra, si poteva godere di una sublime vista della città vecchia, con la Moschea della roccia dalla cupola ancora più dorata del normale per via della luce del sole che iniziava a prender possesso con decisione del cielo, essendo passati da quel punto poco più tardi delle 7:30. O forse era l’acido lattico che sprizzava dai miei pori, finiva nei miei occhi, limitando anche le mie capacità visive, oltre che quelle motorie? Chissà. 

Stanchezza e salite maledette a parte, anche questa volta devo confessare che la città si è confermata la più bella del mondo, manifestandosi anche in questa occasione in tutto il suo splendore, in tutto il suo fascino, tale da renderla così diversa, unica…mistica. Saranno le bestemmie che ho cacciato nei punti più duri a renderla così mistica…non so, ma tutte le volte che capito da queste parti vivo un’esperienza che non può essere paragonata a nessun’altra, che non vivo in nessun’altra città dove ho la fortuna di passare, calcando i campi del mondo. Unica. E rimane unica nonostante lo stupro quotidiano che subisce da milioni e milioni di turisti di tutte le nazionalità, che passano per le mille viuzze di pietra della città vecchia armati di macchine fotografiche, smartphone e guide, fisiche o cartacee che siano (i peggiori sono sempre gli americani: come dice Max “riescono a rendere Disneyland qualunque luogo”), calpestano incuranti migliaia di anni di storia solo per rubare un immagine e rendono fastidioso il muoversi, il camminare. Nonostante tutto, però, in questo lato di mondo riesco sempre a ritagliarmi il mio spazio, a trovare il mio pertugio dove passare, dribblare tutti, fermarmi a osservare questo o quel luogo sacro (il mio “preferito” è il muro del pianto: mi metto fuori dal “recinto” entro cui tutti vanno a pregare, lontano dal muro vero e proprio e da li lascio fluire le emozioni) e…pensare, riflettere, forse pregare (non so se si fa così). Bellissimo tutte le volte.

Questa volta abbiamo avuto il sabato mattina per dedicarci a un piccolo tour e la mia ormai tradizionale esperienza mistica gerusalemita l’ho vissuta percorrendo le stazioni della via crucis, cosciente del fatto che sono ricostruzioni, in alcuni casi un po’ forzate, ma comunque passi della città con una forte carica emotiva. Per lo meno per me. Carica emotiva che, come spesso mi accade, mi crea disagio, mi mette quasi paura, fastidio e che raggiunge il suo apice quando entro fisicamente nei Luoghi, da dove infatti normalmente rimango lontano, dai quali normalmente rimango fuori, seppur attratto, affascinato. Matto, si, devo essere un po' matto. Ma se non fosse così non lavorerei per Inter Campus...



venerdì 17 marzo 2017

Bukra, Quds

Bukra,Quds! 


Dayr Yastia. Ti trovi nel cuore della Cisgiordania occupata. Sei a pochi minuti da Nablus, dove la resistenza e la Palestina sono alla base del vivere quoridiano, e ad altrettanti pochi minuti da Petach Tikva, bel sobborgo ad est di Tel Aviv, tra gli uffici dell'high tech israeliano e il moderno stadio della città. Non esistono parole appropriate per spiegare le contraddizioni di questo luogo assurdo, solo immagini, forte e chiare, come quelle del negozio di gomme a pochi metri dall'ingresso del villaggio: sei già in zona palestinese, ma circondato da insediamenti ebraici, e dunque il negozio, gestito da palestinesi della zona che vivono le difficoltà di una vita senza liberta', mostra grosse scritte in ebraico, la lingua del nemico, probabilmente più interessato nell'acquisto dei nuovi modelli pirelli. Ed è così anche la nostra storia di Inter Campus in questi posti. Siamo amici di tutti senza dirlo a nessuno, come un negozio di arabi con le scritte in ebraico tentiamo di diventare i collanti di una terra spezzettata, tra check points ed intifade. In che senso? Beh, non è facile nella società israeliana definirsi collaboratore dei palestinesi, come non è buona cosa girare in Cisgiordania da israeliani..La soluzione ? Darsi meno definizioni possibili, per far parlare poi il campo e il sorriso dei nostri bimbi stanchi. Perché se abbiamo capito che nella Palestina orgogliosa come nell'Israele indipendente gli adulti sono ben difficili da chiamare "partners".. I bambini di questa terra sono la vera partnership di Inter campus. I sorrisi e le energie di chi vive guerre e divisioni sono sicuramente più sudati, più conquistati e piu soddisfacenti. E come il bambino israeliano sconfigge paure e diffidenze, razzismi più o meno innati, e si imbatte nel bel campo di bet safafa sentendosi pian pianino a casa... Il bambino palestinese sa che le divisioni del papà e della mamma (a cui si da sempre ascolto) hanno meno valore di fronte alla ghiotta offerta della famiglia Inter campus :" bukra Quds?" (Domani a Gerusalemme ?)"Bukra Quds!!" Rispondono i bambini pieni di quella gioia che nel nostro mondo fatto di agio e comodità e' paragonabile alla gioia del "ragazzi non c'è la prof tutti in cortile a giocare a calcio ". Eh sì, perché domani, dopo la maratona di Gerusalemme che passa per la knesset, la città vecchia e quella nuova, incrociando narrative e storie, luoghi che non si incontrano mai, saremo sul nostro campo di gerusalemme, e saremo tutti li, dal Sudan a dayr Yastia dalle sinagoghe alle moschee da Israele alla palestina, a far parlare il campo. E sarà un giorno speciale per Karim,( e per tutti i bimbi di dayr Yastia),che forse non avrà le nuove Nike che indosseranno i bimbi israeliani o quelli più abbienti di bet safafa, ma che con le sue bassissime Superga calchera' per la prima volta nella sua vita il suolo di Gerusalemme, città santa di tutti ma negata ad alcuni, sogno di una narrativa piu viva che mai, sogno che prende vita non grazie alla violenza ma grazie al pallone.Ah, e grazie ai nostri colori, l'azzurro e il nero. E quindi si caro Karim e cari bimbi di dayr Yastia... BUKRA QUDS!!!

giovedì 16 marzo 2017

A Gerusalemme

JERUSALEM
Oggi non è giorno di allenamento a Gerusalemme per i nostri bambini, ma i mister sono a disposizione, per cui, in accordo con Yasha, ci muoviamo verso la città Santa per incontrarli tutti e fare un po’ con loro il punto della situazione di questo progetto tanto affascinante, quanto incredibilmente complesso e incasinato! Il mio obiettivo è quello di sentire loro, di ascoltare i loro racconti degli allenamenti, i loro resoconti delle esercitazioni proposte, per partire da ciò che emerge dai loro discorsi e approfondire quei temi tecnici che qui credo siano ancora un po’ di la da venire. La discussione in aula però mi sfugge di mano, scorre senza più il mio totale controllo e le problematiche che emergono sono si tecniche, da campo, ma derivano, hanno la loro origine, in qualcosa che viene prima del campo, prima della seduta di allenamento in senso stretto: problemi che dipendono dalle differenze che noi cerchiamo di appianare, di cancellare con l’allenamento, con quella palla, ma che purtroppo, in quanto tali, rendono difficile lo sviluppo, la realizzazione di ciò che abbiamo in mente. I bimbi delle due parti sono diversi, diversissimi tra loro, anche solo dal punto di vista motorio e questa differenza crea un ulteriore solco tra loro, una ulteriore differenza che li allontana: colui che è bravo, abile a muoversi e quindi a sfruttare questo movimento con una palla tra i piedi, non vuole giocare con quell’altro che invece tanto abile non è, non vuole passargli la palla, non vuole sentirsi costretto nella stessa squadra. Normale, normalissimo in qualunque contesto, anche da noi in Italia, ma qui genera ulteriori tensioni, ulteriori ostacoli al nostro progetto, alla nostra idea di unificazione, di unione, di appiattimento delle differenze, perché porta alla costruzione di altre barriere, di altri muri, che separano questi bambini, già sufficientemente divisi da questioni più grandi. E quindi? Che cacchio facciamo? Son convinto che l’allenamento sia lo strumento ideale per questo nostro obiettivo, ma bisogna riuscire ad usare questo strumento nel miglior modo, con la miglior conoscenza, consapevolezza e capacità possibile, per cui c’è bisogno ora più che mai d alzare il livello dei nostri mister. Perché sono loro i veri protagonisti, coloro che realmente realizzano ciò che noi diciamo di fare: io sono qui venti giorni l’anno, niente, proprio niente, rispetto al tempo che trascorrono loro con i nostri bambini, quindi sono loro che devono saper organizzare alla perfezione i gruppi, bilanciando l’una e l’altra parte e gestendo al meglio le abilità ai loro interni; sono loro che devono riuscire a sviluppare esercitazioni ludiche, con obiettivi più motori che tecnici, per coinvolgere, divertire e colmare allo stesso tempo le grandi lacune dei più; sono loro che devono saper intervenire al primo accenno di “scontro”, adottando l’intervento adatto per riuscire ad arrivare alla testa, al cuore, di tutti i propri giocatori. Qui più che da altre parti il mister è fondamentale. E i nostri lo sono, sono bravi e ultra dedicati alla causa, ma ancora con noi non sono riusciti ad affrontare quei temi che anche questa volta ho dovuto tralasciare, soppiantati da temi diversi, importanti, ma meno pratici, da campo. Dobbiamo quindi aiutarli a crescere, dobbiamo trovare il tempo, il modo, di lasciar fuori dalla porta dell’aula i problemi più grandi di noi, per concentrarci sul campo e attraverso esso provare a risolvere, o per lo meno ad affrontare, tutti gli ostacoli che incontriamo sul nostro terreno. E non è mica facile…

mercoledì 15 marzo 2017

Shalom Israel

ISRAELE 2017
Va che sei un bel pirlone, mister! E si che non è certo la prima volta che vieni da queste parti e sai quanti problemi, quante difficoltà ci sono da affrontare per “varcare” il confine, la dogana in aeroporto. Ma l’esperienza non mi è stata di aiuto e così…ma andiamo per ordine.
Dopo due settimane trascorse a casa con le mie donne, una splendida esperienza formativa vissuta col Mister, quello vero, con la m maiuscola, della prima squadra, Stefano Pioli, e un’ altrettanto super esperienza di gioco, vissuta al fianco del Capitano, el tractor J. Zanetti, rieccomi in una stanza di albergo, o meglio, rieccomi nella mia solita stanza di albergo a Tel Aviv, presso il rock apartaments hotel. Ma che fatica arrivarci! Già, perché il genio scrivente si è dimenticato di fare il cambio passaporto e si è presentato bello fresco al controllo in ingresso al paese con due bei visti iraniani, grandi e colorati, ben visibili al ragazzo che ha spulciato il mio documento per un po’ prima di fermarsi, metterlo da parte, chiamare un collega della sicurezza e farmi accomodare…”in the office”. Per fortuna mia, non certo sua, anche il prof aveva un visto non gradito al paese che avrebbe dovuto accoglierci, quello libanese, per cui “in the office” sono rimasto in compagnia e la tensione si è un po’ sciolta grazie anche alla sua presenza. Tensione, si, perché mi sentivo come quando da piccolo incrociavo i carabinieri o la polizia: non avevo fatto nulla, ero senza colpe, eppure mi cagavo in mano tutte le volte, esattamente come oggi. La sorte però si è dimostrata mia amica per una volta e il primo ad essere chiamato per le domande di rito tra noi due è stato il prof, che con la sua beata tranquillità, la sua aura mistica, mi ha spianato la strada, rendendo più semplice del previsto il colloquio con i due addetti dell’immigrazione, un ragazzo e una ragazza; lei accigliata, col fare da dura, mi incalzava con le domande (perchè vai in Iran? Chi sono i tuoi contatti la? Quante volte ti senti con loro? Qual’è il nome del tuo contatto ricorrente e altre domande di questo genere), lui sorridente e quasi curioso, mi chiedeva dell’inter, del mio passato da calciatore, del mio percorso da allenatore. Insomma, il classico gioco del poliziotto buono e di quello cattivo che tante volte ho visto nei film e che questa volta, invece, avevo davanti agli occhi. Alla fine il tutto si è risolto in poco più di un’ora, quindi tutto sommato ci è andata bene, solo che…chissà cosa ci aspetta al ritorno: hanno voluto sapere numero, giorno e orario del volo, per prepararci chissà quale accoglienza…che palle! E che ansia!!!

venerdì 3 marzo 2017

Teoria e pratica a Nagallama

AULA E CAMPO A NAGALLAMA
Finite le cerimonie, le tanto adorate cerimonie ugandesi con tanto di master of the cerimony e scaletta degli interventi e delle attività (che guai se viene modificata in qualche modo!), finiti i canti e i balli per salutare il ritorno dei Basungo, i giorni si sono susseguiti in maniera molto serrata, tra aula, tutte le mattine, e campo, tutti i pomeriggi, per vedere insieme ai nostri mister l’insegnamento del gesto tecnico ai bambini di 8 e 10 anni, analizzando gli errori più frequenti commessi dai nostri giovani “calciatori” e cercando di trovarne l’origine. Tale analisi ci ha portato a considerare non solo gli aspetti strettamente tecnici che possono incidere sull’esecuzione del movimento ideale per calciare, ricevere o condurre, ad esempio, ma ci ha accompagnato a scoprire quelle aree, quelle dimensioni, che spesso gli allenatori nemmeno considerano, o forse conoscono, e che invece in campo, giocando, emergono naturalmente; tali "aree" della personalità, costituendo l’individuo nella sua complessità, si manifestano anche attraverso il movimento, che è ciò che più riguarda noi e il nostro lavoro, e tale manifestazione può essere migliorata, stimolata verso il meglio attraverso i giusti interventi, portando il nostro bimbo a compiere in maniera fluida e corretta i gesti tecnici e allo stesso tempo influenzando, se non determinando, il normale, armonico, sviluppo del bambino. E noi mister, diamine, dobbiamo conoscere e stimolare positivamente tutte e quattro queste aree, senza incaponirci sui soli aspetti legati al movimento, per crescere bambini e non limitatamente calciatori. Ma che lavoro farlo capire, che difficoltà far riflettere un allenatore proveniente da questo contesto, abituato a vivere l’allenamento come momento di fatica, di corsa, di regole ferree e disciplina militaresca, sul fatto che l’errore nel ricevere potrebbe essere dovuto ad un limite riconducibile all’area emotiva, ossia un problema che deriva da una scarsa fiducia in se del bambino, che lo porta ad eseguire il movimento in tensione, quasi spaventato, rigido muscolarmente, quindi condizionato, quasi bloccato nella gestualità e di conseguenza difficilmente efficace nella ricezione della palla. E quindi cercare di far comprendere che il suo richiamo al “non fare così”, al “farlo bene”, il suo continuo dimostrare, alterandosi progressivamente constatando il reiterarsi dell’errore non porterà nessun miglioramento, ma che se davvero si persegue lo sviluppo, la crescita di fronte a tale difficoltà potrebbe essere più utile avvicinarsi al bimbo, dargli fiducia, non richiamarlo, ma incitarlo, rinforzare il suo impegno, la riuscita, anche se non perfetta, dell’esercizio, correggerlo, ma costruttivamente. Difficile raggiungere questa crescita dei nostri mister. E allora giù con spiegazioni teoriche, ma soprattutto con esercitazioni pratiche, con esempi, perchè...tutto questo già lo fate! coscientemente o meno, positivamente o meno, ma già il solo essere in campo alla guida di un gruppo di bimbi è educazione. E allora, già che ci siamo, facciamolo bene!!!



giovedì 2 marzo 2017

UNA FOTO PER CAPIRE


GIUSTO PER CAPIRE...QUALCHE BIMBO IN NEROAZZURRO

St.Joseph Primary School

RITORNO ALLA SCUOLA
Il ritorno alla scuola di Nagallama centro del nostro progetto, è sempre una grande emozione: ogni volta che torniamo, infatti, tutti gli alunni vengono vestiti di nero azzurro, con le maglie che dal 2007 portiamo in questo angolo di mondo, per accoglierci e ogni volta essere salutati da 800 volti nerissimi e sorridenti, che testimoniano con la loro maglia gli ultimi dieci anni di storia, è una emozione unica, alla quale non mi riesco ad abituare. Per fortuna. E non è solo per l’interismo che c’è in me, che gongola nel vedere la maglia del triplete vicina a quella ancora più bella con la scritta pirelli dorata del 2008 e nel riscontrare così tanto affetto, amore, per la mia stessa squadra. C’è qualcosa in più: pensare che alcuni di questi bimbi si sono avvicinati alla scuola perché attirati da quei colori e dall’attività pomeridiana in campo, quindi pensare che alcuni di questi bambini se non fosse arrivata l’Inter da queste parti probabilmente non avrebbero studiato, non avrebbero avuto accesso alla scuola, ecco, forse questa cosa vale di più. Forse…in ogni caso da poco meno di seicento studenti quando siamo scesi per la prima volta su questo campo del mondo, gli iscritti sono oggi quasi mille e di questi 240 sono inseriti nelle varie squadre e si allenano e giocano con costanza, seguiti dai nostri allenatori: di strada ne abbiamo fatta e direi anche positivamente.
Nel corso di questa visita, poi, abbiamo ricevuto una visita ancora più emozionante: tra i tanti bimbi e allenatori che ci hanno salutato al nostro arrivo, c’erano anche 9 bambini “reduci” della coppa del mondo inter campus, quell’impensabile esperienza che abbiamo vissuto nel 2009 e che ha coinvolto quattordici bambini e due adulti a Coverciano per due settimane, provenienti da tutti i paesi di allora coinvolti in Inter Campus. Impensabile per tutti, ma non per Inter Campus e la famiglia Moratti, che sono stati capaci di realizzare questa impresa (devastante, posso assicurare che è stato un lavoro devastante, però…che figata!) e regalare questo sogno a così tanti bambini delle zone più disperate e sperdute del mondo, tra cui questi ormai adolescenti qui con noi oggi! Bellissimo rivederli, sentire i loro aneddoti, i loro quasi commossi ricordi di quei quindici giorni trascorsi con noi, in Italia: l’incontro con gli altri bimbi degli altri paesi, le partite con gli arbitri, i rubinetti nei bungalow da dove prendere l’acqua, la sfilata a San Siro prima di Inter Napoli, i pasti tre volte al giorno…un’esperienza indimenticabile, credo io, già per un bambino italiano, non riesco nemmeno ad immaginare per un bimbo ugandese, abituato a vivere in una capanna ai margini della foresta. Solo Inter Campus può!

mercoledì 1 marzo 2017

Un mzungo di corsa

BYE MZUNGO
Al termine della prima, intensissima giornata, il mio programma di preparazione in vista della mezza di Jerusalem mi consiglia di affrontare due ripetute sui 2km e sei sul chilometro e sono indeciso sul da farsi: rimango dentro l’African village, girando come un criceto tra i vialetti che conducono ai vari bungalow e che da parte a parte mi permettono di coprire mille metri, oppure esco per strada e corro su e giù lungo la strada principale, passando tra casette, capanne, moschee e chiese, con la foresta alle spalle, ma anche tra matatu (taxi collettivi che vanno a mille all'ora e sono tenuti insieme con scotch e colla) e boda-boda (moto taxi)  a tenermi compagnia, con la loro guida spericolata e i loro gas di scarico? Alla fine opto per questa seconda ipotesi, seppur non del tutto convinto, ma da qui, dove siamo, villaggio di Kalagi, a Nagallama, il villaggio vicino, ci sono circa otto chilometri di sali e scendi, quindi posso tuffarmi su quell’asfalto ed evitare di girare sempre intorno allo stesso punto. Via, allora, si esce. E si parte. Anche piuttosto bene, devo dire: mi sento abbastanza leggero, fresco, nonostante le dodici ore di viaggio di ieri, le cinque ore di sonno di questa notte e tutta la lunga e pienissima giornata di oggi. Saranno forse i bimbi che incontro a spingermi? Ce ne sono a centinaia lungo la strada, che scorgendo da lontano questo folle bianco correre, ridono e urlano contenti all’unisono “bye mzungo”! Non che mi faccia piacere essere chiamato a quel modo: questo nomignolo affibbiato al pallido europeo non è proprio un complimento, un saluto amichevole, ma piuttosto una maniera direi quasi dispregiativa per identificare, chiamare l’uomo bianco. Ad ogni richiamo di questo tipo rispondo quindi con un continuo “my name is not mzungo”, ma non sempre ho sufficiente fiato in corpo per segnalare ai bimbi il mio dissenso, quindi tanti di loro nemmeno sentono ciò che provo a dir loro e si lanciano sorridenti al mio inseguimento, chi in ciabatte, chi a piedi nudi; chi per cento, chi per cinquecento metri, tutti stupiti, divertiti, nel vedere l’italiano che corre lungo le loro strade. Credo di essere l’unico, anzi son quasi certo che siamo gli unici, a correre lungo questi saliscendi, visto che in tanti anni che vengo qui (quest’anno sono dieci), non ho mai incontrato, incrociato nessun altro allenarsi da queste parti, per cui per questi bimbi sono una cosa più unica che rara, un’attrazione, come il treno che passa dal paese del ragazzo di campagna e che desta stupore nei compaesani di Artemio (per i pochi che non lo sapessero, sto citando quel capolavoro de "il ragazzo di campagna"). Per di più il mzungo che corre è di un colore diversissimo dal loro e per alcuni questa è la prima voltache possono vedere da vicino un bianco, per cui... Altro che treno: un astronave, paio ai loro occhi!