venerdì 20 dicembre 2019

In campo a Naggalama


UGANDA 2019
E che palle! ‘sto polpaccio non vuole lasciarmi in pace e continua a farmi male, certo non impedendo di allenarmi, ma comunque creandomi fastidio. E che palle. Oggi però abbiamo la partita tra allenatori, quindi fastidio o meno si gioca, perché non c’è momento migliore per entrare veramente in contatto con le persone, per conoscerle e creare legami, come da sempre dico e sostengo. Non per forza in forma positiva, ma in campo si è veri, si è quello che si è, senza maschere o finzioni, si è puri, si è…umani, per riallacciarmi a ciò che si scriveva ieri. Gente che si presenta come santerella fuori dal campo, sorridente e "amante del prossimo", una volta indossati gli scarpini si trasforma e mostra la sua vera indole di origine bestiale, perde facilmente il controllo, si incazza per nulla, entra duro anche senza motivo...insomma, è quello che realmente è. Una bestia. Ed è da quegli attimi condivisi in campo che noi dobbiamo prender spunto per capire con chi ci stiamo rapportando, con chi abbiamo a che fare. A volte, ahimè, anche io che tanto bene predico, razzolo male e mi lascio fregare dal fuori campo, fidandomi, dando credito a qualcuno, per poi ravvedermi solo a posteriori, di fronte a comportamenti della persona non in linea con il personaggio che vuole presentare al mondo quando è senza palla tra i piedi, eppure perfettamente coerente con ciò che è quando si trova in campo. Solo che me ne accorgo dopo. Ma chi se ne frega. Testa alla partita, polpaccio o non polpaccio oggi si gioca! E ci si diverte con i mister. Ovviamente al termine della giornata, dopo la formazione mattutina e la seduta pomeridiana coi bimbi. Formazione su temi nuovi, affrontati qui per la prima volta, che mi sta divertendo e coinvolgendo particolarmente e che, soprattutto, cerco poi di mettere in pratica nel pomeriggio, sperimentando nuove esercitazioni utili per mostrare, spiegare ulteriormente, ciò di cui si parla in aula. Insomma, i corsi in giro per il mondo mi divertono sempre, ma questa volta forse un po' di più, arrivando anche a impegnare la mia mente quando sono in campo. Mentre gioco coi mister, infatti, nella mia testa rimbalzano "life skills e resilienza", tema di questa settimana ugandese, e ogni situazione di gioco la rivedo, la rileggo, attraverso queste "nuove lenti". E mi diverto, ci divertiamo, tanto che quando il mini arbitro (Charles, un bimbo del 2007 con una enorme personalità, capace di fischiare falli e fuorigioco senza farsi condizionare da quelli che normalmente sono i suoi professori o anche solo i suoi mister e che oggi vestono i panni di giocatori da arbitrare) fischia la fine della partita basta uno sguardo tra me e Michael per far proseguire la partita fino al calar del sole. È l'imbrunire a sancire la fine delle "ostilità", a farci rientrare nel personaggio, a farci dismettere i panni del bimbo per farci rimettere le maschere e farci tornare quelli che vogliamo sembrare e non più quelli che siamo. Fino alla prossima partita. Che spero sia il prima possibile.


mercoledì 18 dicembre 2019

Running to Kayunga


UGANDA 2019
Esco di casa che ancora il sole sta lentamente facendo capolino in un cielo azzurro, azzurrissimo e momentaneamente terso, e iniziando la mia corsa mattutina decido di andare verso Nord, di seguire la strada principale, nonché l'unica strada, “verso destra”, direzione Kayunga. Rispetto a quanto normalmente faccio, quindi, direzione opposta, strada conosciuta, ma non a memoria come quell’altra, anche se fin dai primi chilometri capisco che la sostanza rimarrà la stessa: continui saliscendi, a volte dolci, a volte un po’ meno, che mi accompagnano ad attraversare un paio di villaggi intervallati da campi aperti, incontrare un numero infinito di scuole e a incrociare gente. Gente che sbuca da ogni lato, gente che esce da casa per venire incontro a questo strano Mzungo che corre, gente…che mi chiama per nome e mi saluta! “Good morning, Alberto”, sento incredulo mentre annaspo sulle salite. Certo, non è che sono il Papa e la gente esca festante in massa dal proprio “salotto” (che non è proprio come quello che pensiamo noi) per salutarmi, ma sentirsi chiamare per nome da 4, forse 5 persone, nei 12 chilometri percorsi e soprattutto a migliaia di chilometri da casa, è comunque una strana cosa. E piacevole, perché aumenta in me quel “sentirmi a casa” cui facevo cenno ieri, quando ho rimesso piede nella scuola. Rientro quindi contento, seppur con un fastidio al polpaccio; doccia gelida, non per scelta, ma per necessità non essendoci acqua calda, colazione insieme a Max e Lorenzo e via, si riparte con il corso mattutino. Il livello degli allenatori, qui, è mediamente alto, per cui l’introduzione del nuovo tema si rivela meno ostica del previsto e la partecipazione dei coaches, sempre molto alta, attenta, interessata, facilita ulteriormente la condivisione di temi altrimenti non semplici. Tre ore, quindi, volano con semplicità, in un buon clima generale e soprattutto grazie ad un’ottima alchimia, un’ottima relazione tra i Basungo interisti. Normale tra me e Max, col quale ho condiviso almeno cento viaggi (e cento sono sicuramente pochi, se dovessi veramente mettermi a contarli, ma…che cazzo me ne frega di numerare i miei viaggi intercampisti???) e col quale ho un costante e solido feeling, liti o non liti, prese per il culo o meno, missione dopo missione; un po’ meno normale tra me e Lorenzo, visti i tempi che corrono. Invece, anche qui, questo posto magico ci mette lo zampino (almeno così credo io) e con i suoi vividi colori, la sua tranquillità dominante, la sua serenità avvolgente, i suoi ritmi…africani, ci aiuta a ritrovare quella condivisione di intenti, quel positivo spirito di collaborazione, necessaria per vivere al meglio l’esperienza lavorativa e non di questi giorni e per far arrivare ai nostri amici messaggi chiari e soprattutto univoci. Si, ne sono certo: è questo posto a rendere tutto più semplice, più…umano. Non so dire con precisione dove si nasconda questa magia, ma è così. Saranno i colori così accesi, vivi, unici; sarà il clima, sempre mite, piacevole, mai troppo caldo, mai troppo freddo; saranno le persone, mai troppo “a disposizione”, ma sempre comunque gentili, sorridenti e disponibili; sarà il paesaggio, naturale, puro, “africano”, ma mai pericoloso, selvaggio o “civilizzato”, sarà…l’equilibrio, si l’equilibrio unico di questo posto, che non ritrovo in nessun altro Paese che conosco, che visito costantemente, che mi, ci, permette di tornare ad essere umani e a vivere e lavorare come tali. Bisognerebbe avere sempre “un po’ di Naggalama” con noi, a disposizione, penso. Per “restare umani” (cit).


martedì 17 dicembre 2019

UGANDA 2019


UGANDA 2019
Il viaggio per arrivare nella “pearl of Africa” è sempre un massacro indescrivibile, che oltre a farmi rivivere momenti della mia vita ormai dimenticati come quello da poco descritto lascia in me segni importanti di stanchezza fisica, tanto che una volta arrivati al Cuamm a Kampala dopo 17 ore impiego dai 6 ai 7 secondi per crollare nel sonno. E che sonno. Profondo, profondissimo, ma non totalmente ristoratore, forse perché breve, tanto che al mattino, quando il “buon” Tito mi sveglia di soprassalto nell’ormai classico modo (ossia batte alla porta con le sue manone da muratore veneto, al punto da farla apparentemente crollare) mi sembra di essermi addormentato solo poco prima. Forse non è solo un “mi sembra”, però; forse è proprio così e quando ancora con gli occhi mezzi chiusi esco dalla stanza mi sento tutto fuorché sveglio e pronto per la giornata. Ma… anyway, va così e dopo la solita, frugale colazione la cui unica nota lieta è la moka, alle 9 sono di nuovo in viaggio, stanco o non stanco che sia, questa volta insieme a Michael, Opio e l’autista della scuola, direzione Naggalama. Per questo trasferimento normalmente impieghiamo dai 40 ai 50 minuti, ma purtroppo per noi  la stagione delle piogge ha deciso quest' anno di prolungarsi oltre e la continua e abbondante caduta di acqua quotidiana genera, come in tutto il mondo, un traffico inumano, che ci rinchiude in macchina per altre tre maledettissime e infinite ore! Da impazzire! Come in tutto il mondo, certo, ma qui anche la pioggia è “speciale”, per cui le conseguenze della sua abbondante caduta sono uniche, perché va bene il traffico, va bene il casino, ma rimanere fermi, immobili, per cinque minuti, con boda boda che si infilano da tutte le parti, macchine che si avventurano in contromano improbabili o matatu che cercano spazi inesistenti ove infilarsi, non è roba "di tutto il mondo". Solo qui e a Luanda ho visto cose del genere. Quando, dopo un tempo infinito, arriviamo alla nostra casetta vicino all’ospedale e posso finalmente scendere sono intontito, con la testa ovattata e i riflessi rallentati, come il giorno dopo una stupida sbronza, peggio di questa mattina, ma…non c’è tempo per provare a riprendersi. Siamo in spaventoso ritardo e tra meno di mezz’ora dobbiamo iniziare il lavoro, incontrando prima gli allenatori in aula e poi i bambini in campo, per dar forma al primo allenamento della missione. Insomma, chi si ferma e perduto, per cui ingurgitiamo velocemente una specie di pasta appiccicosa preparata dalla nostra house keeper Sandra e via, si vola al campo. Per fortuna a piedi, visto che siamo vicinissimi. Non voglio salire su una macchina per il resto dei miei giorni a Naggalama! Quando due minuti dopo entro dal cancello della scuola, rivedo il campo verde smeraldo con l’enorme mango a fare da sentinella, riabbraccio i “miei” allenatori, rivedo centinaia di maglie neroazzure vestite da centinaia di bimbi e bimbi del villaggio…la stanchezza sparisce, riacquisto vigore e parto, con quella strana sensazione addosso che mi fa credere di essere esattamente dove dovrei essere. Sensazioni uniche che fungono da eccitante, da integratore energetico, tanto che le ore passate sul campo volano via velocemente, senza lasciar traccia, senza ulteriori segni di fatica. Addirittura la sera riesco a vedere senza cedimenti tutta la partita col Barca (maledetto Lukaku e quei due gol sbagliati clamorosamente), che qui è trasmessa alle 23, essendo noi due ore avanti in questo periodo dell’anno. Peccato solo che non si concluda come speravo…Amen. Ora posso crollare e dormire tranquillo, per lo meno per le prossime sei ore. Poi si ripartirà con una bella corsa, prima di tornare al campo. 


domenica 15 dicembre 2019

Ricordi dal campo


UGANDA, Dicembre 2019
È da tanto che non prendo in mano questo computer per buttar giù un po’ di parole, per lasciar defluire i miei pensieri e svuotare il mio cervello, il mio petto, ma forse per il ritmo frenetico di questi mesi nel viaggiare, forse anche per gli accadimenti, non son fin qui mai riuscito, o meglio non ho fin qui mai voluto trovare il tappo da tirare e ho sempre preferito rimandare, accantonare in un angolo le cose e aspettare. Ora però, durante questo infinito viaggio verso Kigali prima e Entebbe dopo, che mi sta tenendo incollato, fermo e annoiato al mio posto già da più di sei ore, ho sentito il bisogno, l’esigenza di vomitare su questa tastiera qualcosa. Non so per quale motivo, non so nemmeno perché ora stia fissando su questo schermo proprio questa cosa, ma poco fa, mentre finiva il film col quale provavo a far passare il tempo, da non so quale remoto angolo della mia memoria è saltato fuori un momento della mia vita che nemmeno ricordavo e che ora mi è apparso in tutto il suo splendido e fortissimo realismo. Saranno stato le note del boss, sarà stata la storia che stavo guardando a condizionarmi, ma all’improvviso l’aereo su cui sono seduto si è trasformato nel vecchio “carrozzone”, la macchina di papà, volvo 740 station wagon, grigio scuro, e io dallo scomodo seggiolino con al mio fianco il signore Rwandese dormiente, mi sono ritrovato seduto al posto del passeggero con papà alla guida, direzione Interello. Era forse il 1993, o il 94, e l’Inter mi aveva chiamato per un provino, così finita la scuola volo sul carrozzone per andare a giocare, ma…la tangenziale ovest è bloccata. Bloccatissima. Non ci si muove e inesorabilmente l’orario della convocazione viene raggiunto e superato, con noi, io e papà, ancora fermi lungo la strada. Piango, cazzo, piango disperato! Una occasione come questa persa per un maledetto incidente e niente che possiamo fare per rimediare. Papà però non si scompone, non è nervoso, mi continua solo a ripetere a mo’ di mantra “prima o poi arriveremo e potrai allenarti”. Lapalissiano, oserei dire. Certo che prima o poi arriveremo, ma cazzo non all’orario della convocazione e chissà quindi se davvero potrò cambiarmi e partecipare alla seduta! Non vedo luce in fondo al tunnel, nonostante i tentativi del mio daddy e quando finalmente arriviamo al centro sportivo mi catapulto fuori con la lettera di convocazione in mano, sperando di poter far qualcosa nonostante il terribile ritardo. Mi accoglie, per modo di dire, Giampiero Marini, che ritira la mia lettera, non dice una sola parola riferita al ritardo clamoroso, mi indica lo spogliatoio e mi dice che avremmo fatto una partita e che avrei giocato terzino sinistro. E che cazzo, ma oggi non me ne va bene una! Sono destro, il mancino so di averlo giusto perché mi accorgo di non camminare zoppo, e ora mi volete far giocare sul piede debole? Ma allora c’è una congiura contro di me, penso terrorizzato e un po’ incazzato. Poi però mi danno la maglia bianca col numero tre, esco a far riscaldamento e qualcosa scatta: chi se ne frega del ruolo! Vediamo di combinare qualcosa. Corro, attacco, difendo e…segno. Di destro, però. E per tutta la partita, almeno questo è ciò che la mia mente mi fa’ rivivere, gioco e mi diverto, senza timori o emozioni negativa. Al triplice fischio ci radunano in mezzo al campo e il mister fa tre nomi, dice a tre di noi di fermarsi. E io sono tra quelli. Ci consegna un pallone a testa mentre i compagni di quel giorno escono dal terreno di gioco e ci chiede di palleggiare, cambiando continuamente la richiesta: piede forte, piede debole, alternato, con le cosce…Quindi ci mette a triangolo e ci fa calciare e ricevere il pallone, chiedendo diverse ricezioni e diversi stili di calcio,  per poi portarci a condurre e calciare in porta, prima di liquidarci con un freddo “ti faremo sapere noi. Contatteremo noi la tua società”. Le emozioni sono tante, tantissime in me, dall’euforia per la buona partita giocata, alla preoccupazione legata al non sapere cosa succederà di me; dall’orgoglio per avere per la prima volta vestito quella Maglia e aver giocato a Interello, al timore di non essere stato all’altezza. Ricordo bene quel campaccio in terra (il sintetico era ancora di la da venire); ricordo che faceva freddo; ricordo che lo spogliatoio era gelato e vecchio, vecchissimo ed era sporco, sporchissimo, pieno di fango lasciato dalle scarpe dei ragazzi che mi avevano preceduto; ricordo di non aver parlato quasi per nulla con papà al ritorno, ma di aver percepito della soddisfazione, della felicità in quelle poche che ci siamo scambiati. Non mi ha gasato, non mi ha riportato drasticamente coi piedi per terra: mi ha lasciato lo spazio e il tempo per godermi quel momento, senza interferire, senza parole inutili, senza dirmi lui cosa avrei dovuto pensare o provare. Ed è questa una cosa che forse al momento non ho compreso, ma che ora apprezzo e dalla quale voglio prendere esempio per il mio ruolo di papà: sostieni, accompagna, stai loro vicino, ma lascia che siano loro a far le cose, a viverle e a sentirle. Non sostituirti a loro, non enfatizzare o drammatizzare le cose, per non rischiare di imporre il tuo sentito, ciò che vuoi tu a ciò che vorrebbero loro. E poi vediamo cosa succede, sempre con me al loro fianco. Come è stato ed è per me. Anche se ora al mio fianco son tornato ad avere il mezzo alcolizzato rwandese…