martedì 2 ottobre 2018

Alla scuola "speciale"


30 bambini, 16 io e 14 Juri, tra i 6 e gli 8 anni, tutti con dei ritardi più o meno evidenti nello sviluppo cognitivo e conseguentemente motorio, chi per problemi legati all’ abuso di alcol da parte delle madri, chi perché maltrattato da piccolo, chi perché nato così e basta. All’inizio sono increduli, non capiscono bene perché io sia li, perché queste persone con la maglia dell’inter siano loro davanti con dei palloni e dei cinesini, perché stiano loro sorridendo e stiano mostrando un gioco da fare. Alcuni chiedono più volte se siamo davvero italiani, se davvero arriviamo da così lontano…per loro. Quando però iniziamo la seduta man mano che l’esercitazione prende il via, si sciolgono, ci seguono, ci sorridono, si divertono e, pur mostrando tutti i loro enormi deficit, tutti i loro importanti limiti, cercando di impegnarsi al massimo per apprendere. Scontato per me, come per chiunque altro di fronte a queste situazioni così diverse dalla propria, volare con la mente a migliaia di chilometri da qui e avvicinarmi ad Anna, alla sua e nostra fortunatissima condizione che con troppa semplicità, con troppa superficialità, consideriamo scontata, ovvia, normale, quasi dovuta. Quando con la testa torno nella palestrina della scuola la mia attenzione si sofferma su due bambini in particolare: Katia e credo Nikita, ma forse sbaglio il suo nome, che nel corso dell’allenamento hanno mostrato ancora una volta la forza della palla. La prima è una bimba di circa otto anni, che fatica a comprendere e ad esprimersi correttamente, si muove male (non flette quasi le ginocchia mentre corre , tallona in maniera spaventosa, ha il busto e le braccia rigide e con grande difficoltà riesce a legare insieme due movimenti, anche se elementari come il correre e il lanciare) e all’inizio è quasi spaventata dalla mia presenza. Io però la chiamo per nome, le sorrido, la sostengo con parole che lei non comprende, ma di cui coglie il significato e pian, piano si scioglie e si lascia prendere dal gioco. Il suo allenamento raggiunge l’apice quando nell’esercitazione con i tiri in porta decide di andare in porta e Juri la avvicina per darle dei consigli per stare tra i pali: lui diventa il suo riferimento, ogni volta che riusciva a fermare un pallone con le mani lo porgeva a lui e soltanto a lui e ogni volta che “parava” e veniva da noi gasata con applausi e urla, stringeva i pugni in segno di soddisfazione, sorridendo contenta. Un’altra bimba rispetto solo a mezz’ora prima e tutto per via di un pallone.
Il secondo è un bimbo di forse dieci anni, anche lui con un ritardo nello sviluppo cognitivo, spaventato, chiuso e molto fragile. Teme di sbagliare, si vede, e non vuole cimentarsi nelle prove che proponiamo. Quando prende il coraggio a due mani e decide di provarci manca miseramente il pallone e piangendo decide di uscire dal campo per sedersi. Inizia a dondolare, a piangere e, nascondendo le mani sotto le maniche lunghe, a sfregarsi le dita come se dovesse togliersi della polvere dai polpastrelli. Provo ad avvicinarmi, gli parlo in Italiano e non so perché lui pare capire, ma mi risponde sempre “niet” (provo a convincerlo a tornare in campo e giocare con noi, fregandosene dell’errore), fin quando una sua maestra prende il mio posto e lo abbraccia dolcemente. Rimane seduto ancora per un po’, poi decide di rientrare e anche lui decide di andare in porta. Visto il livello bassissimo di tutti i compagni riesce a “parare” qualche pallone (in realtà viene colpito dalle sfere malamente calciate dai compagni, ma chi se ne frega) e accompagnando noi l’impresa con applausi e sorrisi, anche lui, come la compagna, termina l’allenamento col sorriso. Per bacco, che forza questa palla magica.


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