mercoledì 5 febbraio 2020

Pictures


Fighting against pollution.



L'unico modo di vedere le alte vette: dall'aereo! E nemmeno bene.



Più scimmie che uomini in giro per templi.



Tempio di swayambhunath



Durbar square.

martedì 4 febbraio 2020

L'aria irrespirabile della città

Quando parto per questo campo del mondo tutte le persone con cui parlo non fanno che ripetermi "chissà che bello...chissà che aria fresca...chissà che natura selvaggia...", perché questo è ciò che ci viene in mente pensando a Kathmandu. E anch'io pensavo sarebbe stato così, invece...invece la città si trova in una vera e propria conca, la valle di Kathmandu, che blocca in un certo senso i fumi inquinanti prodotti dall'uomo, impedendone la dispersione e pur essendo a 1400mt di altezza per questo motivo non è propriamente un centro di aria fresca e pulita. Anzi. Polvere e smog rendono, per lo meno a me, irrespirabile l'aria, mi fanno bruciare gli occhi e nel corso della settimana che trascorro da queste parti vengo preso da mal di gola e tosse di vario genere. L'ultima volta son tornato con l'asma e tutte le volte che son qui, inesorabilmente, penso: che disastro che siamo. Distruggiamo tutto ciò che incontriamo, non siamo in grado di salvaguardare, rispettare nulla e anche un posto così affascinante, carico di storia, cultura e tradizioni, così distante, diverso dal nostro mondo e per questo, forse, così intrigante, stimolante, viene fagocitato, devastato dall'uomo e si riduce ad essere una città sovrapopolata (quasi un milione di abitanti), caotica, ultra inquinata e desolatamente sporca. Che peccato. Pensare che l'Everest dista da qui, in linea d'aria, 160 km e non si riescono a scorgere le sue cime a causa dell'inquinamento che circonda la città e rende il cielo grigio, sporco e impenetrabile mi mette tristezza. O forse più preoccupazione, pensando a ciò che le nane di case si ritroveranno intorno per causa nostra. Pensare che questa è una città di enorme valore, significato, per Buddhisti ed Induisti e i suoi templi, per quanto ancora carichi di fascino, siano rovinati, corrosi, dall'inquinamento, oltre che segnati dal terremoto del 2015, mi fa' capire come nemmeno la Fede possa essere un freno alla stupidità umana. Qui come in tutto il resto del mondo. Va be', dopo questo qualunquistico discorso posso tornare in campo.

venerdì 31 gennaio 2020

Il "gelo" in una stanza.


NEPAL Giorno 2
Ma che freddo fa in questa stanza??? Assurdo. Non è possibile! Ci saranno 3 gradi in camera, mentre fuori si riesce tranquillamente “a sopravvivere”, con la temperatura che arriva anche a 10 gradi, quindi più che tollerabile. Il problema è che prima o poi devo far ritorno in hotel e li si gela. Di notte poi si toccano punte di freddo inspiegabili: dormo con la calzamaglia, la maglia a maniche lunghe, la felpa, le calze, la borsa dell’acqua calda abbracciata e non so nemmeno più quante coperte sopra. E riesco ad avere freddo. Terribile. L’unica mia fortuna è che ho un sonno da record e quando mi addormento nulla può ridestarmi, per cui freddo o non freddo, una volta toccato il cuscino per me inizia la fase rem; per lo meno fino a quando non devo alzarmi per far pipì (qui si bevono mille the differenti durante il corso della giornata, per cui la notte è una staffetta continua in direzione toilette), perché li inizia la sofferenza. Uscire dallo strato di coperte non solo risulta essere una prova di carattere, ma anche una prova fisica vera e propria, perché tutte insieme le coltri pesano non poco e di conseguenza spostarle non è propriamente una banalità, ma…bisogna. E il peggio deve ancora venire, perchè le piastrelle della stanza sono praticamente una lastra di ghiaccio, mentre il bagno, non riesco a capire per quale motivo, è una sorta di bagno turco, ma di vapore freddo! Talmente umido che lo specchio è perennemente coperto da uno strato di acqua, come quando fai la doccia d’inverno e la stanza diventa Ronco Briantino alle 21 a dicembre, con tutto l’ambiente molto  più simile ad uno stagno, che ad una camera di una stanza d’hotel. Madonnina! Quando mi rituffo sotto la tonnellata di coperte è una vera goduria, al punto che riprendo sempre sonno in brevissimo tempo, per cui comunque al mattino mi sveglio bello riposato, nonostante il naso gelato. E per fortuna, perché oggi, per esempio, siamo stati in campo alla scuola Beercheba e se non avessi ben dormito avrei sicuramente un po’ patito lo scorrere del tempo, invece…fresco come una rosa (gelata), insieme a Gabriele (lui perennemente insonne, invece) ho seguito i nostri ragazzi nei loro allenamenti della giornata senza colpo ferire. E che fatica. Non mia. Per loro, intendo. Grande entusiasmo, grande volontà, grande attenzione, ma dei limiti motori che si palesano nel tecnico importanti. Importantissimi, considerando le età di qualcuno, tanto che la seduta avanza con grande coinvolgimento, grande divertimento generale, ma toccando temi molto semplici, molto elementari, a prescindere dalle età dei bambini coinvolti. E in queste occasioni mi rendo conto che il nostro intervento in loco è troppo breve, troppo ridotto, sicuramente insufficiente, perché per quanto bravi siano i nostri allenatori, anche loro sono alle prime armi, alla prima esperienza con il magnifico mondo dell’allenamento, per cui lasciarli da soli per sei mesi e rimanere con loro per una settimana solamente è troppo poco, per poterli preparare a colmare le grandi lacune dei nostri bimbi. Dovremmo cambiare struttura, dovremmo pensare ad una evoluzione dei nostri interventi, perchè così, per me, siamo poco efficaci, incisivi. Un allenatore che si ferma per due, tre mesi, potrebbe essere una soluzione, o anche solo un mese, continuativo, sarebbe già una evoluzione, ma…va pensata e forse non è questo il momento per farlo. E allora accantono immediatamente questo pensiero, mi risvolto le maniche e provo nel tempo che ho a disposizione a lasciare più informazioni, contenuti, esempi, spiegazioni possibili, fruibili sia dai bimbi, che dagli allenatori e mi metto in attesa di rientrare da queste parti per portare aventi il lavoro e provare a migliorare le cose anche su questo campo del mondo.


giovedì 30 gennaio 2020

Katmandu e i suoi dubbi


GIORNO 1
Il risveglio dopo una trasferta di questo genere e con 4 ore e 45 minuti di fuso (chissà perché 4:45 e non direttamente 5?) è sempre un po’ traumatico, ma sarà l’eccitazione per essere tornato da queste parti, sarà la concentrazione dovuta al lavoro da affrontare, dopo il mio classico risveglio muscolare mi sento fresco e riposato, pronto per la giornata, e il trauma della sveglia rimane circoscritto al solo momento del suono della stessa. Un po’ meno pronto, ahilui, uno dei compagni di viaggio, Gabriele, che non si presenta all’orario stabilito per la colazione e si ridesta solo a seguito del mio deciso bussare alla sua porta. Questo perché non ha praticamente dormito tutta notte, vittima del jet leg (che per me non esiste, ma questo è un ampio discorso che qui non affronterò. Per lo meno non ora) e quando la sveglia ha provato a chiamarlo nel mondo dei desti, non ha saputo, non ha potuto in nessun modo rispondere. Io impazzirei! A me che piace dormire, che non posso nemmeno immaginare una notte insonne, che non reggo la stanchezza dovuta al sonno, una disavventura come la sua non saprei proprio come gestirla, come viverla. Lui invece sembra abituato, tanto che, seppur sbattuto, non appare particolarmente provato nel corso della mattinata, per quanto questa si sia rivelata abbastanza intensa, seppur piacevole. Intensa perché gestire un’aula in inglese non è mai semplice, anche se la guida è rimasta per lo più in mano mia, e riuscire ad essere efficaci ed efficienti per sfruttare al massimo il tempo a nostra disposizione coi mister locali, dopo una notte insonne…be’, non sono nemmeno in grado di immaginare come poter fare. Non ne sarei capace. Bravo lui. Ma a parte questo, bravi noi, perché al termine sono piuttosto soddisfatto di come sono andate le cose, anche se…anche se alcune cose di cui ho parlato con loro proprio oggi sono fonte di riflessione per me in questi mesi, per cui non sono totalmente convinto, sicuro, perfettamente allineato con ciò che poi ho condiviso. Certo, niente di importantissimo, nessuna questione di vita o di morte, si parla di allenamento e metodologie, ma comunque sono argomenti che fino a non molti mesi fa sentivo completamente miei e sui quali ora nutro qualche dubbio, qualche perplessità. Di conseguenza per rimanere coerente con quanto fin qui portato avanti nei vari paesi col progetto ho mantenuto la classica linea, ma nel momento stesso in cui dicevo certe cose ai mister, nascevano in me nuovi dubbi, nuove domande rispetto proprio a ciò che stavo dicendo e…be’, non è stato facile. Non facile, ma credo comunque positiva questa cosa: ritengo che “tutto scorra” (magari non son proprio io ad aver elaborato questo pensiero, però lo faccio mio molto spesso), le idee mutano, l’esperienza allenamento dopo allenamento, viaggio dopo viaggio, mi sta portando in questo periodo come non mai a nuove riflessioni, a nuovi punti di vista, sto iniziando ad aprire, o per lo meno ad immaginare, nuove strade, nuove vie per i miei allenamenti, che in alcuni casi mi portano a sperimentare sul campo cose per me nuove, per cui son contento di nutrire dubbi, di mettere in discussione certe cose che davo per assodate, però…non è facile. Oltretutto in trasferite come questa! Meno male che tra poco andiamo con Kishan e i suoi amici a giocare a calcio! Li, in quel campo, tutto si chiarisce, tutto diventa più facile! Almeno per un po’.


mercoledì 29 gennaio 2020

Nepal 2020

NEPAL 2020
Mi sveglio di soprassalto, seduto in questo ennesimo scomodissimo e strettissimo sedile, dell’ennesimo piccolissimo e sgangheratissimo aereo, e appena apro gli occhi, non so perché ancora con indosso gli occhiali, scorgo fuori dal finestrino una strana linea all’orazione, che delinea delle sagome rigide, per nulla ondulate, di diverse altezze. La fioca luce dell’alba che illumina questa linea da destra me la fa apparire come un elettrocardiogramma, con qualche picco qua e la, come se il soggetto si fosse spaventato improvvisamente durante l’esame. Ai piedi di questo tracciato un tappeto bianche di qualcosa che appare come fumo, di colore grigiastro. Sbatto gli occhi per cercare di mettere a fuoco il tutto e, grazie anche all’aiuto del sole che lentamente sta prendendosi il suo posto nel cielo, dopo pochi attimi di incertezza riesco a vedere con maggior chiarezza ciò che mi appare: sono montagne, anzi sono LE MONTAGNE, altissime, maestose, imponenti. È la catena dell’ Himalaya quella che mi si mostra in tutto il suo splendore. Ci siamo quasi, quindi, sono ormai arrivato alla meta di questa mia prima missione del 2020: Katmandu. L’aereo fa una leggera virata verso destra e le cime innovate si nascondono, non riesco più a vederlo chiaramente come poco fa, per cui, non avendo distrazioni fuori dal finestrino, nel giro di pochi secondi torno a dormire. Sfrutto il poco tempo che presumo debba mancare all’atterraggio, visto che sono stravolto per via del lungo, lunghissimo viaggio. Crollo quindi nel sonno e riprendo conoscenza solo quando l’aereo tocca, non proprio delicatamente, terra: ormai è giorno, la luce è chiara e illumina bene il mondo la fuori e…cazzo, questa non è Katmandu! Dove diavolo siamo atterrati? Un attimo di smarrimento mi accompagna e, preoccupato, metto a tacere i Linea 77 che stavano pompando nelle mie orecchie per provare a capire qualcosina. Parte l’annuncio proprio in quell’istante e capisco di non essermi sbagliato: a causa delle cattive condizioni meteorologiche il volo è stato dirottato su Lucknow, una “piccola” città indiana dello stato dell’Uttar Pradesh di poco più di 2 milioni di abitanti. E ora? S’a fem? Aspettiamo che ci dicano qualcosa, che altro possiamo fare? E l’attesa, fortunatamente, è breve: rimarremo qui, sulla pista, giusto il tempo di ricevere l’ok da Katmandu per fare dietrofront e fare scalo definitivo alla corretta destinazione, non prima, però, di aver fatto un minimo di “rabbocco” del carburante.  E, ancora una volta fortunatamente, la cosa si risolve in un paio d’ore. Riesco così a raggiungere la meta che sono le 12:05, con “solo” quattro ore di ritardo, pronto per affrontare l’inferno dell’aeroporto di Katmandu: prima le pratiche per il visto, poi il disorganizzassimo passaggio al controllo passaporti e quindi la vera bolgia dantesca, ossia il ritiro bagagli! Una confusione assoluta, gente in ogni dove, valige sparse da tutte le parti, poche a girare sui nastri, polizia sparsa qua e la immobile, ferma ad osservare e tu, carico di speranza, intento a cercare il tuo zaino tra quelli in giro per il salone. Anche qui, però la dea bendata mi viene incontro e la caccia al tesoro dura solo qualche minuto: vicino ad altre valige riesco a riconoscere il mio zaino e così, finalmente, dopo “appena” due ore dall’atterraggio riesco ad uscire, a vedere la luce del sole, pronto per un altro inferno: il traffico di Katmandu! Ma ormai sono arrivato, va bene cosi: son pronto a tutto.