lunedì 16 febbraio 2015

Immagini


Lo sviluppo della lateralità...questa sconosciuta!


In campo a Mndongo!


                                                          Con Roby in osservazione!


La polvere di Bamenda.

venerdì 13 febbraio 2015

L'angolo del mister

L’ANGOLO DELL’ALLENATORE

Musica consigliata: Redemption song, Bob Marley (per rilassarsi, se no uno si incazza!).
Son duri, come dice il Pihardi. Madonnina se son duri. Alcuni ci provano e si impegnano, altri hanno anche ormai imparato a lasciar fuori dal campo il bastone per frustare i bambini che sbagliano (le prime volte che venivo qui era la norma), per armarsi solo di sorriso, intensità nelle proposte e attenzione ai bisogni reali del giocatore, ma in generale…son duri! Fanno fatica a capire e a far proprie le cose, il più delle volte copiano, ricalcano passo dopo passo le tue sedute, i tuoi allenamenti, in maniera fredda, per nulla personale e senza entrare in relazione con i bambini, limitandosi così a proporre, non ad allenare. E qui, che ci hanno incontrato per la prima volta, queste caratteristiche tutte camerunesi sono emerse in tutta la loro purezza. A parte qualche eccezione. E questi devono essere i nostri cavalli. Come Flora o … e forse anche Wilson: tutti allenatori svegli, che hanno recepito il messaggio, l’han fatto proprio e messo in pratica sul campo, dando vita ad esercitazioni belle, valide e…loro. Certo su 34 un po’ pochini, ma essere allenatore inter campus non è per tutti nemmeno in Italia, quindi partiamo da loro e andiamo avanti, domandandoci tutte le volte: perché? Perché copiano la mia esercitazione? Perché maneggiano i contenuti teorici, ma in campo, gli aspetti pratici, rimangono sempre lontani da quelli da noi desiderati? Ora mi lancio in una disamina sociologica...Occhio!!! 

In questi dieci anni di Africa mi sono spesso imbattuto in questo problema, ho spesso, e tuttora ci provo, cercato di stimolare la loro fantasia, di far emergere il loro modo di essere allenatori, il loro proprio, unico e per questo validissimo "stile", ma a parte i pochi "illuminati" (di cui ho già parlato), le vittorie son state pochine. Al punto che mi son detto che forse era già qualcosa fargli fare ciò che facciamo noi, lasciargli copiare le nostre sedute: per lo meno avrebbero abbandonato il bastone e avrebbero sviluppato sedute incentrate su di un solo obiettivo e non sui soliti mille, introducendo divertimento e apprendimento, ma...ma non è questo il mio obiettivo. E allora cosa si può fare? Questo approccio al lavoro lo si rivede in tante altre cose, in tanti altri luoghi, ove se manca il bianco a muoverli a bacchetta, a comandarli su tutto, a far loro da modello, le cose vanno a ramengo, quindi che possibilità posso avere io, con la mia semplice, seppur bella, pallina di cuoio? Perché si comportano così? "Perché son duri" fa sorridere come spiegazione, ma non la ritengo valida. E se fosse per colpa nostra? In fin dei conti gli africani fino ai primi anni sessanta, gli anni dell'indipendenza, hanno subito la nostra violenta e assoluta dominazione, che li ha costretti...ad eseguire, fare meccanicamente ciò che noi imponevamo loro, senza applicazione del pensiero, senza elaborazione di una qualche forma di azione "autonoma"; e se tu educhi il giovane calciatore a giocare la partita guidandolo dal primo all'ultimo minuto, consigliando ogni soluzione, ogni gesto, ogni sviluppo della manovra, questi vivrà la partita stile omino di PES, mosso dal joypad, per nulla indipendente e nel momento in cui io, improvvisamente, cesserò di guidarlo dalla panchina, questi andrà a sbattere contro avversari e palo, incapace di scegliere, di giocare liberamente. Ecco, forse i nostri allenatori non sono altro che il frutto della nostra dominazione e hanno ancora quel maledetto joypad in c..o e si aspettano che sia il bianco a manovrarlo e a portarlo dove vuole. E per uscirne serve solo perseveranza, continuità negli interventi, al fine di staccare quel filo e liberare i nostri mister. Forse... 

giovedì 12 febbraio 2015

At the end of the road

AT THE END OF THE ROAD


Canzone consigliata: “End of the road”, E. Vedder, Into the wild.
E così, dopo tre giorni intensissimi di corso e allenamenti pomeridiani, dopo aver conosciuto e provato a formare i 34 allenatori presenti, per cercare di selezionare tra loro qualcuno capace di dar inizio alla cellula di Bamenda (provato…cercare di selezionare…niente di certo, niente di riuscito: qui son duri!!! Hanno un’idea, un’immagine dell’allenamento che solo col tempo può essere cambiata, modificata, quindi…perseverare, mister, perseverare deve essere il verbo cardine!), rieccoci in macchina, rieccoci su questa strada polverosa e dissestata che, tagliando in due la foresta e attraversando villaggi e piccole città, ci riporterà a Yaoundé. E lungo questa lingua di asfalto non cessano le scoperte…folcloristiche, tipicamente africane, come il taxi pieno come lo stadio ad un concerto del Boss, che raccoglie un ulteriore passeggero e lo mette comodamente a sedere nel bagagliaio, tenendo aperto il portellone; o quell’altro taxi, pieno come il fottuto treno che tutte le mie mattine italiane mi porta a Sesto da Arcore, che decide di accogliere altre persone a bordo e le mette a sedere fuori, quattro sul cofano e sei sul tetto (giuro, non sto mentendo! Un taxi tenuto insieme da non si sa quale forza fisica, carico all’inverosimile dentro e fuori!); o ancora quella macchina ricolma di verdure, frutta e altra roba di ogni genere, dalle patate alla manioca, talmente piena da costringere il guidatore schiacciato contro la portiera e il finestrino, capace di condurre l’auto con le braccia tese sul volante e il corpo rivolto verso il sedile del passeggero. Folclore africano, si diceva. Come folcloristiche sono anche le soste ai “banchi della frutta” posti a bordo pista, con queste donne intente a vendere la propria merce, applicando prezzi da bianco, o normali, a seconda del cliente: ananas giganti, papaye gustose già alla sola vista, avocados, mango, banane, plantain e tutta la frutta che vi viene in mente! Fantastico! Non solo per la qualità “bio”, bien sure, della merce, ma anche per tutto il lavoro che bisogna fare per ottenere un prezzo competitivo: insieme a Francis la contrattazione è da sempre la parte più divertente dei nostri acquisti, tra un sorriso, una battuta e i loro tentativi di vendere più roba di quella che hai chiesto, ad un prezzo diverso di quello riservato al nostro compagno di viaggi. Può sembrare snervante per noi, abituati all’esselunga, col prodotto pronto, il prezzo chiaro, esposto, che di corsa facciamo la nostra spesa, senza quasi vedere la cassiera o il ragazzo della frutta e a volte lo diventa, perché…son duri! Però mi diverte e con Francis è sempre un’occasione per parlare e, per lui, per insegnar loro qualcosa.
Rieccoci quindi in macchina e rieccoci dopo 6 ore (madonnina: 6 ore per coprire 283 km!!! In bici sarebbe stato uguale!) a Yaoundé, per una rapida doccia prima del trasferimento in aeroporto e il ritorno a casa. 8 giorni volati, 8 giorni intensissimi, 8 giorni di gran lavoro, di grandi esperienze e di gran…vita! Prima del prossimo campo.

mercoledì 11 febbraio 2015

Incontri

GERD JANKE

Girando quel poco di mondo che l’Inter finora mi ha dato modo di vedere ho avuto modo fino ad ora di incontrarne parecchie di persone interessanti, che mi hanno incuriosito per la loro vita, per la loro storia, per quello che stavano facendo. Matteo in Uganda, Gabriele in Congo, Chicco in Tunisia per citarne qualcuno, ma finora nessuno aveva una storia e un obiettivo accattivante come quello di questo signore di “più di sessant’anni” (non ha voluto dire quanti), tedesco, con la barba e i capelli biondi, lunghi, da vero Normanno, finito in Camerun, a Bamenda…in moto!!! Gerd, questo il suo nome, una volta andato in pensione, dopo anni vissuti da marinaio, girando il mondo, ha deciso di esplorare la parte di globo terrestre che ancora non ha visto a bordo del suo GS e così è partito ad Agosto 2014 da Brema, la sua città ed è partito: Francia, Spagna, Marocco, Mauritania, Senegal, Mali, ancora Senegal, Costa d’Avorio, Togo, Nigeria, fino ad arrivare ora qui, a Bamenda, ed essere costretto a fermarsi per un po’ a causa delle condizioni di salute precarie del suo compagno di viaggio, un 22enne tedesco come lui, incontrato sulla strada, e ora debilitato dalla malaria e dal tifo. Da qui il suo obiettivo è spostarsi verso il Gabon, quindi iniziare a scendere verso il Congo, la Namibia, giù, giù fino alla fine del continente per poi risalire e, se la situazione politica lo permetterà, arrivare fino in Somalia per “cambiare” continente e proseguire il suo giro del mondo. Tempo previsto per questo viaggetto? 5 anni!!! Madonnina! 5 anni! 5 anni durante i quali l’unico pensiero è l’oggi, dove andare, come muoversi, che strada percorrere; 5 anni per incontrare gente, scoprire città, paesi, persone; 5 anni per provare a vivere la vita, senza obblighi, impegni lavorativi, necessità fittizie e consumistiche. Grandissimo. Che invidia. L’unica cosa che mi ha lasciato un po’ perplesso di questa sua fantastica avventura è il fatto di aver lasciato la “girlfriend”, come la chiama lui (a sessanta e più anni, ormai di girl avrà ben poco) a casa, per rivederla solo in Namibia per un paio di settimane e quindi una volta ogni tanto nelle sue tappe per il mondo. Cacchio, io un viaggio del genere, una vita del genere, vorrei assolutamente condividerla con Si! Per lui invece è normale, scontato, vivere in solitario il viaggio. “Lei deve lavorare e io non posso stare a casa ad aspettare”, mi ha detto. 
Buon viaggio, Gerd! Ti seguirò col pensiero e chissà, magari ci rivedremo…sui campi del mondo!

martedì 10 febbraio 2015

Bamenda

BAMENDA


Città, o forse meglio definirlo un paese cresciuto che finge di essere moderno, avvolta nella polvere, posta sulla cima delle montagne dell’altopiano dell'Adamoa, a circa 1500 mt, caotica e puzzolente. Questi gli aggettivi che mi vengono in mente. Avvolta costantemente da un sottile, eppure persistente, strato di polvere, mista ai fumi scuri e inquinati delle mille auto e dei mille lentissimi camion che la attraversano continuamente, colonizza con i suoi pulviscoli occhi (sempre rossi e pieni di sabbia), bocca (sempre secca) e naso, rendendo più che in ogni altro luogo falso il pensiero comune che lega l’idea di Africa a quella dell’aria pulita e della natura incontaminata. In tante altre città del continente nero ho avuto modo di verificare l’inesattezza di questo pensiero: Luanda, Kampala, Kinshasa, Douala o la stessa Yaoundé, ma qui il contrasto tra mondo dell’immaginario e realtà raggiunge il culmine. La natura è tutta intorno a noi, pressa la città come Medel pressa il portatore palla, ma sporcizia, tubi di scarico e polvere rallentano, contengono il suo incedere. Anche allenarsi diventa antipatico, perché dovendo circoscrivere le mie corse allo “stadio”, dove facciamo allenamento coi bimbi, o alla strada, trovarmi in affanno aerobico e respirare solo aria nera o rossa non è propriamente piacevole. Ieri, finita la seduta con i nostri bambini, sono uscito dal campo rosso in faccia e sulle mani, come se mi avessero messo la cipria e quando, dopo la mia corsa, ho avuto finalmente modo di lavarmi (con la doccia che va a singhiozzo, capace di regalare acqua “a pisciolino”, come dice Roby, o getti tipo manichetta dei pompieri!) sembrava avessero sgozzato un capretto in bagno, per quanto rosso fosse diventato. Condizioni ambientali sfavorevoli a parte ( che tra l’altro sono causate da noi uomini, quindi “chi è causa del suo male, pianga se stesso, dice il saggio), a Bamenda ci troviamo bene fin da subito, grazie all’accoglienza e alla simpatia della gente che incontriamo, allenatori e non. Come spesso mi accade, il primo impatto è quasi spaventoso: “l’uomo nero” mi guarda con sospetto, quasi arrabbiato mi scruta, mi osserva, fin quando un mio sorriso e un conseguente saluto non lo liberano di questa diffidenza e lo spingono a rispondere al mio cenno cordiale, spingendolo a volte ad avvicinarsi per attaccare bottone, o anche solo per farmi una battuta (quanti vedendomi correre mi hanno urlato “dai, bianco, che manca poco”, o “corri bianco, corri, bravo”). Con i bambini è un po’ diverso: quelli molto piccoli sono veramente spaventati e mi guardano da lontano, per poi, se mi avvicino, iniziare a toccarmi e rimanere affascinati dai capelli (“come sono morbidi” è l’affermazione ricorrente), pur rimanendo sempre interdetti dal colore della mia pelle; i mezzani sono più curiosi, più sfrontati e appena incrociano il mio sguardo mi si avvicinano, mi parlano, cercano il contatto (chi inizia a correre con me, chi inizia a farmi domande sull’Inter, chi mi parla della sua volontà di giocare a calcio); i grandi invece si muovono come gli adulti, partendo diffidenti, per poi aprirsi ed entrare facilmente in relazione con me, soprattutto se ho un pallone in mano e ho intenzione di farli giocare! E qui son venuto per questo motivo, quindi liberatevi della vostra diffidenza fin da subito e iniziate a scaldarvi!!!


lunedì 9 febbraio 2015

In giro per il Camerun

VIAGGIO ITINERANTE

Baha è la nostra prima tappa di oggi: nemmeno mezz’ora di trasferta ed eccoci in questo villaggio, o meglio, ed eccoci in questo campo grandissimo, incredibilmente, visti gli standard, pianeggiante, poco sconnesso, di sabbia rossissima, nel bel mezzo del nulla. Intorno a noi colline verdi ci occludono il panorama e dalle stradine, dai sentieri di ognuna di queste scendono bambini che si riversano lentamente sul campo, per iniziare l’allenamento, vestendo la maglia neroazzurra. Emile è l’allenatore e ci siamo già incontrati un po’ di volte in passato, ma è da un po’ che non partecipa ai nostri corsi e, ahimè, si vede: allenamento un po’ sotto ritmo, mischiando gli obiettivi tecnici e soprattutto mischiando i bambini, ossia facendo allenamento unendo nello stesso gruppo bimbi di 6 e ragazzetti di 14 anni. Lo lasciamo, quindi, suggerendogli una divisione in due della squadra, rispettando le fasce d’età e quindi lo sviluppo di ciascun giocatore, proponendogli un sistema di allenamento che riduca leggermente la seduta, mantenendo però alta la qualità e la cura, il rispetto, del giocatore. Speriamo. È in momenti come questi che mi piacerebbe avere la possibilità di “capitare” sui nostri campi, di passare da queste parti senza dire niente a nessuno durante la settimana, nei giorni in cui è stabilito il loro allenamento, per poter vedere cosa realmente combinano, osservarli all’opera di nascosto, senza farmi vedere e raccogliere così dati “puri”, non contaminati dalla mia presenza. Al momento, però, devo accontentarmi di queste “capatine programmate”, per cercare di raccogliere dati, informazioni, sull’andamento delle cose e così dopo Baha ci muoviamo verso Mndongo, dove ad attenderci c’è Emmanuel con i suoi 20 bambini. Già, ma dove ci attende? La strada che percorriamo in discesa è tutta di terra rossa che pare bruciare sotto i colpi dei raggi del sole, ormai al tramonto eppure, o forse per questo, caldissimi e intensissimi, piena di buche e che taglia in due la foresta, ai cui margini spuntano case, capanne, baracche di ogni tipo, dimensione e materiale. Saltiamo per una buona mezz’ora sulle sconnessioni di questa lingua di fuoco, fino ad incontrare una deviazione, che in breve ci porta…allo stadio! Un campo in pendenza, pieno di buche e deformazioni varie dovute alla stagione secca, che rende duro e polveroso il tutto, sopra il quale si apre un altro piccolo spazio, dove sono già piazzati cinesini e coni vari. Coach Emmanuel ci accoglie con un gran sorriso sdentato e muore dalla voglia di farci vedere il suo allenamento e farci conoscere i suoi bambini e così, anche per sfruttare al massimo la luce rimasta, lo facciamo partire. L’allenamento scorre veloce, tra “i racconti” del mister (ad ogni esercizio recitava quasi a memoria i contenuti dei corsi cui ha preso parte, decantando le caratteristiche della fase analitica, piuttosto che di quella situazionale, cercando continuamente il mio sguardo di approvazione. Il tutto mentre i bambini eseguivano l’esercizio…) e le risate per ogni errore commesso dai giocatori dei numerosi osservatori assiepati intorno al campo, o appollaiati sui gradini di una “casa” posta proprio sopra lo spazio di gioco scelto “accuratamente” dal nostro amico e alla sua conclusione decidiamo di mostrare un’esercitazione utile come introduzione. Il buio avanza, ma non ci disturba, anche perché i bambini continuano a correre come matti, senza nessun cenno di preoccupazione o di difficoltà, come se correre al buio guidando una palla intorno ad un quadrato, inseguiti da un avversario fosse la cosa più normale del mondo. Quindi se per loro va bene, non vedo perché dovrei fermarmi. Riesco quindi a chiudere l’esercitazione, prima di fermare i lavori, salutare i bambini e parlare un po’ con Emmanuel, per correggere ciò che ho visto in campo, illustrare il lavoro proposto e rinfrescare un po’ le sue conoscenze. Ora però è buio. Ma Buio, con la maiuscola! Quando ci rimettiamo in macchina non si vede veramente nulla e la strada continua ad essere dissestata, per cui per coprire i restanti 70 km ci impieghiamo due ore! Arriviamo a Bamenda che sono le 21, stanchi, ma contenti e pronti per i prossimi giorni. Questa volta ci fermiamo: tre giorni di corso ad allenatori nuovi, per scegliere, trovare, nuovi coach cui affidare i bambini della nuova cellula in apertura. Visto che in Camerun sono poche… 80 cellule, per un totale di quasi 1600 bambini…in neroazzurro!

venerdì 6 febbraio 2015

Baffousame

BAFFOUSSAME 

Alla procure, dove siamo a dormire, ci si alza presto: un po’ le campane che chiamano alla preghiera mattutina i vari preti, un po’ la vita la fuori che inizia a prendere forma, accompagnando il sorgere del sole, diventa difficile rimanere sdraiato su questo pezzo di compensato solido, mio giaciglio per la notte, quindi meglio alzarsi, uscire e allenarsi un po’. Pronti, quindi, si va: esco e inizio il mio riscaldamento, ma subito vengo accompagnato da un ragazzo, incuriosito dalla mia corsa, che decide di unirsi a me…per il primo chilometro, poi ansimando mi saluta e dice di aspettarmi alla procure per finire di parlarmi. Perso un compagno per il seguente chilometro ne guadagno un altro, molto più spartano del primo, che prova in ciabatte e calzoni a seguirmi per un po’, ma ben presto abbandona anche lui l’intento e la curiosità spinge gli altri aspiranti corridori, manco fossi forrest gump, a fermarsi a bordo campo, visto che finito il riscaldamento decido di evitare la folla effettuando le ripetute del mio programma quotidiano sul campo da calcio della cattedrale. Passo e ripasso sotto la “tribuna” dove un paio di ragazzi si sono fermati ad osservare questo bianco un po’ fuori che gira come una trottola intorno al loro stadio, senza capirne le motivazioni, incitandomi o semplicemente chiamandomi ad ogni passaggio. “Blanc, blanc”, o ancora “jeuer, jeuer”, sono i richiami più diffusi. Chissà che cacchio stanno pensando? Da noi è normale correre, fare sport; ormai in ogni dove incrociamo gente vestita di tutto punto, pronta esteticamente per la maratona di New York e nemmeno più facciamo caso a dove sta correndo e a come sta correndo. Qui invece sono, siamo, merce rara, scimmie albine da osservare e studiare. Mi piacerebbero ascoltare i loro pensieri, leggere nelle loro menti. Chiudo l’allenamento sudato e piuttosto provato (l’infortunio non può ancora dirsi superato, cacchio), ma sulla strada di casa mi fermo ancora per un attimo: incrocio infatti gli alunni di una scuola elementare vicina intenti, in gruppi di tre o quattro, nel trasportare delle panche dalla Chiesa alle aule, compiendo sforzi immani per il loro piccolo corpo (sono nani delle elementari, di al massimo 8 anni e le panche sono quelle di legno, pesantissime, delle chiese!!!). Decido allora di dedicare il defalcante ad una sorta di vai e torna dalle aule alla Chiesa, trasportando le varie panche e non appena gli ultimi della fila capiscono che il bianco avrebbe fatto il lavoro al posto loro si fermano, lasciano il loro peso per terra e aspettano il mio intervento. Seeee, aspetta e spera, ciccio! Ti aiuto, non faccio tutto io. Su, prendi da quella parte. Muoviti, dai, non posso fare tutto. Su, petite, su. Risate (basta pochissimo per far ridere un nano scuro, veramente pochissimo), sguardi incuriositi degli adulti e ringraziamenti, accompagnano il nostro lavoro e ben presto mi ritrovo in macchina, pronto per un’altra, lunga, bellissima, giornata di allenamenti in giro per i villaggi della regione dell’ovest.


giovedì 5 febbraio 2015

In viaggio...

IN VIAGGIO VERSO BAFFOUSAME.
283 km separano Yaoundè dalla nostra meta, ma il traffico della città e le strade non propriamente asfaltate che portano verso nord ci costringeranno sicuramente a molte più ore del dovuto in macchina, ci dice Francis; e in più alle 15 abbiamo allenamento a Bouda, lungo la strada, quindi ci mettiamo in marcia presto la mattina, per riuscire a far tutto. L’allenamento nostro tanto lo recuperiamo appena arrivati a Baffousame, penso…povero illuso! Già, perché il destino ha in serbo un altro programma per noi, che si manifesta in tutta la sua cattiveria già a Yaoundé, perché la città è un imbottigliamento unico, si muove a stento e già solo per mettere le ruote fuori dalla capitale impieghiamo due ore. Ma il bello deve ancora venire, perché dopo un centinaio di chilometri la temperatura del motore inizia a salire, costringendoci ad una serie di stop forzati, fino a quando intorno alle 12:30 non decidiamo di fermarci definitivamente a Bafia, 160 km percorsi in 4 ore e mezza, per far vedere la macchina da un meccanico. “Radiateur”, sentenzia il ragazzo. Aggiungendo che ci ridarà il mezzo non prima di tre ore, ossia quattro, quattro e mezza traducendo la tempistica africana in quella reale. Decidiamo allora di fermarci in un…”ristorante” per mangiare qualcosa, senza sapere a cosa saremmo andati incontro. Riporterò i dialoghi in italiano, per cercare di rendere il più possibile l’irrealtà della situazione, la condizione farsesca in cui ci siamo trovati coinvolti. Ma…c’est l’afrique e alla fine è bello anche per questo essere intercampisti. “Ciao, siamo in quattro e vorremmo mangiare: avete qualcosa?”.“Si, abbiamo ancora pollo, pesce, riso e plantain”. “Bene, perfetto” dico io”io prenderei un bel piatto di riso con le plantain”. “No, non si può, il riso è con il pollo o con il pesce”, mi dice lei serissima. “Ma io vorrei solo il riso con le plantain, senza pollo”. “No, non si può”. Un po’ stupito e, confesso, infastidito da questa sua chiusura taglio corto “Va bene, pollo, plantain e riso per tre”, sperando di aver risolto. “Mi spiace, ho solo un pollo”, mi dice lei, tra il nervoso e il seccato. “Va be, ci dividiamo il pollo, non è un problema”. Convinti di aver risolto iniziamo l’attesa, parlando tra noi, ridendo e scherzando, fin quando, dopo poco, non arriva il piatto: pollo, riso e plantain. "Va che bellino! Vai, Roby, attacca. Prima tu. Non aspettarci, che si fredda, tanto arriva anche per noi, adesso”…poveri illusi. Il tempo passa, ma dalla “cucina” non arriva più nessuno, fin quando, a piatto finito, non esce una signora…con il conto! “Scusi, ma gli altri piatti?” domando.”Glielo avevo detto che avevo solo un pollo!”afferma, incurante del fatto che nel piatto di Roby c’era un mezzo petto, rinsecchito. “Ma quindi noi non si mangia?”. “No, se vuoi posso darti un piatto con del riso”!!! Non possiamo non scoppiare a ridere! Tutto sto casino e alla fine riesce a scindere pollo e riso??? Come mai ora si? Il problema non era che il piatto fosse già pronto, con le tre pietanze già impiattate. No, il problema era uscire dal suo schema mentale: pollo-riso-plantain! Cosa unica. Finito uno dei tre ingredienti, allora, la cosa si può fare! Non ci si può nemmeno incacchiare. Pora tusa. Tra un pollo secco e del riso strabollito, chiacchiere e una splendida passeggiata tra le polverose strade della città, scrutando “case”, bimbi che giocano e adulti nullafacenti ad adornarne i bordi, ecco tornare il nostro jeeppone. Via, si riparte. Sono le 17 e mancano poco più di 150km alla meta. L’allenamento di oggi è saltato, ma lo recuperiamo domani, lungo la strada per Bamenda: faremo due tappe e non una, per incontrare gli allenatori e svolgere il nostro lavoro di osservazione e correzione, come fatto settimana scorsa in Angola. Non manca molto. Invece…solo dopo altre tre ore e mezzo riusciamo a tornare a poggiare i piedi sulla terra ferma: strada in salita, buche, rallentamenti dovuti ai mega camion carichi di legname che sbuffavano lungo i pendii delle montagne di questo altipiano, rendono infinito il nostro percorso e ormai stravolti e stufi di stare in macchina, arriviamo alla meta dopo poco meno di dodici ore di trasferta!!! Vive l’afrique!

mercoledì 4 febbraio 2015

Qui comincia l'avventura...

n.a. Ivan, così ci vedi?

…E ALLORA CHE SI COMINCI!
Anche Roby si è lasciato convincere, non tanto dalle parole, non devo certo pregarli, ma dall’esempio, non solo mio, e questa mattina, alle 8, era fuori con me per le polverose strade che girano intorno a “residence Italia”, casa Francis, per un buon allenamento. Visto l’impegno e la sua voglia manifesta di tornare a fare sport (cazzarola, è da giugno che non si muove!!!C’è gente che è stata costretta ferma 4 giorni per infortunio e stava letteralmente impazzendo, con umore sempre nero e nervoso come mai prima…questione di abitudine), metto da parte volentieri il mio piano di allenamento e lo accompagno lungo il saliscendi della città, tra case in costruzione, cinte da impalcature improvvisate e pericolanti, eppure considerate utili, funzionali, e baracche diroccate, inglobate dalla terra rosso fuoco tipica di questa parte di mondo e da mille tipi diversi di piante che vanno lentamente a nascondere con le proprie verdissime braccia, quel che un tempo era una parete o un tetto. Ho modo di osservare con attenzione ciò che ho attorno, perché 6:41 al km è un passo che ti permette di studiare a memoria il terreno che lentamente scorre sotto i tuoi piedi!!! Madonnina! Oggi ho allenato la pazienza! Ma son contento. Perché un mio amico aveva bisogno di rimettersi in moto, di sudare, di tornare a sentire il fiato corto, le gambe bruciare e la fatica prendere possesso del proprio corpo, fino a spingerlo a dire “basta, mi fermo” a 8 minuti dal termine, per sentirsi rispondere “non scherzare, siamo a poco dal termine! Avanti, stringi i denti!”. Solo avrebbe ceduto, non sarebbe stato contento del lavoro svolto e avrebbe abbandonato l’idea. E come lui molti avrebbero fatto uguale: correre in coppia è bellissimo, hai sempre uno stimolo, un sostegno, un aiuto per superare momenti di difficoltà, per andare oltre il tuo limite e scoprire in te risorse e capacità inimmaginabili. Correre e far fatica è proprio bello! E domani si ripete. Grande Roby! Avanti così.
Ma la giornata non si è chiusa li, con il nostro lento saliscendi. No, no, la giornata è iniziata li e da li si è sviluppata in un crescendo positivo, fino a chiudersi con un bell’intervento sul campo di questo nuovo nucleo, nel quartiere di Mendong, insieme a coach Essi. Questo allenatore è stato giocatore della nazionale dei leoni indomabili a metà anni 80, ha giocato con pezzi di storia del calcio africano come ‘Nkono, Biik e Milla; è stato allenato da un altro pezzo di storia come Claude Le Roy, insomma, quest’uomo ha conosciuto il calcio, ma deve essersi dimenticato quasi tutto…o forse mi sbaglio, si ricorda ciò che faceva e lo ripropone pari, pari ai suoi ragazzi, con esiti per lo meno discutibili. Fatto sta che l’allenamento è un po’ sotto tono. Però lui ha carisma, i giocatori, bambini, lo seguono, lo vedono come riferimento, lo ascoltano, sa organizzare bene le cose, anche se con una lentezza tutta africana, e ha voglia di apprendere, di formarsi, di conoscere e migliorare il suo modo di stare sul campo e questo suo modo di essere, di fare mi conquista, mi piace. Sono convinto che per essere allenatore Inter Campus sia imprescindibile una parte “umana”, una componente legata al modo di essere, più che delle specifiche competenze, conoscenze. Se non sai, ma…”SEI”, le conoscenze si acquisiscono, si può imparare a scendere in campo e a guidare un gruppo di giovani calciatori, crescerli e migliorarli giorno dopo giorno. Ma se non hai l’attitudine, se non sei ben disposto, se non ami stare con loro, puoi essere Benitez, ma con noi avrai storia breve. Ma Essi “È”, quindi, bon travail, coach! Ci rivediamo a giugno per il corso di primo livello a Mbalmayo.


martedì 3 febbraio 2015

Ma petite Afrique

Camerun, Petite Afrique.

Il viaggio trascorre piuttosto velocemente e, a parte qualche bel saltello sopra l’Algeria, le sei ore di volo passano con facilità tra un film, la lettura e una sana pennica. All’arrivo solita, da sei mesi a questa parte, procedura anti ebola (tutti in fila a farsi misurare la febbre), ma in breve, nemmeno un’ora, siamo già fuori, nella scurissima notte di Yaoundé, sommersi dalle continue, ma non invadenti, proposte di taxi, hotel o cambio valute delle migliaia di persone che popolano l’aeroporto e avvolti dal tipico, come dice Max, afrore Camerunese, quel misto di legna bruciata e polvere, quella brezza fresca e leggera, che da sempre ci regala il benvenuto in questa terra e che ci fa capire di “essere tornati a casa”. In quest’altra casa. Francis non è ancora arrivato, ma tranquillamente ci accomodiamo su di una panchina nel parcheggio ad attenderlo, parlando e ridendo, carichi, pronti, per questo viaggio nel continente nero, circondati da un continuo andirivieni di macchine, persone, chi con valige, chi senza, di portatori o di semplici “passanti” (alcune persone sembra siano venute qui a fare un giretto, a godersi il fresco della sera all’aperto), in compagnia di altre centinaia di persone, incuriosite da questi tre bianchi “fuori luogo”, eppure così apparentemente a proprio agio. Perché così eravamo: a nostro agio. O almeno, io lo ero. Mi è parsa la cosa più normale del mondo trovarmi seduto su quella panchina all’aeroporto della capitale del Camerun, ad aspettare il mio, nostro, amico, osservando come amo fare da sempre, tutto ciò che accade intorno a me. È stato un po’ come essere seduto in piazza dal duomo con Mauro ai tempi del liceo, quando ci staccavamo dalle varie manifestazioni cui prendevamo parte pur di non entrare in classe, e ci mettevamo a guardare e commentare il mondo che si muoveva intorno a noi, per intere mattinate, senza renderci conto del tempo che passava. Ecco, le mie sensazioni sono state più o meno le stesse, anche se i miei occhi scrutavano personaggi e vicende ben diverse: il ragazzo che insegue il bianco per potergli portare la valigia e guadagnare così qualche CFC, soldo locale; la signora annoiata, nel suo coloratissimo abito, seduta davanti al suo tavolino di legno sul quale poggia la merce, in attesa di non si sa quale cliente, interessato a comprarle una sigaretta (si vendono singole), delle caramelle, delle lamette da barba, o delle ricariche per il telefono; il tassista a caccia di clienti, con la sua pettorina rossa, che ripete la sua monotona filastrocca, taxi, monsieur, taxi; o ancora il passante, seduto su di una panchina vicino a noi, intento a parlare e ridere di gusto con il suo amico sovrappeso. Un micromondo, il micromondo che mi ricorda di essere di nuovo in Camerun, pronto per la nuova missione Inter Campus.