venerdì 8 luglio 2016

Road to Aber

ABER


“Attenzione: all’incrocio più avanti ci sono tre elefanti molto vicini alla strada”. Non volevo crederci. Invece il camion che abbiamo incrociato sulla strada sterrata che da Pachwacy ci stava riportando ad Aber diceva la verità. O quasi, visto che gli elefanti in realtà erano quattro, due adulti e due piccoli. E passando dall’incrocio (non pensate ad un incrocio di strade a tre corsie, ma piuttosto ad una strada rossa, polverosa e sgangherata, che incrocia le vecchie rotaie arrugginite della ferrovia che dalla capitale Ugandese un tempo conduceva fino al Kenya) eccoli li, a non più di dieci metri da noi, con la loro imponente stazza, il loro puzzo selvaggio e il loro fascino africano. Bellissimi. Dopo i soliti cercopitechi che incontriamo sempre lungo la strada e i babbuini, avere il piacere di un incontro così ravvicinato con questi bestioni è spettacolare. Ma non finisce qui: poco oltre, tornati sulla strada asfaltata che viaggia lungo il Murchinson Fall National Park, nella radura verde che ci circonda scorgiamo un’altra decina di elefanti, impala e un’altra bestia non meglio identificata (sempre tipo impala, simbolo anche della nazione, ma di cui non ricordo mai il nome). Insomma, una sorta di safari involontario quello vissuto oggi lungo la rotta per Aber. Ma anche se non avessimo scorto quelle bestie, questa rotta è sempre stupenda da vivere: sono circa cinque le ore che impieghiamo per coprire la distanza da Kampala alla regione del West Nile e ogni chilometro è realmente affascinante. Un giorno forse mi stuferò di ciò che scorre là, fuori dal mio finestrino, ma ora rimango ancora volentieri a guardare queste immense pianure ondulate verde smeraldo, con alberi di ogni forma, dimensione, specie, che le affollano, accalcandosi l’uno accanto, l’uno sopra l’altro, intervallate qua e la da villaggi di capanne di fango e paglia, o città parallele alla strada, che si sviluppano lungo la via che taglia in due il verde, profonde un paio di metri, con alle spalle l’incombente, selvaggia, natura. Questa volta, mi fa notare il prof, ci sono più coltivazioni, soprattutto grano ed effettivamente incappiamo con più frequenza del solito in piccoli incendi, appiccati per far spazio a zone ove seminare e per rendere più fertile il terreno, esattamente come si faceva milioni di anni fa. Oltre alle solite, immense fattorie, che incrociamo, una cinese e una indiana, questa volta sembra che anche gli stessi ugandesi si siano messi a coltivare la loro terra; sembra, chissà se poi sono loro a trarne beneficio. 

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