martedì 30 agosto 2016

Hergla

HERGLA
E dodici! Ebbene si, siamo giunti a dodici con questa appena iniziata e già al terzo viaggio. Dodici cosa? Stagioni. Dodici stagioni sportive con addosso questa maglia, dodici stagioni a girare il mondo per proporre allenamenti e corsi di formazione a bambini e allenatori di ogni razza (ma si può parlare ancora di razze?), religione, genere e stato sociale, dodici stagioni su campi in terra, in sabbia, in erba, con buche o superbamente curati, su spazi rubati all’interno di favelas, o in stadi bellissimi, anche se tristemente vuoti e silenziosi; dodici stagioni cercando di far conoscere ai nostri vari amici il nostro metodo di lavoro e l’importanza centrale dello stesso nel percorso educativo, nello sviluppo completo, “ideale” della personalità del bambino, attraverso lo sport da noi più amato e per noi più “educativo” di tutti. Il calcio. Che invece ai più appare tutto, fuorché educativo, fuorché strumento per insegnare ad un bambino a stare con gli altri, a conoscere se stesso, a pensare e a vivere insieme agli altri con regole e ruoli da rispettare. Già, perché se parlo di calcio a tutti vengono in mente i grandi campioni, le macchine di lusso, le donne da sogno e i conti in banca senza limite agli zero e a pochi, se non a nessuno, salta alla mente un qualche pensiero legato all’educazione, alla crescita, allo sviluppo di bambini e bambine. Eppure…eppure è così e da dodici anni, viaggio dopo viaggio, mi rendo conto di quanto forte, quanto potente, sia effettivamente questo strumento, questo mezzo, ma anche, se non soprattutto, quanto potenziale di esso viene quotidianamente sprecato sui…campi del mondo. Anche i nostri, quelli italiani, se non sopratutto sui nostri, troppo ingombri di allenatori improvvisati capaci di urlare sguaiatamente dietro a bimbi piccolissimi per un errore tecnico, capaci di lamentarsi con tutti gli arbitri che incontrano, capaci di insultare (si, si, insultare. Visti e sentiti in prima persona) i loro piccoli giocatori, rei, a loro modo di vedere, di aver fatto loro perdere la partita e quindi il gusto di poter andare al bar del paese a raccontare del loro primato in classifica. Retorica, pura retorica, questa, alle orecchie dei più: tutti ormai si riempiono la bocche di parole come “educazione e calcio”, “il calcio come strumento di crescita”, “bisogna pensare solo allo sviluppo dei bambini”, ma quando poi li vedi all’opera tutto questo non rimane che un concetto astratto, espresso per ben figurare. La partita va solo vinta e non mi importa come. Che abbia la responsabilità di bambini di sei anni, o di quasi uomini di quattordici. Parole, soltanto parole. E nessuno fa nulla di più. Nessuno…quasi nessuno. C’è qualcuno che da vent’anni fa altro (inter campus), per mezzo di altri che da dodici girano il mondo.Meno male che ci sei, Inter Campus.

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