martedì 3 febbraio 2015

Ma petite Afrique

Camerun, Petite Afrique.

Il viaggio trascorre piuttosto velocemente e, a parte qualche bel saltello sopra l’Algeria, le sei ore di volo passano con facilità tra un film, la lettura e una sana pennica. All’arrivo solita, da sei mesi a questa parte, procedura anti ebola (tutti in fila a farsi misurare la febbre), ma in breve, nemmeno un’ora, siamo già fuori, nella scurissima notte di Yaoundé, sommersi dalle continue, ma non invadenti, proposte di taxi, hotel o cambio valute delle migliaia di persone che popolano l’aeroporto e avvolti dal tipico, come dice Max, afrore Camerunese, quel misto di legna bruciata e polvere, quella brezza fresca e leggera, che da sempre ci regala il benvenuto in questa terra e che ci fa capire di “essere tornati a casa”. In quest’altra casa. Francis non è ancora arrivato, ma tranquillamente ci accomodiamo su di una panchina nel parcheggio ad attenderlo, parlando e ridendo, carichi, pronti, per questo viaggio nel continente nero, circondati da un continuo andirivieni di macchine, persone, chi con valige, chi senza, di portatori o di semplici “passanti” (alcune persone sembra siano venute qui a fare un giretto, a godersi il fresco della sera all’aperto), in compagnia di altre centinaia di persone, incuriosite da questi tre bianchi “fuori luogo”, eppure così apparentemente a proprio agio. Perché così eravamo: a nostro agio. O almeno, io lo ero. Mi è parsa la cosa più normale del mondo trovarmi seduto su quella panchina all’aeroporto della capitale del Camerun, ad aspettare il mio, nostro, amico, osservando come amo fare da sempre, tutto ciò che accade intorno a me. È stato un po’ come essere seduto in piazza dal duomo con Mauro ai tempi del liceo, quando ci staccavamo dalle varie manifestazioni cui prendevamo parte pur di non entrare in classe, e ci mettevamo a guardare e commentare il mondo che si muoveva intorno a noi, per intere mattinate, senza renderci conto del tempo che passava. Ecco, le mie sensazioni sono state più o meno le stesse, anche se i miei occhi scrutavano personaggi e vicende ben diverse: il ragazzo che insegue il bianco per potergli portare la valigia e guadagnare così qualche CFC, soldo locale; la signora annoiata, nel suo coloratissimo abito, seduta davanti al suo tavolino di legno sul quale poggia la merce, in attesa di non si sa quale cliente, interessato a comprarle una sigaretta (si vendono singole), delle caramelle, delle lamette da barba, o delle ricariche per il telefono; il tassista a caccia di clienti, con la sua pettorina rossa, che ripete la sua monotona filastrocca, taxi, monsieur, taxi; o ancora il passante, seduto su di una panchina vicino a noi, intento a parlare e ridere di gusto con il suo amico sovrappeso. Un micromondo, il micromondo che mi ricorda di essere di nuovo in Camerun, pronto per la nuova missione Inter Campus.

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