martedì 10 febbraio 2015

Bamenda

BAMENDA


Città, o forse meglio definirlo un paese cresciuto che finge di essere moderno, avvolta nella polvere, posta sulla cima delle montagne dell’altopiano dell'Adamoa, a circa 1500 mt, caotica e puzzolente. Questi gli aggettivi che mi vengono in mente. Avvolta costantemente da un sottile, eppure persistente, strato di polvere, mista ai fumi scuri e inquinati delle mille auto e dei mille lentissimi camion che la attraversano continuamente, colonizza con i suoi pulviscoli occhi (sempre rossi e pieni di sabbia), bocca (sempre secca) e naso, rendendo più che in ogni altro luogo falso il pensiero comune che lega l’idea di Africa a quella dell’aria pulita e della natura incontaminata. In tante altre città del continente nero ho avuto modo di verificare l’inesattezza di questo pensiero: Luanda, Kampala, Kinshasa, Douala o la stessa Yaoundé, ma qui il contrasto tra mondo dell’immaginario e realtà raggiunge il culmine. La natura è tutta intorno a noi, pressa la città come Medel pressa il portatore palla, ma sporcizia, tubi di scarico e polvere rallentano, contengono il suo incedere. Anche allenarsi diventa antipatico, perché dovendo circoscrivere le mie corse allo “stadio”, dove facciamo allenamento coi bimbi, o alla strada, trovarmi in affanno aerobico e respirare solo aria nera o rossa non è propriamente piacevole. Ieri, finita la seduta con i nostri bambini, sono uscito dal campo rosso in faccia e sulle mani, come se mi avessero messo la cipria e quando, dopo la mia corsa, ho avuto finalmente modo di lavarmi (con la doccia che va a singhiozzo, capace di regalare acqua “a pisciolino”, come dice Roby, o getti tipo manichetta dei pompieri!) sembrava avessero sgozzato un capretto in bagno, per quanto rosso fosse diventato. Condizioni ambientali sfavorevoli a parte ( che tra l’altro sono causate da noi uomini, quindi “chi è causa del suo male, pianga se stesso, dice il saggio), a Bamenda ci troviamo bene fin da subito, grazie all’accoglienza e alla simpatia della gente che incontriamo, allenatori e non. Come spesso mi accade, il primo impatto è quasi spaventoso: “l’uomo nero” mi guarda con sospetto, quasi arrabbiato mi scruta, mi osserva, fin quando un mio sorriso e un conseguente saluto non lo liberano di questa diffidenza e lo spingono a rispondere al mio cenno cordiale, spingendolo a volte ad avvicinarsi per attaccare bottone, o anche solo per farmi una battuta (quanti vedendomi correre mi hanno urlato “dai, bianco, che manca poco”, o “corri bianco, corri, bravo”). Con i bambini è un po’ diverso: quelli molto piccoli sono veramente spaventati e mi guardano da lontano, per poi, se mi avvicino, iniziare a toccarmi e rimanere affascinati dai capelli (“come sono morbidi” è l’affermazione ricorrente), pur rimanendo sempre interdetti dal colore della mia pelle; i mezzani sono più curiosi, più sfrontati e appena incrociano il mio sguardo mi si avvicinano, mi parlano, cercano il contatto (chi inizia a correre con me, chi inizia a farmi domande sull’Inter, chi mi parla della sua volontà di giocare a calcio); i grandi invece si muovono come gli adulti, partendo diffidenti, per poi aprirsi ed entrare facilmente in relazione con me, soprattutto se ho un pallone in mano e ho intenzione di farli giocare! E qui son venuto per questo motivo, quindi liberatevi della vostra diffidenza fin da subito e iniziate a scaldarvi!!!


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