martedì 14 luglio 2015

Incidente a Lubumbashi

GIORNATA INFINITA
Quando la sveglia inizia a suonare non so se crederci e svegliarmi, o far finta che sia un sogno e rimettermi a dormire. Ma lei insiste, col suo suono fastidioso e crescente: "ti diiii—ti diiiii—ti diiiiii”. Ok, cedo, hai vinto tu. Apro gli occhi e in non so quale attimo di insperata e impensabile lucidità decido di aprire le tende e dare un’occhiata fuori: buio pesto! Cazzarola, ho sbagliato a puntare la sveglia, penso, e mi rituffo nel letto col telefono in mano per controllare, ma mi accorgo di non aver sbagliato: sono le 5:40, ma il mondo la fuori sembra non saperlo ed è convinto siano le due di notte. Ancora indeciso se andare a correre o meno, apro la porta ed esco, ma l’oscurità è troppa e i rischi ad essa connessi sono esagerati: le strade della città non sono bellissime, quindi ad ogni passo rischierei l’infortunio, e anche il lungo Congo è pieno di buche, radici e sconnessioni. Niente, meglio lasciar perdere. Rimettiamoci a dormire. Almeno per un altra ora, visto che alle 7 dobbiamo essere a far colazione, per poi essere in campo alle 8. E al campo ci arrivo bello riposato e sereno, nonostante la fallita missione corsa: 50 bambini ci aspettano e l’allenamento corre via veloce coinvolgendomi e divertendomi molto, anche perché il livello dei bambini da queste parti è veramente alto, quindi posso osare qualcosa in più, posso spingere sull’acceleratore quanto voglio, perché loro rispondono. Via allora, con una serie di esercitazioni sullo smarcamento, una delle quali inventata, anche se nel calcio non si inventa nulla, di sana pianta proprio oggi, dopo colazione. Bello, sono contento, le cose qui, sul campo, vanno alla grande e non si può che crescere, che migliorare su questo campo del mondo. Ma anche fuori dal campo le cose vanno bene: gli allenatori stanno crescendo e anche la parte teorica, che abbiamo sviluppato al termine della seduta, offre grandi motivi di soddisfazione. Le domande, l’attenzione, lo scambio continuo di idee, punti di vista, opinioni sull’argomento trattato (il passaggio dall’insegnamento del semplice gesto, alla cura dei principi di tattica individuale in fase di possesso) mi fanno capire, o forse solo credere, di essere sulla giusta strada, di star facendo un buon lavoro. E si potrebbe fare ancora meglio se solo Inter Campus decidesse di crescere…si vedrà. Il tempo finisce con troppa velocità e, avendo l’aereo alle 14, dobbiamo lasciare in fretta i nostri allenatori con le loro solite mille richieste per le foto. No, mi spiace, non abbiamo tempo, dobbiamo andare. Via, saliamo in macchina con Pablo, il nostro autista, e ci dirigiamo verso casa, ma…ma l’inferno cittadino di Kinshasa ha in serbo per noi un bel diversivo: messo il naso fuori dallo stadio, il nostro “pilota” congolese non vede una macchina che sta sopraggiungendo velocemente da sinistra, proprio mentre noi stiamo imboccando l’incrocio e…sbaaaaam! Che botto. La macchina, un mega nissan imparentato con un transatlantico, oscilla per il colpo preso, mentre allo speronatore praticamente esplode il muso e salta per aria il radiatore. Che botto. Per fortuna stiamo tutti bene, ma nel giro di meno di dieci secondo la macchina è già circondata di gente: centinaia, non sto scherzando, di persone iniziano a girare intorno alle due macchine coinvolte, ci guardano, ci scrutano e parlano, discutono, alcuni si arrabbiano fra loro. Ma che cacchio, non avete altro da fare? Be’, che sciocco, no: questo incidente li occuperà almeno fino a sera e grazie a noi potranno parlare, litigare, discutere chissà ancora per quanto. Il problema è che in Africa, quando ci sono incidenti e sono coinvolti dei bianchi, spesso le cose degenerano, per cui nella macchina serpeggia un po’ di tensione. “Non scendete e cerchiamo di andarcene in fretta”, ci dice Gabriele, che vivendo qui sa bene come funzionano certe cose. Cazzo, cazzo, cazzo!!! Ci mancava questa. Rimaniamo bloccati li per dieci minuti, con la folla intorno che continua a crescere e i nostri timori con essa, fin quando la polizia non fa salire un poliziotto armato, e io ho il terrore delle armi, con noi e ci scorta alla “centrale” più vicina (centrale: una baracca pericolante, sporca e buia. Centrale…), dove però rimaniamo pochissimo: Mario si precipita a prenderci, ci fa salire su un’altra sua macchina, e ci spedisce in aeroporto. Li ci pensa lui. Noi possiamo chiudere la missione Kinshasa e prepararci al volo che ci porterà a Lubumbashi. Via allora, si riparte.


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