giovedì 9 maggio 2019

Platone a Kathmandu

"Si può scoprire di più di una persona in un'ora di gioco che in un anno di conversazione".
Ogni volta che gioco a calcio su qualche campo del mondo con allenatori, ragazzi del paese che mi sta ospitando per la mia missione, non posso evitare che nella mia testa rimbalzi questa frase attribuita a Platone. Il filosofo greco ancora non conosceva lo sport più bello del mondo, però, perché se no avrebbe ridotto il lasso di tempo a dieci minuti per conoscere una persona: quando si scende in campo, quando c'è quella palla da inseguire e calciare, le mille maschere che indossiamo spariscono ed emerge solo la persona che si è realmente, il bimbo che c'è in noi in tutta la sua purezza. O almeno questo è quello in cui credo fortemente da quando ho iniziato a capire cos'è il calcio per me ed è quello che riscontro ogni volta che gioco, soprattutto con sconosciuti. E in questi giorni c'è stata l'ennesima, non richista, conferma: colui che potrebbe diventare il nostro head coach è anche lui malato di calcio, anche giocato, e già dal primo giorno ci siamo trovati in sintonia, per cui, avendo capito con chi ha a che fare, ha invitato sia me che Paolo a giocare coi suoi amici una volta finito il lavoro; così sia ieri che oggi per un'ora abbiamo rincorso insieme quella magica sfera, calciandola, conducendola, contendendola agli "avversari" del momento, ma soprattutto presentandoci, facendo conoscenza l'uno dell'altro. E come sempre, è stato bellissimo. Le sensazioni che mi aveva trasmesso, hanno trovato conferma con la palla tra i piedi: una bella persona, gentile, educata, onesta e leale, che sa incazzarsi quando sbaglia un controllo, ma anche riprovarci per poi sostenerti quando sei tu a sbagliare. Una bella scoperta che sicuramente potrà aiutarci. E con il quale mi sono divertito un sacco. Avrò anche quarant'anni, avrò anche due figlie (quasi, manca ancora un pezzettino per la seconda), sarò anche nell'età in cui "ci sono cose più importanti", ma...toglietemi tutto, ma non la possibilità di giocare a calcio. Anche in situazioni assurde come queste: solo, Paolo oggi mi ha abbandonato segnato dalla partita di ieri, su un campo sperduto in quartiere di Kathmandu (sperduto davvero: tra mille vicoli, case e negozietti vari, all'improvviso si apre questo spazio con due campi a 5), senza conoscere nessuno e senza parlare una sola parola della lingua dei ragazzi, che per lo più ignorano l'inglese o qualunque altro idioma diverso dal loro, con solo la palla come mezzo per comunicare. Ma mi basta così. Come è sempre stato. Intendendomi attraverso un passaggio, un assist, un applauso o un richiamo, magari in milanese, che comunque viene compreso. Bellissimo. E la cosa che mi affascina di più è che, ovviamente, non c'è solo il bello in campo: quando si gioca emerge anche l'omuncolo, colui che bara, che cerca sempre una scusa per giustificare l'errore, che fa' il fenomeno inutilmente e poi...non la vede mai e si becca un bel tunnel. È così: puoi fregarmi fuori, ma con la palla tra i piedi, sei quello che sei. 

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