mercoledì 6 febbraio 2019

Ma petite Afrique


Ma petite Afrique


Mi son reso conto solo oggi riprendendo in mano il blog che l’ultimo racconto di viaggio l’ho un po’ troncato, lasciato cadere senza una degna chiusura. Peccato, avrei potuto lasciar miglior traccia dei miei ricordi su questo mio speciale diario, perché quando sarò più grande e vorrò ripercorrere il mio pellegrinaggio calcistico attraverso queste pagine avrò bisogno di tanti dettagli per far riaffiorare in me tutti i ricordi. Fortunatamente (magari Si non la pensa così…) sono di nuovo in viaggio, diretto questa volta verso un posto cui sono particolarmente legato, che ha per me un valore speciale, per cui cercherò qui di rimediare, evitando tagli improvvisi, salti narrativi inspiegabili, al fine di aiutare il mio io del futuro cui dedico questo blog a ripercorrere le varie missioni. Qual’è questo posto? Be’, chiaramente il Camerun, chiaramente con Francis, chiaramente la cara, vecchia Africa. Il viaggio per arrivare nel continente nero pur non agevole, scivola via abbastanza tranquillamente, se togliamo le tre ore di macchina recluso in un mini spazio; lasciata Parigi e la sua neve che tanto ci ha fatto tribolare (tre ore e più di ritardo), l’accoglienza di Douala è la stessa che ricordavo: caldo, caldissimo, un umido abbraccio dal sapore di legno bagnato, nel mezzo di un disordine, di una confusione unica, tipica, caratteristica. Era da tanto che non atterravo nella capitale economica del paese dei leoni, ma nonostante gli anni trascorsi, son cambiate ben poche cose da allora: i portatori compaiono ancora da dietro ogni angolo nella loro tutina verde, insistendo per portarti le valige; centinaia di persone aspettano ancora non si sa bene chi o cosa appena fuori il salone degli arrivi offrendoti chi il miglior cambio per i tuoi preziosi euro, chi “arachid, plantein”, chi altri prodotti immancabilmente esposti in un equilibrio inspiegabile sopra le loro teste; decine e decine di bambini giocano ancora a calcio sui prati appena fuori l’aeroporto, nell’oscurità incombente della sera, in ciabatte, a piedi nudi o con scarpe bucate, inseguendo un pallone cucito alla bene e meglio, sgonfio, eppure ancora affascinante. Il tempo passa dappertutto, ma non in Camerun: qui si è fermato tutto al primo decennio post indipendenza e tutto ciò che ci circonda risale a quell’epoca, senza nessun segno di rinnovamento, senza nessun segno di modernità. Vedere gli altri paesi inter campus “muoversi”, cambiare, provare a rinnovarsi e osservare il camerun in costante attesa è un po’ una pena:l’Angola ogni volta ha qualcosa di nuovo, strade, palazzi, o anche solo rotonde, eccezion fatta per la “nostra” lixeira; l’Uganda da’ lentamente segni di cambiamento, costruendo strade nuove che collegano il paese e rinnovando quelle ampiamente trafficate per lo meno della capitale; insomma, qualcosa si muove, ma qui sembra tutto congelato. E allora via, lungo la solita buissima strada a due corsie che da Douala ci porta a Kribi, per alloggiare nel classico albergo piastrellato risalente al periodo post coloniale che tante arie si da’, ma che come sempre manca di tutto (acqua che sa di ferro, per aprire e provare a chiudere porte deformate dall’umidità, per litigare con la corrente che salta e che torna non appena il generatore a gasolio entra in funzione, per andare a mangiare in ristoranti che ti fanno aspettare le ore per portarti un barracuda pescato proprio li di fronte e grigliato con estrema lentezza, su un fuoco pigro quanto il cuoco. E allora via, nuovamente in Camerun.



Nessun commento:

Posta un commento