giovedì 8 marzo 2018

Shalom, shalom

SHALOM, SHALOM

Fuori dall’autostrada, alla piccola rotonda che incontriamo, giriamo a sinistra e, oltre il sottopasso, iniziamo a salire su una piccola strada che si inerpica su di una collina ricca di ulivi e prati verdi, verdissimi, capaci di portarmi immediatamente in primavera, In quella primavera che fino a ieri ancora non riuscivo nemmeno ad immaginarmi, visto il terribile freddo e la neve di quest’ultimo periodo. 

Quando arriviamo in cima, Nikolai, il tassista che ci ha “raccolti” a tel aviv, guardandosi intorno un po’ stranito, ci chiede dove deve lasciarci. Noi ne sappiamo meno di lui, visto che il contatto con questa quasi utopica cittadina di convivenza e integrazione ci ha lasciato ben pochi dettagli, invitandoci semplicemente ad andare a trovarli appena avessimo avuto tempo. Già, ma dove siamo? Ci troviamo ora a wahat as salam-Neve shalom (oasi della pace in arabo e ebraico), un “villaggio cooperativo”, così si definiscono, dove arabi ed ebrei vivono insieme, lavorano insieme, studiano insieme, festeggiano insieme le feste religiose, fin da bambini; nel villaggio infatti sono attive una nursery, un asilo, una scuola primaria, che accoglie non solo bambini che vivono nel villaggio, ma anche “ospiti” che provengono da 18 paesi vicini, i cui genitori hanno abbracciato questa idea, questa visione se non unica, molto rara, in un Paese come questo. Questi bambini sono seguiti da insegnanti “dell’una e dell’altra parte”, che insegnano loro usando le due lingue, pur rifacendosi ai programmi ministeriali ufficiali della parte ebrea (qui il ministero dell’istruzione prevede programmi per ebrei e programmi per arabi, quindi le scuole sono sotto l’una o l’altra guida), per poter così essere riconosciuti e permettere ai bambini un normale percorso scolastico. Fondato nel 1972 da un prete con chiare origini italiane, padre Bruno, conta oggi circa 70 famiglie e le scuole accolgono circa 250 bambini dai 3 mesi ai 13 anni e al fianco delle attività destinate ai propri abitanti e all’università della pace, forse il vero fiore all’occhiello di questa realtà, ha sviluppato negli ultimi tempi una serie di idee destinate al turismo, per poter avere accesso a maggiori fondi, da destinare unicamente al benessere comune e allo sviluppo della loro Idea. Lecito, necessario in questo mondo per poter sopravvivere e andare avanti, ma come sempre quando un ideale si nobile, si alto, si piega al mostro capitalistico, ai miei occhi perde un po’ della sua grandezza. Ma capisco bene le loro necessità. Dico solo…peccato. Anyway, perché siam qui? 

L’idea potrebbe essere di aiutare il loro progetto di integrazione mettendo a loro disposizione il calcio, l’allenamento, come altro strumento da sfruttare per favorire l'integrazione tra i bimbi e così, dopo un giretto tra le casette, il tempio dove tutte le religioni vengono praticate, il giardino dedicato a coloro che hanno rischiato la propria vita pur di aiutare chi era perseguitato, chi era in pericolo di vita per la propria religione, la propria pelle, la propria lingua, ci siamo fermati a parlare e ad illustrare il nostro progetto a tale Rita Boisos (mi sembra di ricordare), storica abitante del villaggio e oggi guida per i "turisti". Con lei passo, passiamo, una buona mezz’ora a parlare, discutere e le sensazioni che mi trasmetto son molto positive, mi affascina questa donna con la sua storia, pur…pur nutrendo qualche dubbio sulla possibile realizzazione del nostro progetto, come noi lo intendiamo in toto, in questa realtà, ma…chissà. Vedremo. Per ora mi tengo la bella esperienza con questa signora, che nel mio immaginario mi ha ricordato Amira Hass, e me ne vado ora a Gerusalemme per l'allenamento con le bimbe. 


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