martedì 13 marzo 2018

Jerusalem

A GERUSALEMME

Le ragazze “volano” durante la seduta, soprattutto il gruppo delle grandi che sta giocando con me: seguono le spiegazioni, osservano le correzioni che faccio loro a gesti, mostrando il giusto approccio alla palla e provano a colpire la sfera come io sto loro suggerendo, alcune con grande fatica, altre con semplicità, ma tutte decise a migliorarsi. Insomma, l’allenamento sta andando alla grande sul campo di Beit Safafa, nella parte palestinese di Gerusalemme, ma a qualcuno questa cosa non garba. A qualcuno non piace che quelle bimbe siano in campo, a qualcuno non va proprio giù che anche il gentil sesso vesta la maglia e soprattutto i pantaloncini corti dell’Inter, a qualcuno pare una sfrontata mancanza di pudore, di rispetto, la presenza di 19 bambine dagli 8 ai 14 anni sul sintetico, decise ad imparare a giocare a calcio. E questo qualcuno al momento della preghiera manifesta come meglio può il suo dissenso: spara a mille decibel gli altoparlanti per il richiamo dei fedeli e ripete più volte rispetto al normale il suo canto, dalla moschea che si staglia sul lato lungo del nostro campo di gioco. In piena “trance agonistica” inizialmente non faccio molto caso al volume del muezzin e cerco di coprire la sua voce alzando il mio tono nei richiami, negli incitamenti, ma quando incrocio lo sguardo di Ali che con largo anticipo mi fa segno di chiudere la seduta, capisco che qualcosa non sta andando per il verso giusto. Ma me ne frego. E porto a compimento l’esercitazione e la partitella seguente. Qui va così: le bambine su questo campo non ci possono stare. Ed è già un mezzo miracolo che siamo riusciti a farle allenare fino ad adesso, tra le mille proteste che piovono addosso ai nostri allenatori e ai vari Ali e Hassan, gestori del campo e nostri partner. Già i bimbi con la kippa sullo stesso campo dei loro figli, avevano creato non pochi problemi, ora anche queste “scostumate” in neroazzurro…è ora di finirla. E infatti alla riunione con i genitori che segue l’allenamento il messaggio è chiarissimo: le ragazze devono andarsene. Troviamo un altro campo, ma la situazione sta diventando troppo complicata. E va capita. E rispettata. Non siamo a casa nostra, non è la nostra testa a decidere: siamo ospiti e in questo campo valgono altre regole, vale un’altra cultura e se vogliamo continuare a fare ciò che stiamo facendo dobbiamo adeguarci alla situazione, senza pensare di essere noi dalla parte del giusto. Strappiamo quindi la promessa di poter continuare fino a fine stagione con le nostre bimbe e nel frattempo cercheremo un altro spazio di gioco, dove poter allenare la nostra squadretta senza dar fastidio a nessuno.


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