martedì 20 gennaio 2015

Due passi in favela

DUE PASSI IN FAVELA

“Noè non viene”, mi dice Goveia. “Ha bucato e non riesce a venire a prenderci. Come torniamo in Lixeira”? Chiede il nostro amico angolano. “A piedi”, suggerisco io. “Tanto non è lontano”. Annuisce. “Ta bom. Vamo”. E così, finalmente, dopo 7 anni di Angola riesco a camminare per la Favela senza essere costretto in macchina a saltare sul sedile a causa delle buche della strada, o scortato da mille ragazzi mandati da Ste, super prudente, quando non si tratta di guidare. 
Finalmente, perché così riesco a vedere, vivere un po’ meglio la realtà dentro la quale lavoro e soprattutto la realtà da cui provengono i nostri bambini e i nostri allenatori. 
“La vita è un viaggio da fare a piedi”, per poter avere il tempo di vedere, capire, toccare con mano, per poter avere il tempo di osservare e riflettere, senza essere vittime della velocità della macchina, utile, se non fondamentale per gli spostamenti, ma anche nemica dello sguardo indagatore del viaggiatore. Ecco perché finalmente. Perché fino ad oggi sono passato attraverso la favela, è stata lei a venire da me, in questo o in quel campo, è stata lei a farsi conoscere attraverso questo o quel bambino, questo o quell’allenatore e attraverso la sua storia, il suo comportamento, il suo modo d’essere. Oggi invece posso andare io da lei, passarle attraverso e osservare qualcosa in più. Non che mi aspetti chissà quale scoperta, chissà quale realtà inimmaginabile, non che voglia camminare in favela come volevo correre sul Golden Gate, per il gusto dell’archiviazione di un nuovo ricordo; niente di tutto questo. Voglio conoscerla. Cacchio, son sette anni che vengo qui e ancora non riesco ad orientarmi! È come se a Villasanta non fossi mai passato a piedi da San Fiorano! E allora “vamo Goveia, vamo Lore”! Usciamo dal campo e torniamo a “casa”. L’odore dei bagni di San Siro dopo il derby domina l’aria della strada, sconnessa, polverosa, piena di buche senza fondo e fatta di rifiuti; chiusa a destra e a sinistra da case di pietra mezze diroccate, col tetto in lamiera, polverose e sporche, ma soprattutto troppo piccole per poter accogliere un nucleo famigliare angolano, ossia almeno 5 persone. Eppure, nonostante tutta questa fatiscenza, queste strade sono invase da bambini, ragazzi, adulti e anziani: la vita si svolge li, lungo le sue diramazioni, sui suoi rifiuti. I più giocano a calcio (e come cacchio facciano mi rimane oscuro! La palla, se tale può essere considerata, non può fare la sua normale corsa sul terreno a causa delle sue infinite sconnessioni; bottiglie di vetro o plastica, tubi e carta e plastica di ogni provenienza colonizzano ogni suo spazio, macchine, motorini e gente varia in continuo passaggio invadono il “campo” in ogni momento…come cacchio fate a giocare???), generalmente fin quando il sole è alto sono i più piccoli i protagonisti, per poi, per una legge non scritta, man mano che la nostra stella inizia la sua discesa, lasciare spazio ai più grandi, e insieme a loro c’è gente che fa da pubblico, gente che ha il suo “negozio” e altra che…è li. Non so a far cosa, ma è li, seduta, che…vive la strada. Gira di qui, entra in questo beco (che non so se si scrive così, ma so che è un viocoletto, una stradina particolarmente piccola), svolta di la’, il mio tentativo di orientarmi svanisce dopo poche centinaia di metri, fatto sta che dopo poco più di venti minuti scorgo l’enorme struttura della scuola di Dom Bosco in lontananza, con alle spalle quella che è oggi una spianata e che un tempo era il Roque Santeiro. Il tempo di incrociare Dunga fuori da casa sua e portargli le nostre condoglianze per la morte della madre (scopro che qui “obito”, ossia il funerale, è un’occasione di festa che può durare anche un mese, durante il quale gente da ogni dove viene a rendere omaggio al defunto e canta, balla, mangia e soprattutto beve in compagnia) ed eccoci arrivati, pronti per il pranzo con i nostri preti e con tutta la comunità e pieni anche di questa esperienza. 

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