Congo Brazzaville
CONGO BRAZAVILLE
Il giro di basso
di Time degli Anthrax si scatena nelle mie orecchie e da inizio a questo tour
improvvisato di Brazaville che segue la lunga, lunghissima giornata di oggi e la
tre giorni di corso. Improvvisato, ma assolutamente emozionante. Son rimasto
solo, il mio compagno di avventure è rimasto in camera per prepararsi, avendo l’aereo
già questa sera ( e da un lato lo invidio un sacco. Ho una voglia matta di
tornare dalle bimbe, visto che son rientrato da Juba domenica mattina alle 7
dopo una settimana e la sera dello stesso giorno sono ripartito!), ma essendo
solo le 3 e avendo tutto il pomeriggio davanti, e soprattutto non dovendo studiare
visto che sono stato inesorabilmente bocciato ieri all’esame di anatomia
(sostenuto in pausa pranza, nell’ufficio del direttore tecnico della nazionale,
con un modem tutto per me acceso al mio fianco), decido di non imbruttirmi in
palestra o in piscina, ma di uscire, allo scoperta di questa città. Tutti mi
han detto che è sicura, che non ci son pericoli, le sere precedenti sono uscito
a correre sulla corniche e mi son sentito sicuro, lontano da ogni pericolo, per
cui musica nelle orecchie e via. Lascio il lungo fiume dopo aver attraversato
il ponte e inizio ad esplorare l’interno, le strade non asfaltate, con baracchini che cuociono polli e pesci
indecifrabili; mi fermo a parlare con una signorona seduta dietro un banchetto
per chiederle che razza di pesce sia quello che sta cucinando, ma purtroppo
parla quasi esclusivamente lingala e non riesco a capire che bestia sia. Poco
più avanti un ragazzino con la maglia dell’inter mi chiede di fermarmi al suo “negozio”
(un bidone ribaltato, sopra il quale è esposta la sua mercanzia: arachidi
grigliate) e vista la maglia che indossa, non posso che accontentarlo. Nel
frattempo, ho spento la musica, ho deciso di lasciarmi avvolgere completamente,
tutti i sensi devono aiutarmi a scoprire questo posto. Il ragazzino avrà più o
meno 12 anni, lavora li quando non va a scuola e mi domando quanto mai potrà
guadagnare al giorno. Chiedo un sacchettino di arachidi, pur essendo quello con
lo zucchero che proprio non gradisco, ma ho in tasca solo un “grande biglietto”
come dice lui (1000fca, ossia circa 1,5 eurini) e non ha il resto. Niente, non
posso acquistare e non voglio lasciarli i soldi come se facessi la carità. Mi
sembra di mancargli completamente di rispetto, di offenderlo. Lo saluto “forza
inter”, gli dico. Sorride, ma non credo sappia cosa abbia detto. Penso che
indossi quella maglia non per scelta, ma perché quella è arrivata. Chissà come,
chissà perché, ma quella ha in casa e quella mette. Così come le altre maglie di
club italiani che vedo indossate da chiunque qui intorno: non penso siano
indossate per scelta, perché tifosi, ma solo perché quello è arrivato, quello
hanno trovato. Magari dico una cazzata. Proseguo il mio tour e un po’ di fame
mi assale: in fin dei conti ho fatto colazione questa mattina alle 7:30 e ora
son le 16 e ho passato circa tre ore a muovermi su e giù per lo stadio
nazionale a dar consigli agli allenatori per migliorare la gestione della
seduta, a correggere i bambini e le bambine nell’esecuzione dei vari gesti
tecnici trattati nelle diverse sessioni d’allenamento, a incoraggiare e “gasare” i vari bimbi
coinvolti nel progetto. Insomma, la fame è giustificata, per cui, seguendo l’odore
di griglia che riempie le mie narici, entro in un cancello…pardon, in un ristorante.
Posso dire un ristorante autentico, originale: una mega griglia con dei polli a
cuocere, dei mega pentoloni con manioca, saka saka e ndole e una decina di persone
seduta su seggiole di plastica che mangia qualcosa, ma soprattutto beve, e
parla, ride e commenta la partita che viene trasmessa in tv (Sud africa
marocco, che ho visto ieri live). Non sono una persona socievole, per nulla,
non sono solito approcciarmi ad altri esseri umani e parlare, chiedere, cercare
un contatto, ma qui, non so dire perché, mi viene naturale, per cui chiedo due
brochette di poulet con del riso e mi siedo a un tavolo. Gli occhi di molti
sono su di me: che cazzo ci fa un bianco qui? Dicono i loro occhi. Sorrido, non
mi sento a disagio. Ancora una volta non so perché, ma son tranquillo. A monza,
da solo, in un bar, pub o ristorante con intorno gruppi di persone che tra loro
si conoscono e di cui io non conosco nemmeno il nome, sarei in estrema
difficoltà. Perché qui no? Anzi, attacco anche bottone con un vicino, che mi chiede
come mai sia in congo e se mi piace il suo paese. Mah…Riparto. Pago i circa 6
euro per il mio pasto e per la mia acqua, e son di nuovo per strada. Seguo una
via asfaltata per un po’, passo vicino a una chiesa dove diversi gruppi di bambini
stanno giocando a calcio in quello che potrebbe essere l’oratorio; quindi, mi
ritrovo in un mega mercato. Poto-poto, il nome. Cammino tra merci di ogni
genere (scarpe adidas con quattro strisce, maglie guci, con una c, orologi “d’oro”
e mille altre repliche di quel mondo occidentale che sembra stiano inseguendo,
non so poi perché), ma anche qui non avverto pericolo, non mi sento a disagio.
La gente intorno mi invita nel suo “negozio”, ma al mio declino non insiste,
sorride, mi segue, ma tutto in estrema semplicità. Esco dal mercato che siamo
ormai vicini al calar del sole: fin qui tutto bene, ma con le tenebre, meglio
non correr rischi. Mi avvicino a un poliziotti, gli chiedo come arrivare alla
corniche et…voilat. In meno di un’ora sono in hotel. Direi che ho anche il
tempo per andare ad allenarmi.
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