Il canto del muezzin
Quel canto che
scandisce il tempo delle giornate nei paesi musulmani e che oggi mi accompagna
su questi campi kuwaitiani, mi riporta sempre con la mente alla prima volta in
cui mi ci sono imbattuto. Ero a Sarajevo, anno domini 2004, e dopo
l’allenamento in quel mega campo vicino all’aeroporto con gruppi di bambini a
raffica che mi tennero impegnato per circa tre ore, una volta rientrato in
hotel, decisi di uscire per un allenamento. Ai tempi (madonnina che frase da
vecchio) giocavo ancora, ero a caravaggio e il preparatore mi aveva dato un
programma da seguire, per cui armato di foglietto con i tempi e il lavoro da
svolgere, uscii un po’ intimorito, ma curioso, per esplorare la città. E dopo
pochi passi, senza nemmeno aver concluso il riscaldamento, il timore si
trasformò in estasi, al punto che promisi a me stesso che avrei visitato ogni
paese, ogni città, ogni villaggio del mondo di corsa, attraverso quella
modalità: correndo, esplorandone le strade in piacevole affanno aerobico. E
proprio durante quel’ allenamento che ancora oggi ho bene in testa, partì
questo canto: era il tramonto e il muezzin chiamava i fedeli alla preghiera, ma
io ero assolutamente all’oscuro di tutto ciò e rimasi affascinato da quelle
melodie che all’unisono, più o meno, alcune gracchiando per via degli
altoparlanti difettosi, altre pulite, riempivano il cielo scuro della città.
E oggi, a
distanza di vent’anni, lo stupore rimane il medesimo.
Questa volta sono
in campo, al centro olimpico del kuwait, con 36 allenatori e circa 40 bambini,
per dimostrare ai primi come proporre un allenamento “educativo” ai secondi, e
quando il canto inizia non è sera, ma è il canto per la preghiera del
pomeriggio (salat al sar credo si chiami, o qualcosa di simile), ma poco
cambia. Mi distraggo un attimo, mi allontano con la testa da questo paese ricchissimo,
in enorme crescita dopo la guerra di inizio anni 90 che ha segnato per decenni la
popolazione e le città, ambizioso e in grande competizione con gli altri stati
del golfo, per rivedermi sulle colline bosniache a correre e a godermi quella
scoperta. E un sorriso di soddisfazione e il bisogno di ringraziare Dio per la
fortuna che ho, accompagnano il mio “volo pindarico”. A vent'anni di distanza
sono ancora qua, altri campi, altra maglia, ma stesso spirito. Se non è fortuna
questa, non so cosa possa essere considerata tale
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