Malawi e costa d’avorio
Ma è possibile che non riesca (o non voglia?) trovare il
tempo di fermarmi un attimo a scrivere e fare un po’ un riepilogo di ciò che
sto vivendo? Cazzarola, così è troppo un casino. Dunque, riavvolgiamo il
nastro: l’ultima volta che ho preso in mano il mio diario virtuale ero a
Djakarta, Indonesia, immerso in una quattro giorni tra aula e campo insieme ad
Antonio, con 23 allenatori proveniente da tutto il paese (e il paese è enorme…).Ricordo
bene la corsa del sabato in giro per la città, fino al monumento commemorativo
dell’indipendenza, un ritorno travagliato con 4 ore di ritardo a Doha, una
splendida gita in montagna con le mie donne, due ore dopo il mio atterraggio a
Milano, e poi…di nuovo in volo. 48 ore a casa e si riparte. Destinazione
Malawi.
Ennesimo viaggio della speranza, alleviato per lo meno dal
biglietto business, che mi permette di viaggiare comodo (milano-addis ho studiato
giusto un paio d’ore, poi ho stretto una fortissima amicizia con Morfeo), ma
posso ora dire che ne è valsa la pena. Mi mancava tantissimo, e non lo sapevo,
l’odore dell’aria, del caldo umido di alcune città africane dove ho avuto la
fortuna di passare; la terra rossa, rossissima, a bordo strade, fuori dalle
principali vie di comunicazioni, pronta a diventare fanghiglia iper appiccicosa
al primo accenno di pioggia; la natura, la foresta, verde, verdissima, che
incombe alle spalle delle umane costruzioni, pronta a riprendersi ciò che le
appartiene non appena il cancro della terra non si distrae un secondo; la
gente, in giro, in movimento, sempre, ad ogni ora del giorno o della notte, con
ogni tipo di mercanzia in testa a sfidare le leggi della gravità, dalle scarpe,
ai secchi pieni di mango o banane; e infine il campo, i bambini, il loro
caotico modo di vivere l’allenamento, la partita, il calcio in generale.
Tecnicamente tutti dotati, ma incapaci, per lo più, in situazione, di sfruttare
il loro potenziale tecnico per “giocare realmente” a calcio. Il potenziale di
tanti bambini che ho allenato, visto, in campo in questo enorme continente del
mondo (anche se circoscriverei questa riflessione all’africa nera, sud sahariana)
è elevatissimo: hanno grandi competenze motorie, si muovono in maniera
armoniosa e anche con il pallone tra i piedi non perdono la loro grazie ed
efficacia, ma una volta usciti dal contesto individuale, si perdono. Palloni a
tre metri dal piede, ricezioni frontali, per lo più nei piedi dell’avversario,
nessuna occupazione degli spazi secondo un criterio, assenza per lo più totale
del concetto di smarcamento, di ampiezza, di profondità o sostegno che sia. Un
gran rebelot. Tutti sulla palla e il più forte se la prende.
Certo, non son qui per la sola questione calcistica, però son
convinto del fatto che se vuoi davvero sfruttare il calcio come mezzo per
educare, per crescere bambini e bambine, devi insegnare loro come fare, come
giocare. Altrimenti non si divertono, non si appassionano e di conseguenza
tutti i messaggi educativi che vuoi loro passare finiscono dispersi, non
arrivano da nessuna parte. Tutti vogliono giocare a calcio, tutti vogliono calciare
la palla e fare gol, tutti vogliono provare un dribbling. C’è poco da fare.
Questo è il punto centrale. Soprattutto se fanno parte di un progetto della
fifa. Solo così puoi pensare di educare attraverso il calcio. Altrimenti il
calcio rimane solo una scusa, uno strumento che non viene sfruttato in tutta la
sua forza, in tutto il suo potenziale. Quindi…sotto con gli allenamenti.
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