domenica 15 dicembre 2019

Ricordi dal campo


UGANDA, Dicembre 2019
È da tanto che non prendo in mano questo computer per buttar giù un po’ di parole, per lasciar defluire i miei pensieri e svuotare il mio cervello, il mio petto, ma forse per il ritmo frenetico di questi mesi nel viaggiare, forse anche per gli accadimenti, non son fin qui mai riuscito, o meglio non ho fin qui mai voluto trovare il tappo da tirare e ho sempre preferito rimandare, accantonare in un angolo le cose e aspettare. Ora però, durante questo infinito viaggio verso Kigali prima e Entebbe dopo, che mi sta tenendo incollato, fermo e annoiato al mio posto già da più di sei ore, ho sentito il bisogno, l’esigenza di vomitare su questa tastiera qualcosa. Non so per quale motivo, non so nemmeno perché ora stia fissando su questo schermo proprio questa cosa, ma poco fa, mentre finiva il film col quale provavo a far passare il tempo, da non so quale remoto angolo della mia memoria è saltato fuori un momento della mia vita che nemmeno ricordavo e che ora mi è apparso in tutto il suo splendido e fortissimo realismo. Saranno stato le note del boss, sarà stata la storia che stavo guardando a condizionarmi, ma all’improvviso l’aereo su cui sono seduto si è trasformato nel vecchio “carrozzone”, la macchina di papà, volvo 740 station wagon, grigio scuro, e io dallo scomodo seggiolino con al mio fianco il signore Rwandese dormiente, mi sono ritrovato seduto al posto del passeggero con papà alla guida, direzione Interello. Era forse il 1993, o il 94, e l’Inter mi aveva chiamato per un provino, così finita la scuola volo sul carrozzone per andare a giocare, ma…la tangenziale ovest è bloccata. Bloccatissima. Non ci si muove e inesorabilmente l’orario della convocazione viene raggiunto e superato, con noi, io e papà, ancora fermi lungo la strada. Piango, cazzo, piango disperato! Una occasione come questa persa per un maledetto incidente e niente che possiamo fare per rimediare. Papà però non si scompone, non è nervoso, mi continua solo a ripetere a mo’ di mantra “prima o poi arriveremo e potrai allenarti”. Lapalissiano, oserei dire. Certo che prima o poi arriveremo, ma cazzo non all’orario della convocazione e chissà quindi se davvero potrò cambiarmi e partecipare alla seduta! Non vedo luce in fondo al tunnel, nonostante i tentativi del mio daddy e quando finalmente arriviamo al centro sportivo mi catapulto fuori con la lettera di convocazione in mano, sperando di poter far qualcosa nonostante il terribile ritardo. Mi accoglie, per modo di dire, Giampiero Marini, che ritira la mia lettera, non dice una sola parola riferita al ritardo clamoroso, mi indica lo spogliatoio e mi dice che avremmo fatto una partita e che avrei giocato terzino sinistro. E che cazzo, ma oggi non me ne va bene una! Sono destro, il mancino so di averlo giusto perché mi accorgo di non camminare zoppo, e ora mi volete far giocare sul piede debole? Ma allora c’è una congiura contro di me, penso terrorizzato e un po’ incazzato. Poi però mi danno la maglia bianca col numero tre, esco a far riscaldamento e qualcosa scatta: chi se ne frega del ruolo! Vediamo di combinare qualcosa. Corro, attacco, difendo e…segno. Di destro, però. E per tutta la partita, almeno questo è ciò che la mia mente mi fa’ rivivere, gioco e mi diverto, senza timori o emozioni negativa. Al triplice fischio ci radunano in mezzo al campo e il mister fa tre nomi, dice a tre di noi di fermarsi. E io sono tra quelli. Ci consegna un pallone a testa mentre i compagni di quel giorno escono dal terreno di gioco e ci chiede di palleggiare, cambiando continuamente la richiesta: piede forte, piede debole, alternato, con le cosce…Quindi ci mette a triangolo e ci fa calciare e ricevere il pallone, chiedendo diverse ricezioni e diversi stili di calcio,  per poi portarci a condurre e calciare in porta, prima di liquidarci con un freddo “ti faremo sapere noi. Contatteremo noi la tua società”. Le emozioni sono tante, tantissime in me, dall’euforia per la buona partita giocata, alla preoccupazione legata al non sapere cosa succederà di me; dall’orgoglio per avere per la prima volta vestito quella Maglia e aver giocato a Interello, al timore di non essere stato all’altezza. Ricordo bene quel campaccio in terra (il sintetico era ancora di la da venire); ricordo che faceva freddo; ricordo che lo spogliatoio era gelato e vecchio, vecchissimo ed era sporco, sporchissimo, pieno di fango lasciato dalle scarpe dei ragazzi che mi avevano preceduto; ricordo di non aver parlato quasi per nulla con papà al ritorno, ma di aver percepito della soddisfazione, della felicità in quelle poche che ci siamo scambiati. Non mi ha gasato, non mi ha riportato drasticamente coi piedi per terra: mi ha lasciato lo spazio e il tempo per godermi quel momento, senza interferire, senza parole inutili, senza dirmi lui cosa avrei dovuto pensare o provare. Ed è questa una cosa che forse al momento non ho compreso, ma che ora apprezzo e dalla quale voglio prendere esempio per il mio ruolo di papà: sostieni, accompagna, stai loro vicino, ma lascia che siano loro a far le cose, a viverle e a sentirle. Non sostituirti a loro, non enfatizzare o drammatizzare le cose, per non rischiare di imporre il tuo sentito, ciò che vuoi tu a ciò che vorrebbero loro. E poi vediamo cosa succede, sempre con me al loro fianco. Come è stato ed è per me. Anche se ora al mio fianco son tornato ad avere il mezzo alcolizzato rwandese…



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