Zurigo-PNG in sole 32 ore...
ZURIGO-PORT MORESBY
Dopo tre intensissimi
giorni a Zurigo, in HoF (mi piace questo nickname: house of fifa), eccomi in
volo da ormai quasi 20 ore! Madonnina, ho le piaghe al culo! Ma andiamo con
ordine: cosa ci facevo questa volta a zurigo? Dopo due anni di insistenza, due
anni in cui ai diversi manager che si sono succeduti a capo del progetto ho
illustrato il mio progetto di creare un area tecnica, selezionando almeno 5
allenatori, uno per continente, così da avere un supporto operativo in loco,
utile per girare tra i vari nuclei, le varie scuole del progetto, per
controllare, supportare e riportare, e fondamentale per iniziare un percorso di
“refresh”, finalmente grazie anche al supporto di Antonio, convinto come me
della necessità di queste figure, eccoli qui, gli allenatori selezionati. Da Costa
Rica, Chile, Jamaica, UK, Burundi, India e Thaiti, tutti con un corposo e
interessante cv, tutti con una qualche forma di collaborazione già attiva con
FIFA, eccoli con noi per questo workshop durante il quale con il sostegno di
Anto ho avuto come primo obiettivo quello di illustrar loro cosa dovranno fare,
come dovranno fare ciò che chiediamo e soprattutto come assumere questo nuovo
ruolo, per loro, di coach educator, trattando anche una parte, per me sempre fondamentale,
in campo, con bambini. Due allenamenti gestiti da me e uno da loro. E il campo,
paradossalmente, da quando ho a che fare con allenatori con il cv di cui sopra,
è sempre un momento “difficile”. Non che abbiano combinato casini, le sessioni sono
andate bene, i bambini erano coinvolti e divertiti, ma emergono sempre gli
stessi limiti, le stesse imperfezioni, che non mi aspetto da questi profili: uso
della voce (figa, sussurrano), postura in campo (chi con le mani dietro la
schiena, chi si rivolge al gruppo, dando le spalle ad alcuni bambini), ma soprattutto
in difficoltà nel gestire “l’emergenza”, la situazione non controllata,
inaspettata ( l’esercitazione non viene, non prende forma, i bambini sono in
difficoltà e va “scalato” l’esercizio, lo spazio scelto è evidentemente troppo
poco per permettere ai bambini di realizzare l’esercizio…). Ripeto, sono
sfumature, alla fine non ci son state interruzioni, problemi evidenti, ma
dovendo loro diventare degli allenatori di allenatori, credo non debbano aver
bisogno di me per riconoscere, capire e intervenire. Ma forse sbaglio io, son
troppo esigente. È una cosa che mi chiedo spesso, soprattutto ultimamente, guardandomi
indietro, ripercorrendo alcune tappe della mia carriera. Forse ognuno ha il suo
modo e deve mantenerlo inalterato, proprio, specifico, anche con questi che per
me sono inciampi, ma che in realtà non hanno ripercussioni sulla seduta, sui
bambini. Ripenso ai primi corsi in congo, con Alain, quando disegnavo un vero e
proprio stile, modello, che tutti gli allenatori parte del progetto facevano
proprio, adattandolo alle loro caratteristiche, ma forse, penso ora,
cancellando alcuni loro tratti. O in Angola, i primi anni con Stefano, o in
Uganda…non so. Certamente rispetto ad allora son meno “nazista”, ma certi
principi dell’essere allenatore-educatore, li ritengo fondamentali, quasi
imprescindibili. E parlo di allenatore-educatore, non di allenatore “normale”.
Questo doppio ruolo richiede e penso debba richiedere doppie conoscenze,
competenze, abilità. Non basta proporre una esercitazione, non basta migliorare
il gesto tecnico. Attraverso questo miglioramento devono passare altri
messaggi, devono arrivare altri apprendimenti e per forza di cose io,
allenatore, devo essere qualcosa di diverso. Facile allenare bambini
selezionati, ultra motivati, super appassionati di calcio; un po’ meno quando
il tuo audience è composto da bambini magari alla prima esperienza con la
palla, bambine che magari solo grazie al progetto per cui lavori hanno accesso
allo sport, al movimento, pre adolescenti con già un grande passato di violenze
e problemi di vario genere. Con loro il gesto tecnico rimane fondamentale (c’è
poco da filosofeggiare: vogliono imparare a giocare. Vogliono giocare le
partite e poter competere coi compagni durante l’intervallo a scuola, per
strada o col fratello a casa), ma insegnando come meglio entrare in relazione
con quella palla magica dobbiamo renderci conto che stiamo lavorando sulla loro
autostima, sulla loro percezione del proprio corpo, sulla loro socialità…su un
sacco di altre cose, altrettanto fondamentali. Per cui se lo spazio è troppo
stretto e l’esercitazione non prende bene il via, il bambino non si diverte,
non sperimenta, non viene “convinto”, coinvolto e magari perdiamo l’occasione
di farlo nostro, di inserirlo nella nostra squadra e di accompagnarlo,
attraverso la sfera di cuoio, nel suo percorso di crescita, di sviluppo. Per lo
meno di ciò son convinto, oggi in fifa ancora più di prima in inter, perché l’opportunità
di “catturare” bambini ora è decisamente più ampia e quindi molti più nuovi “calciatori”
possono essere formati, secondo questi principi. Nessuno di loro diventerà
professionista, ma tutti loro, si spera, diventeranno adulti con una migliore e
più ampia base educativa.
Dopo questo pippone
moralista, riprendo controllo dei miei pensieri e torno sulla terra…no, non
sulla terra, ma in cielo, in questo momento quasi prossimo all’Australia. Dove
un altro aereo mi aspetta, destinazione port moresby
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