Finalmente riesco a fermarmi e buttar giù un po' di pensieri, altrimenti dispersi nei meandri della mia malandata memoria.
Chiusa la splendida esperienza in Papua, eccomi ora in Solomon Islands, un'altra MA sperduta nell'oceano di cui poco, pochissimo sapevo e di cui poco più so ora, da 48 ore su questa terra emersa. Giusto qualche informazione in più circa il fatto che son quasi mille isole a comporre questo Paese (mille!!!) alcune delle quali già in parte sommerse dalle acque, in costante crescita per via del riscaldamento globale, e circa i loro recenti problemi di ordine pubblico (recenti, parlavano di inizio 2000) dovuto a un diffuso mal celato scarso gradimento nei confronti del popolo cinese. E la cosa mi ha lasciato perplesso. Già, perché in questi giorni ho conosciuto un po' di gente del posto, tra allenatori e funzionari vari della federazione e mi han dato tutte l'impressione di essere super pacifici, aperti, accoglienti, rilassatissimi (vanno a due all'ora, altro che!), ben lontani dall'essere figure violente, aggressive e ribelli. Invece, si vede, ancora una volta l'apparenza inganna. Inoltre, sempre parlando con le persone, ho scoperto un'altra cosa che nella mia bieca ignoranza non consideravo: non so per quale assurda congettura, per quale inspiegabile ragionamento, mi immaginavo queste isole ricche, verdi, pulite e ben organizzate, invece... povertà diffusa, sporcizia ad ogni angolo di strada (oggi ho scorto un intero fiume, fiumiciattolo, completamente coperto di bottiglie di plastica. Una cosa impressionante!), strade indecenti, traffico ad ogni ora del giorno e della notte, insomma, un macello. L'altro ieri ho deciso di uscire per il mio allenamento, di non rintanarmi ancora in palestra come in PNG, anche perché tutti mi hanno assicurato essere super tranquilla la città, nonostante tutte le problematiche, e lungo i km previsti che mi hanno portato fuori Honiara mi son imbattuto in villaggi fatti di palafitte, con gente a piedi scalzi, con indosso solo i pantaloncini (e una maglietta, se donne) intente a...far nulla. Nulla, eran per lo più tutti seduti a bordo strada e si sono animati alla vista di un povero pazzo bianco che di corsa sfidava la polvere e le bottiglie di plastica della strada. E per loro son stato l'evento della settimana: i bambini, come in africa, mi han seguito per un pezzetto, le mamme dalle palafitte mi chiamavano solo per dirmi "good evening", gli uomini mi salutavano con un cenno del capo o della mano; tutti sorridenti, all'apparenza felici di vedere questo pirla sudato. Non ho mai avvertito una sensazione di pericolo, non ho mai avvertito ostilità, nemmeno al ritorno, quando ormai era buio: qualche fuoco acceso per illuminare, qualche rara lampada, ma tutti sereni e sorridenti. Ci deve essere qualcosa che mi sfugge, che non riesco a capire, per arrivare alla felicità, vedendo queste persone. La cosa ancora più strana, quindi, rimane per me immaginarmi questo popolo scatenare sommosse perché non vogliono i cinesi da queste parti, o perché il primo ministro sottoscrive accordi economici con la cina.
Quante cose non so
Ancora una volta, se mai ne avessi avuto bisogno, ieri mattina, al risveglio, ho avuto la conferma che il jet lag non esiste. O meglio, esiste solo se ci si autoconvince del fatto che qualche ora di differenza possa influenzare il nostro sonno e le nostre giornate. Dopo l'infinito viaggio, arrivato in hotel a dir poco devastato, mi sono immediatamente attivato, sono anche andato ad allenarmi in palestra e alla sera, ore 21, testa sul cuscino e chi si è visto si è visto. Fino alle 6:30 del giorno seguente, per merito solo dell'insistente sveglia, ho dormito come un bebè. Certo, al risveglio mi son dovuto cacciare sotto una doccia gelata per realizzare dove fossi e cosa dovessi fare in quello strano posto, però le 24 ore seguenti sono andate alle grande, senza crolli o coli. La gente che ho incontrato in questo workshop sicuramente ha contribuito, ma il famigerato jet lag, ancora una volta non si è palesato. Spero rimanga un pensiero lontano anche nei prossimi giorni.
Dicevamo, la gente: sorridente, accogliente, generosa...un mix stupendo di persone provenienti da tutte le regioni, ognuno con le sue tradizioni, addirittura la sua lingua (e chi lo sapeva che in PNG coesistono circa 1000 popoli e 800 lingue! 800!!!), ma accomunate tutte da un enorme senso di fratellanza, di convivialità, di socialità. Nelle parole di tutti e nelle loro risposte alle mie domande si percepisce l'importanza che danno alla comunità, al gruppo, la centralità del bisogno di tutti di convivere con gli altri, di aiutarsi e supportarsi. In tantissimi nel gruppo di 34 allenatori/professori che sono con noi sono impegnati nel sociale nei più disparati progetti e la cosa che mi ha stupito di più è che quasi la metà di questi prof parla la lingua dei segni! Non che ci siano sordo muti ad ogni angolo, ma per includere tutti, in tante scuole, si insegna anche la lingua dei segni. Magari esagero, ma la cosa mi ha colpito un sacco. E questo loro "socialismo" lo si vede in azione durante le nostre lezioni, durante i lavori di gruppo che abbiamo proposto: tutti partecipano attivamente, con grande rispetto reciproco e grande attenzione nei confronti di tutti (abbiamo anche due prof disabili nel gruppo, ma è come se non ci fossero). Son veramente colpito. Eppure avrebbero di che essere incazzati e ben poco aperti e accoglienti: Papua è il 147 paese su 193 nella scala dal più ricco al più povero, la capitale soprattutto, ma anche altre città di questa immensa isola sono pericolosissime, soprattutto dopo il calar del sole (che palle essere costretto a correre sul tappeto), la disoccupazione è dilagante e l'abuso soprattutto di un frutto, il betel nut (una specie di cicca che si ricava da una palma, che dona sazietà, euforia ed è stimolante, donandoti quindi energia supplementare) è una piaga dilagante, eppure niente di tutto questo sembra aver intaccato i nostri compagni di avventura, così come tutto il personale dell'hotel. Insomma, meno hai e più sorridi e sei aperto e accogliente. Forse questo betel nut lo diffondono nell'acquedotto...
ZURIGO-PORT MORESBY
Dopo tre intensissimi
giorni a Zurigo, in HoF (mi piace questo nickname: house of fifa), eccomi in
volo da ormai quasi 20 ore! Madonnina, ho le piaghe al culo! Ma andiamo con
ordine: cosa ci facevo questa volta a zurigo? Dopo due anni di insistenza, due
anni in cui ai diversi manager che si sono succeduti a capo del progetto ho
illustrato il mio progetto di creare un area tecnica, selezionando almeno 5
allenatori, uno per continente, così da avere un supporto operativo in loco,
utile per girare tra i vari nuclei, le varie scuole del progetto, per
controllare, supportare e riportare, e fondamentale per iniziare un percorso di
“refresh”, finalmente grazie anche al supporto di Antonio, convinto come me
della necessità di queste figure, eccoli qui, gli allenatori selezionati. Da Costa
Rica, Chile, Jamaica, UK, Burundi, India e Thaiti, tutti con un corposo e
interessante cv, tutti con una qualche forma di collaborazione già attiva con
FIFA, eccoli con noi per questo workshop durante il quale con il sostegno di
Anto ho avuto come primo obiettivo quello di illustrar loro cosa dovranno fare,
come dovranno fare ciò che chiediamo e soprattutto come assumere questo nuovo
ruolo, per loro, di coach educator, trattando anche una parte, per me sempre fondamentale,
in campo, con bambini. Due allenamenti gestiti da me e uno da loro. E il campo,
paradossalmente, da quando ho a che fare con allenatori con il cv di cui sopra,
è sempre un momento “difficile”. Non che abbiano combinato casini, le sessioni sono
andate bene, i bambini erano coinvolti e divertiti, ma emergono sempre gli
stessi limiti, le stesse imperfezioni, che non mi aspetto da questi profili: uso
della voce (figa, sussurrano), postura in campo (chi con le mani dietro la
schiena, chi si rivolge al gruppo, dando le spalle ad alcuni bambini), ma soprattutto
in difficoltà nel gestire “l’emergenza”, la situazione non controllata,
inaspettata ( l’esercitazione non viene, non prende forma, i bambini sono in
difficoltà e va “scalato” l’esercizio, lo spazio scelto è evidentemente troppo
poco per permettere ai bambini di realizzare l’esercizio…). Ripeto, sono
sfumature, alla fine non ci son state interruzioni, problemi evidenti, ma
dovendo loro diventare degli allenatori di allenatori, credo non debbano aver
bisogno di me per riconoscere, capire e intervenire. Ma forse sbaglio io, son
troppo esigente. È una cosa che mi chiedo spesso, soprattutto ultimamente, guardandomi
indietro, ripercorrendo alcune tappe della mia carriera. Forse ognuno ha il suo
modo e deve mantenerlo inalterato, proprio, specifico, anche con questi che per
me sono inciampi, ma che in realtà non hanno ripercussioni sulla seduta, sui
bambini. Ripenso ai primi corsi in congo, con Alain, quando disegnavo un vero e
proprio stile, modello, che tutti gli allenatori parte del progetto facevano
proprio, adattandolo alle loro caratteristiche, ma forse, penso ora,
cancellando alcuni loro tratti. O in Angola, i primi anni con Stefano, o in
Uganda…non so. Certamente rispetto ad allora son meno “nazista”, ma certi
principi dell’essere allenatore-educatore, li ritengo fondamentali, quasi
imprescindibili. E parlo di allenatore-educatore, non di allenatore “normale”.
Questo doppio ruolo richiede e penso debba richiedere doppie conoscenze,
competenze, abilità. Non basta proporre una esercitazione, non basta migliorare
il gesto tecnico. Attraverso questo miglioramento devono passare altri
messaggi, devono arrivare altri apprendimenti e per forza di cose io,
allenatore, devo essere qualcosa di diverso. Facile allenare bambini
selezionati, ultra motivati, super appassionati di calcio; un po’ meno quando
il tuo audience è composto da bambini magari alla prima esperienza con la
palla, bambine che magari solo grazie al progetto per cui lavori hanno accesso
allo sport, al movimento, pre adolescenti con già un grande passato di violenze
e problemi di vario genere. Con loro il gesto tecnico rimane fondamentale (c’è
poco da filosofeggiare: vogliono imparare a giocare. Vogliono giocare le
partite e poter competere coi compagni durante l’intervallo a scuola, per
strada o col fratello a casa), ma insegnando come meglio entrare in relazione
con quella palla magica dobbiamo renderci conto che stiamo lavorando sulla loro
autostima, sulla loro percezione del proprio corpo, sulla loro socialità…su un
sacco di altre cose, altrettanto fondamentali. Per cui se lo spazio è troppo
stretto e l’esercitazione non prende bene il via, il bambino non si diverte,
non sperimenta, non viene “convinto”, coinvolto e magari perdiamo l’occasione
di farlo nostro, di inserirlo nella nostra squadra e di accompagnarlo,
attraverso la sfera di cuoio, nel suo percorso di crescita, di sviluppo. Per lo
meno di ciò son convinto, oggi in fifa ancora più di prima in inter, perché l’opportunità
di “catturare” bambini ora è decisamente più ampia e quindi molti più nuovi “calciatori”
possono essere formati, secondo questi principi. Nessuno di loro diventerà
professionista, ma tutti loro, si spera, diventeranno adulti con una migliore e
più ampia base educativa.
Dopo questo pippone
moralista, riprendo controllo dei miei pensieri e torno sulla terra…no, non
sulla terra, ma in cielo, in questo momento quasi prossimo all’Australia. Dove
un altro aereo mi aspetta, destinazione port moresby