domenica 10 marzo 2019

Ritorno in terra santa

Israele
Ogni volta che metto piede in questo lato di mondo mi sento colpevole di qualcosa, come se fossi io la causa di tutte le guerre del mondo, come se stessi complottando contro la libertà stessa del paese che mi ospiterà per i prossimi otto giorni. Non ci posso fare niente, quella bandiera bianca e azzurra, ma soprattutto tutti gli sguardi sospetti, le mille domande già in entrata, la rinomata gentilezza delle genti che si incrociano riescono ogni volta a far sorgere in me questa fastidiosa sensazione che mi accompagna per tutta la durata delle missione e che vedrà il suo apice al rientro, quando l’aeroporto Ben Gurion, come sempre, terrà in ostaggio me e il mio zaino per un paio di orette frugando fra le mie cose alla ricerca di non so mai bene cosa, per dimostrare che sono un amico del loro nemico e farmela pagare. E che palle. E poi amico di chi? Mi spiace un sacco questa cosa. Anche perché a me questo Paese piace tantissimo e la missione qui è una delle mie preferite fuori dall’Africa, che rimane per me la vera incarnazione di inter campus, ma proprio non riesco a fregarmene, a farmene una ragione, a mettermi il cuore in pace e vivere con tranquillità le domande, gli sguardi, l’ostilità diffusa, per potermi godere fino in fondo le bellezze del territorio, l’infinita storia che mi racconta, la magnificenza mistica di Gerusalemme, il sole caldo di Tel Aviv con le sue lunghissime spiagge, il cielo blu splendente tipico di questo pezzo di Terra e i campi al di qua e al di la del muro che tra i loro mille e più problemi rendono unico questo progetto. No, non ci riesco. E neanche oggi, sceso dall’aereo, ce l’ho fatta: arrivato all’ingresso dell’androne dove controllano i passaporti, in fondo alla lunga discesa, ho rivissuto le solite, spiacevoli, sensazioni. Amen, non ne posso fare a meno. Ansia in spalla ed iniziamo la nostra missione israelo-palestinese. 


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